Antonella Ceccagno (a cura di): Migranti cinesi a Prato. Roghi e successo imprenditoriale
Diffondiamo da “Inchiesta” aprile-giugno 2014 il Dossier curato da Antonella Ceccagno con gli interventi di Antonella Ceccagno, Fabio Bracci, Andrea Valzania
Antonella Ceccagno: Distretto e migranti cinesi: nuovi approcci. Introduzione al dossier
Antonella Ceccagno è docente di Lingua e linguistica cinese e di sociologia dei paesi asiatici, Università di Bologna, è tra i fondatori del Centro ricerche e servizi per l’immigrazione di Prato
Prato e i suoi migranti sono al centro dell’attenzione mondiale. Studiosi, giornalisti e media di tutto il mondo si interrogano su questo luogo che continua a mostrare caratteristiche per certi aspetti eccezionali.
Prato è stato il distretto per antonomasia, il ‘distretto esemplare’, una realtà locale vissuta e narrata come punto di riferimento economico, politico e sociale. E’ intorno a Prato che si è sviluppata buona parte di quel pensiero distrettualista che ha radicalmente innovato il modo di guardare allo sviluppo locale. Giacomo Becattini in primis e molti altri distrettualisti si sono imposti per un approccio concettuale per molti versi rivoluzionario: hanno introdotto il contesto sociale come elemento fondamentale per comprendere l’assetto produttivo peculiare della cosiddetta Terza Italia, hanno innovato la concezione del mercato e guardato con occhi diversi alla dimensione spaziale.
Oggi Prato è al centro dell’attenzione mondiale in relazione ai migranti cinesi. E’ il posto con un numero molto alto di cinesi, il posto in cui i cinesi hanno creato il più grande centro europeo di fast fashion, il posto dove l’imprenditoria cinese ha subito un attacco da parte delle istituzioni che non ha precedenti nella storia recente Europea e, più recentemente, è il posto dove il rogo in una ditta cinese ha provocato la morte di sette persone, suscitando un’ondata di indignazione che ha valicato non solo il confini locali ma anche quelli nazionali.
Questo dossier affronta la questione di Prato come distretto e come sede della più forte realtà produttiva dei migranti cinesi in Europa con l’ambizione di proporre nuovi modi di concettualizzare la realtà locale. Lo fa intendendo Prato come una città dove sono visibili in maniera macroscopica – e per molti versi drammatica – i complessi effetti di processi globali di rescaling delle città e delle aree produttive.
In primo luogo il dossier si propone di spiegare come e perché è a Prato -e non negli altri distretti italiani dove pure i cinesi sono presenti – che ha preso forma una contestazione serrata e di lunga durata dell’imprenditoria cinese; e come e perché è a Prato che è stato sviluppato il concetto di ‘doppia sfida cinese’ proveniente dalla Cina e dai suoi migranti. La peculiarità dell’approccio pratese ai migranti cinesi viene spiegata sullo sfondo del prevalere di dinamiche diverse – si potrebbe dire quasi contrapposte- nel distretto pratese e negli altri distretti produttivi italiani, benché l’uno e gli altri si siano trovati a reagire a pressioni globali molto simili.
Questo approccio permette di vedere come l’attacco contro l’imprenditoria cinese e la narrazione degli imprenditori cinesi come un problema di ordine pubblico siano legati alla drammatica crisi dell’ industria cruciale del distretto pratese – il tessile – e alle conseguenze che questa lunga crisi comporta: il rischio di perdita del controllo sulla produzione di ricchezza nel distretto a favore di un gruppo di immigranti che non sono stati cooptati nelle istituzioni del distretto, e il rischio di perdita della legittimazione politica (in senso ampio), in passato garantita dal successo dell’industria tessile locale e da benessere diffuso e coesione sociale.
In secondo luogo il dossier affronta il tema della crisi dal punto di vista delle difficoltà degli attori locali a cercare modalità per uscire dalla crisi che prescindano dal modello distrettuale storico.
Ci si chiede perché in un contesto in cui i fattori costitutivi della realtà locale odierna sono mutati al punto di renderla completamente diversa dal distretto ‘esemplare’ del passato, siano ancora la concettualizzazione tradizionale di distretto e le modalità tradizionali di cooptazione nel distretto a informare il dibattito pubblico e le strategie locali, e in particolare quelle nei confronti dell’imprenditoria cinese.
Oggi a Prato non viene messa in discussione la centralità dell’industria tessile e si fatica ad impegnarsi in maniera creativa a trovare vie d’uscita dalla crisi al di fuori del modello distrettuale nella forma che aveva assunto nel passato. La contestazione dell’imprenditoria cinese – cioè la repressione selettiva dell’imprenditoria immigrata, in atto dal 2007 – si colloca appieno nella cornice di una città a cui finora è mancata la creatività e lo slancio per valorizzare le forze creative vitali che ha al suo interno e che ha scelto invece di assicurarsi facili consensi attraverso la repressione dei migranti che hanno creato un’industria dell’abbigliamento di successo.
Anche i più recenti tentativi di dialogo con i cinesi per cercare soluzioni alla crisi rischiano di non uscire dai confini dell’approccio distrettualista tradizionale. Ci si aspetta che i cinesi contribuiscano attivamente a contrastare la crisi del tessile abbandonando la loro collocazione medio-bassa sul mercato della moda istantanea per collocarsi in una posizione medio-alta che ridarebbe ossigeno all’industria tessile locale. Questa richiesta tuttavia appare unilaterale e calata dall’alto perché non è elaborata insieme ai migranti cinesi su cui peraltro peserebbe l’onere di essere i protagonisti di un cambiamento radicale. Inoltre rischia di essere insidiosa perché non ci si chiede quanto realistica sarebbe una riorganizzazione della produzione locale nel contesto del mercato globale della moda, ne’ ci si chiede quali benefici potrebbe portare alla comunità locale e quali rischi comporterebbe e per chi. Un imprenditore italiano che a Prato produce abbigliamento di livello-medio alto ricorrendo a terzisti cinesi mi ha spiegato che lui come le poche ditte finali cinesi che sono già collocate ad un livello medio-alto usano sia tessuti prodotti a Prato o in Italia che tessuti importati, e che non sarebbe realistico per loro comperare esclusivamente tessuti made in Prato.
Insomma, il distretto è stato celebrato per le sue capacità di adattarsi ai mutamenti, ma oggi un attaccamento al modello distrettuale congelato nella forma che aveva nel passato e ai suoi modelli interpretativi potrebbe contribuire a bloccare le capacità di reazione ai mutamenti globali. La vera capacità di adattamento ai mutamenti – oggi più che mai necessaria per contrastare l’impoverimento della città sotto molteplici punti di vista – potrebbe consistere nel cercare nuove vie d’uscita dalla crisi anche insieme ai cinesi, riconoscendoli come parte attiva e vitale della città.
In terzo luogo il dossier affronta gli effetti della formazione di una classe media tra i migranti cinesi.
Negli ultimi in Italia l’immagine dei migranti cinesi è sempre più legata al denaro, al punto che oggi i migranti originari dalla Cina sono diventati l’epitome del migrante arricchito. Il sito web di Confapi di Padova presenta i risultati di una ricerca da cui emerge una diminuzione nella crescita delle attività produttive gestite dai cinesi nella provincia di Padova. La foto che accompagna il testo, tuttavia, sembra ignorare il trend decrescente descritto nell’articolo e mostra una persona dai tratti asiatici che sventola banconote (cinesi).
Il successo economico di un gruppo proveniente da un altro paese è nuovo in Italia dove le parole ‘migrante’ e ‘affluente’ riunite insieme sono ancora percepite come uno stridente ossimoro. Sulla stampa italiana infatti vengono periodicamente illustrati casi di singoli migranti intraprendenti che hanno raggiunto il successo, ma non era mai successo prima che un intero gruppo migrante venisse associato al benessere economico come succede ora con i cinesi. Siti come ‘vendere ai cinesi’ – e relative imitazioni- ci rimandano un’immagine di migranti cinesi indaffarati a comperare tutto quello di cui gli italiani in un’epoca di crisi sono costretti a disfarsi, dalla azienda alla villa lussuosa. E qui emerge l’altro elemento di novità nella rappresentazione dei migranti cinesi: la ricchezza associata a questo gruppo nazionale viene molto spesso confrontata con l’impoverimento generalizzato degli autoctoni. L’entità delle rimesse verso la Cina conferma l’immagine di un gruppo benestante: secondo la Banca d’Italia la Cina ha ricevuto 2.674 miliardi di euro nel 2012, triplicando i valori rispetto al 2005 e posizionandosi così al primo posto tra i paesi destinatari delle rimesse dall’Italia.
Dal 2006 Prato occupa il secondo o terzo posto in Italia per volume di rimesse verso la Cina. Nel 2011 le rimesse hanno raggiunto i 226,801 milioni di euro mentre nel 2012 ammontavano a 187,595 milioni di euro.
A Prato l’affluenza dei cinesi è da tempo sotto attacco, alla stessa stregua dell’imprenditoria cinese. Questo attacco è evidente nella tolleranza nei confronti di aggressioni e furti quotidiani nei confronti di cinesi. Agli inizi del 2014 Associna ha reso pubblica questa situazione creando la pagina web ‘PratoInsicura’ dove i cinesi aggrediti per strada o vittime di furti nelle loro case postano i loro commenti. Questi commenti dovrebbero essere presi molto sul serio. I cinesi protestano perché sono stanchi di essere considerati il bancomat ambulante della città e lamentano la mancanza di attenzione al fenomeno da parte delle autorità locali che sembrano considerarlo il problema di un ‘corpo estraneo alla città’. Il nuovo sindaco di Prato farebbe bene a prendere su questo tema posizioni diverse da quelle della coalizione che ha finora governato la città. Dicendo ai cinesi che ‘dovrebbero evitare di portare con sé somme di denaro che probabilmente nessun cittadino di Prato potrebbe permettersi di avere’ infatti, il precedente assessore alla sicurezza ha dato ai cinesi (e non solo a loro) l’impressione che si volessero giustificasse sia i furti e le aggressioni ai loro danni sia l’immobilità dell’amministrazione comunale su questo problema.
Ricerche recenti mostrano come la ricchezza di parte della popolazione cinese si traduca in ricchezza per la città. A Prato i cinesi contribuiscono a ridurre l’impatto della crisi non solo attraverso le loro attività produttive ma anche attraverso i consumi. Questo dossier mostra i cinesi anche nella loro veste di consumatori evidenziando le ricadute che i loro consumi hanno sull’intero tessuto economico locale. La crescita dei consumi – e dei consumi di lusso – tra i migranti cinesi è collegata al recente ingrossamento delle fila della classe media e anche alla vitalità dello spazio sociale transnazionale che collega Prato ai luoghi di origine dei migranti e che rende appetibile il mercato locale del lusso anche per consumatori che si trovano a migliaia di chilometri di distanza.
1. Antonella Ceccagno: L’imprenditoria contestata
Il rogo di Prato del dicembre 2013 in cui sono morti sette migranti cinesi ha sollevato un’ondata di indignazione in tutto il paese. Il regime produttivo adottato dai migranti cinesi è stato messo sotto accusa e molti hanno chiesto che venga fatta chiarezza sulle modalità estreme dell’inserimento lavorativo dei migranti cinesi in Italia.
Vale dunque la pena di cercare di capire come si configuri questo insediamento. I migranti cinesi hanno iniziato ad arrivare in Italia alla metà degli anni 1980 e da allora sono diventati parte integrante del panorama di molti distretti italiani. Nuove strategie globali nel manifatturiero stavano favorendo paesi dove il costo del lavoro è contenuto, la flessibilità alta e le norme sindacali assenti. L’Italia ha tentato di reagire alla nuova concorrenza globale in parte delocalizzando la produzione, soprattutto nell’est europeo, e in parte attraendo immigrati come manodopera a basso costo e ad alto tasso di vulnerabilità (Ambrosini 1999). In un contesto in cui i migranti si inserivano in Italia soprattutto come lavoratori subordinati, i migranti cinesi si sono invece insediati nei distretti della moda e dell’arredamento italiani come terzisti. Nel corso degli anni hanno sostituito i giovani italiani che avevano aspettative ben più ambiziose che seguire le orme dei genitori nella subfornitura, ma hanno anche soppiantato gran parte dei terzisti italiani che non erano in grado di reggere la nuova e agguerrita concorrenza. I migranti cinesi nei distretti italiani, infatti, offrivano e offrono tuttora produzioni a un costo dimezzato rispetto a quelle dei terzisti autoctoni, e una flessibilità totale che garantisce tempi rapidissimi di consegna.
Riorganizzazione dello spazio attraverso un uso innovativo di stasi e mobilità
In molti si chiedono come facciano i terzisti cinesi a garantire condizioni così competitive. La stampa ci ha abituati a legare la loro competitività a due cosiddetti vantaggi competitivi: il lavoro sommerso e le condizioni di schiavitù in cui sarebbero tenuti gli operai. Ritengo che il vantaggio competitivo stia altrove. Non principalmente nel lavoro sommerso – che esiste nei laboratori cinesi ma è socialmente accettato in Italia e adottato anche dagli autoctoni (Reyneri 2007), né in condizioni di schiavitù degli operai che non sarebbero economicamente vantaggiose per i datori di lavoro cinesi (Ceccagno e Rastrelli 2008).
La mia ricerca recente sui cinesi nei distretti italiani mostra che la competitività dei laboratori cinesi è invece garantita principalmente da una riconfigurazione estrema dello spazio – e del tempo – attraverso un uso inedito e creativo di stasi e mobilità (Ceccagno, in pubblicazione a).
Com’e’ forse risaputo, i laboratori cinesi sono anche luoghi nei quali molto spesso gli operai – e i datori di lavoro- vivono e dormono. Questo permette di evadere in tempi brevissimi gli ordini lavorando se necessario anche di notte. A questa organizzazione dello spazio della produzione interna ai laboratori corrisponde una mobilità temporanea inter-laboratorio che lega i laboratori cinesi di una determinata località e virtualmente tutto il terzismo cinese nei distretti italiani. Infatti, quando non arrivano ordini nel laboratorio in cui vivono e lavorano, gli operai cinesi si spostano per giorni o settimane in un altro laboratorio nella stessa città o in una città diversa, per tornare quando il loro datore di lavoro riceve nuovi ordini da evadere in tempi strettissimi.
La mobilità temporanea inter-laboratorio è una forma nuova ed estrema di flessibilità del lavoro, una flessibilità che aumenta ulteriormente la competitività guadagnata con l’uso dei laboratori anche come luoghi in cui dormire.
Laboratori-dormitorio e mobilità temporanea inter-laboratorio costituiscono dunque una radicale riorganizzazione dello spazio in cui lo spazio consiste nelle linee tratteggiate che uniscono diversi laboratori cinesi a cui servono istantaneamente operai per evadere ordini istantanei nell’altamente deperibile industria della moda istantanea.
Le due modalità di riorganizzazione del lavoro intra- e inter-laboratorio sono strettamente correlate. Anche se è controintuitivo, è proprio l’organizzazione del laboratorio come dormitorio – cioè l’epitome della stasi –che rende possibile la frenetica mobilità temporanea inter-laboratorio dei lavoratori. A sua volta, la mobilità temporanea favorisce anche la mobilità di lungo periodo dei lavoratori alla ricerca di migliori opportunità di lavoro e di business lungo tutto il territorio nazionale, e oltre (per un approfondimento si veda Ceccagno, in pubblicazione a).
E’ evidente che questa riorganizzazione dello spazio della produzione è basata su una violenta deregulation che scardina principi e conquiste sindacali. Non si tratta di un fenomeno solo italiano, ne’ solo legato ai migranti cinesi. Infatti, questa deregulation ha tratti in comune con – ma anche tratti che la differenziano da – il regime lavorativo adottato nelle fabbriche che producono per i grandi marchi stranieri nella Cina meridionale (Pun Ngai e Smith 2007) e con le fabbriche Foxconn nella Repubblica Ceca, in Slovacchia, Russia e Turchia (Andrijasevic e Sacchetto 2013).
Localizzazione, delocalizzazione in loco e rilocalizzazione
Quello che invece non è altrettanto evidente è che queste articolate modalità di riorganizzazione dello spazio della produzione sono vantaggiose per gran parte degli attori lungo la catena del valore. In particolare, la riorganizzazione dello spazio della produzione descritta sopra – che trasforma i laboratori di subfornitura cinese in una rete interconnessa, flessibile e perciò estremamente veloce- porta alle ditte finali vantaggi prima impensabili.
In primo luogo è il regime del laboratorio come dormitorio che ha permesso che i terzisti cinesi si insediassero in massa nei distretti in cui erano concentrate le ditte finali. E questo ha creato benefici immediati ai committenti italiani che prima dell’arrivo dei cinesi in linea di massima contavano su terzisti residenti in aree lontane, soprattutto nel meridione (Dunford 2006). E’ quello che definirei il vantaggio della localizzazione.
In secondo luogo i terzisti cinesi hanno reso possibile quella che nel 2003 ho definito ‘delocalizzazione in loco’ (Ceccagno 2003): hanno cioè offerto alle piccole imprese che non avevano le forze per delocalizzare vantaggi simili a quelli offerti dalla delocalizzazione, senza che fosse necessario spostare effettivamente la produzione all’estero.
Il terzo vantaggio è legato a un nuovo fenomeno globale chiamato ‘rilocalizzazione’: molti grandi marchi stanno riportando in patria alcuni segmenti della produzione che erano stati delocalizzati. Questo processo è nato come reazione ai crescenti costi di manodopera e trasporti e risponde alla nuova – o rinnovata – percezione che l’interazione costante e la contiguità spaziale tra le fasi di ideazione e quelle della realizzazione dei prodotti possano costituire la migliore organizzazione possibile della produzione (Foresight 2013). Sono convinta che i laboratori cinesi insediati nei distretti industriali italiani offrano alle ditte finali una serie di vantaggi molto simili a quelli della rilocalizzazione, oltre a quelli che in passato erano stati legati alla delocalizzazione (Ceccagno in pubblicazione a).
Tutto questo non solo conferma che negli ultimi trent’anni i distretti industriali italiani hanno beneficiato in molti modi della presenza cinese. Mostra anche come l’evoluzione del terzismo cinese verso flessibilità e mobilità estreme sia il risultato di una stretta interazione tra terzisti cinesi e esigenze emerse nei distretti italiani. Ditte finali italiane e terzisti cinesi hanno risposto insieme ai cambiamenti imposti da dinamiche globali e insieme hanno dato nuova forma ai distretti italiani e alle relazioni industriali oggi prevalenti (sulle interazioni tra migranti e contesti locali si vedano Glick Schiller e Caglar 2013).
Tuttavia, questo sodalizio viene spesso taciuto. La stampa, i politici, e talvolta anche gli esperti ci presentano la modalità di insediamento dei cinesi nei cluster manifatturieri italiani come un regime lavorativo e un modo di sfruttamento del lavoro ‘con caratteristiche cinesi’, come si trattasse di un modello alieno alla cultura locale del lavoro, importato dalla Cina bell’e pronto, proprio come le scarpe o gli oggetti per la casa a basso prezzo. Questa narrazione che presenta i cinesi come gli unici responsabili per un regime lavorativo estremo viene adottata e propagata perché permette alle ditte finali – e indirettamente alle istituzioni – di rifuggire ogni responsabilità sia per le misure che nei laboratori cinesi vengono adottate – violazione dei diritti sindacali, laboratori trasformati in dormitori, lavoro in nero – che per quelle che non vengono adottate – mancanza di sicurezza sui posti di lavoro, mancanza di separazione degli spazi di lavoro e di vita. Questo a sua volta ha permesso di non mettere mai seriamente sotto accusa il regime lavorativo dei terzisti cinesi. Klosterman, van der Leun, e Rath (1999) sottolineano che la stretta applicazione delle leggi può essere controproducente se nuoce alle attività produttive. Quando questo rischia di succedere, sostengono gli autori, le istituzioni tendono ad adottare posizioni più morbide.
Prato contesta l’imprenditoria cinese
A Prato, tuttavia, la posizione adottata è tutt’altro che morbida. Dal 2007, con il ‘Patto per Prato sicura’ i concetti di imprenditoria e migrazione vengono per la prima volta legati insieme con un’accezione negativa. Prato è il luogo dove il discorso egemonico a livello locale ha creato e istituzionalizzato una logica discriminatoria che separa l’imprenditoria degli autoctoni – legittimata e difesa – dall’imprenditoria dei migranti (cinesi) che viene narrata come dannosa per il distretto.
Feldman (2011) sottolinea come l’analisi del discorso dominante – attraverso la metodologia definita ‘non-local ethnography’- possa fornire importanti indicazioni sul modo in cui un nuovo regime prende forma e direzione. A Prato il discorso dominante che sanziona l’imprenditoria cinese ha reso possibile un intervento selettivo contro le imprese cinesi con controlli che continuano da anni e stanno contribuendo a una crisi del centro europeo di fast fashion creato dai cinesi (per un approfondimento si veda Ceccagno 2012). L’attacco selettivo si muove in maniera internamente coerente lungo due binari: l’aspetto materiale consiste – secondo quanto riferito dai cinesi che ho intervistato nel corso del 2012 – in multe esorbitanti che molti non sono in grado di pagare; l’aspetto simbolico è curato attraverso una spettacolarizzazione dei controlli, fatta di soldati che pattugliavano le strade e poliziotti con i cani lupo (nel 2008) e elicotteri in volo sopra alle ditte cinesi contro cui venivano condotti i blitz (nel 2011). Questa simbologia ha un ruolo importante perché rafforza l’isomorfismo tra imprenditoria migrante e problemi di ordine pubblico creato per la prima volta nel 2007 con il ‘Patto per Prato sicura’.
Perché l’imprenditoria cinese viene contestata proprio a Prato? Le ragioni per un approccio all’imprenditoria cinese così diverso da quello prevalente in altri distretti italiani vanno cercate nelle opposte direzioni prese dall’industria tessile e da quella dell’abbigliamento a Prato e negli effetti della crisi economica sul distretto ‘esemplare’.
Due trend opposti per le industrie del distretto
Prato è la città del tessile, un’industria che dal dopoguerra ha creato benessere e contribuito al successo internazionale del ‘made in Italy’. Nel 2001 l’industria tessile impiegava il 70% della forza lavoro locale e copriva quasi il 90% dell’export (IRPET 2013). Tuttavia, negli anni successivi è stata colpita una crisi strutturale legata a cambiamenti globali. Gli effetti della crisi finanziaria del 2008 hanno peggiorato ulteriormente le performances dell’industria tessile locale. Nel periodo 2001-2012 le esportazioni si sono dimezzate. Quella che fino al volgere del secolo era stata una tra le province italiane a più alto livello di valore aggiunto procapite, è poi risultata essere la penultima provincia italiana in termini di variazione del valore aggiunto tra il 2000 e il 2008 (IRPET). La crisi sta provocando una situazione di grande turbolenza socio-economica.
Negli stessi anni in cui l’industria tessile veniva dimezzata dalla crisi, i migranti cinesi davano avvio a uno spettacolare processo di sviluppo della locale industria dell’abbigliamento.
Prato è l’unico posto in cui dalla fine degli anni 1990 i cinesi sono passati in massa dal ruolo di terzisti a quello di ditte finali. Secondo i dati della Camera di commercio, due terzi delle 4.830 ditte cinesi a Prato sono attive nella produzione e commercializzazione di capi di abbigliamento. I dati ufficiali non distinguono tra ditte finali e terzisti. Dalla mia ricerca sul campo emerge che circa 900-1000 ditte finali cinesi erano attive nel 2011 ma circa 100- 200 erano in procinto di chiudere nel 2012 (Ceccagno 2012). I circa 2200 -2400 terzisti cinesi di Prato lavorano per conto delle ditte finali cinesi, per un numero ridotto di ditte di abbigliamento gestite da italiani a Prato (il 20% del totale) e da ditte finali gestite da italiani nel resto della penisola.
Prato è dunque anche l’unico posto in Italia dove i migranti cinesi sono riusciti a creare un fiorente centro internazionale della moda di livello medio-basso che attrae clienti da tutta l’Europa e oltre. Nessuno degli attori locali si aspettava negli anni 1990 una crescita così impetuosa del settore dell’abbigliamento – prima modesto – e un successo a livello europeo del centro di fast fashion animato principalmente dai migranti cinesi.
Quindi alle dinamiche normalmente complesse tra autoctoni e migranti, nel caso di Prato si aggiunge un ulteriore elemento di complessità: lo sviluppo del centro di fast fashion gestito principalmente dai cinesi è coinciso con una crisi strutturale che ha gettato la città in uno stato di prostrazione.
L’alieno Wang e gli imprenditori nostalgici occupano la scena culturale italiana
Queste dinamiche divergenti a livello pratese tra l’industria a prevalenza italiana e l’industria prevalentemente gestita dai cinesi si intrecciano con la storia nazionale recente di competitività italiana nell’industria manifatturiera perduta a vantaggio della Cina. Gereffi e Frederick (2010) sostengono che la Cina è il grande vincitore nelle due crisi della catena del valore del tessile e abbigliamento a livello globale: 1) l’eliminazione delle quote per il tessile e abbigliamento conclusasi nel 2005 -che ha favorito l’accesso di economie povere e/o di dimensioni modeste ai mercati dei paesi industrializzati -, e 2) l’attuale recessione economica che ha portato alla disoccupazione diffusa in tutta l’industria.
Da circa un decennio in Italia la Cina viene rappresentata come il responsabile del declino industriale italiano. Una metafora italiana dello scontro mortale con la Cina è rappresentata dal film ‘L’arrivo di Wang’ in cui un alieno dall’aspetto di piovra che parla solo cinese e risponde al nome di Wang arriva in Italia e distrugge il pianeta terra. Il film si chiude con il primo piano dell’ingenua interprete italiana che aveva dato fiducia all’alieno e che ora si aggira ferita tra le rovine.
Prato, tuttavia, offre una versione più articolata delle preoccupazioni italiane legate alla Cina. E’ a Prato che è stato sviluppata la concettualizzazione della ‘doppia sfida cinese’ (Dei Ottati 2009) che dipinge i migranti cinesi come parte integrante della pressione dalla Cina che pesa sui distretti italiani. Questa ideologia sviluppata a livello locale viene proposta a livello nazionale dal libro Storia della mia gente di Edoardo Nesi che nel 2011 ha vinto il premio Strega. La tesi di Nesi è che il fallimento delle piccole e medie imprese italiane va imputato alla ‘ridicola truffa della globalizzazione’ – con i suoi ‘profeti’ italiani – e all’imprenditoria dei migranti cinesi.
La narrazione della ‘doppia sfida cinese’ è stata sviluppata a Prato perché è a Prato che i cinesi hanno occupato segmenti a maggior valore aggiunto nell’industria dell’abbigliamento, hanno creato un fiorente centro di fast fashion e stanno progressivamente occupando anche altri segmenti della filiera come le tintorie e le rifinizioni – fino a poco tempo fa completamente controllate da italiani. Inoltre l’approvvigionamento di parte dei tessuti e accessori viene fatto in Cina (ma non solo dai cinesi).
Produzione di ricchezza e legittimazione sociale
Quindi le dinamiche oggi prevalenti nel distretto di Prato non garantiscono più che la ricchezza prodotta localmente vada nella direzione in cui era andata in passato. Gli imprenditori del tessile si sentono oggi spossessati del ruolo di produttori e principali fruitori della ricchezza prodotta localmente. E’ Edoardo Nesi a dirci che gli imprenditori pratesi del tessile oggi si sentono impigliati nel passato: adottando un’abile tecnica narrativa che sovrappone imprenditori pratesi e consumatori italiani feriti dalla globalizzazione (Zhang 2013), Nesi li definisce ‘quelli che schiumano rabbia e nostalgia per il passato’ giacché ‘non riescono più a immaginarsi un futuro’ (Nesi 2013a, 2013b).
Strettamente legato a questo è la questione della legittimazione politica. Dalla metà degli anni 2000 – da quando cioè la crisi del tessile pratese è conclamata e irreversibile – chi detiene il potere politico a Prato sente vacillare la propria legittimazione.
Ritengo dunque che il rischio di perdere il controllo sulla produzione di ricchezza nel distretto e la paura di perdere la legittimazione politica siano le principali ragioni che hanno portato il discorso egemone a Prato a creare un isomorfismo che associa l’imprenditoria cinese a problemi di ordine pubblico (Ceccagno in pubblicazione b). Non a caso a nessuno era venuto in mente di attaccare l’imprenditorialità dei migranti cinesi negli anni 1990 quando la vera crisi non aveva ancora colpito il tessile pratese e quando la stragrande maggioranza dei cinesi si limitava a lavorare come terzista per italiani, e le ditte finali gestite dai cinesi erano davvero poche.
Ma Edoardo Nesi non è stato il solo a portare a livello nazionale il discorso dominante a livello locale. Subito dopo il recente rogo di Prato, il cordoglio e l’indignazione generalizzata a livello nazionale si indirizzavano in direzione di un attacco esclusivamente rivolto contro l’imprenditoria cinese – e non contro l’intero sistema produttivo che l’ha incorporata e incoraggiata –, quindi esattamente nella direzione della narrazione da anni egemone a Prato.
Ritengo tuttavia improbabile che questa narrazione ora adottata anche a livello nazionale si traduca in tentativi di smantellamento dell’imprenditoria cinese simili a quello in corso a Prato. Negli altri distretti italiani i cinesi sono sostanzialmente bloccati nella subfornitura, che è tradizionalmente l’anello debole della catena produttiva. Sono quindi principalmente le ditte finali italiane a beneficiare della loro flessibilità estrema, e non ci sono ragioni perché abbiano fretta di sbarazzarsi di terzisti che offrono vantaggi competitivi impensabili al di fuori di quel regime produttivo.
Riferimenti bibliografici
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2. Fabio Bracci: La ‘scatola nera’ e la presenza cinese. Crisi del distretto e crisi del distrettualismo.
Fabio Bracci è dottorando in sociologia dei fenomeni culturali e dei processi normativi presso l’Università di Urbino
La crisi del distretto e la presenza cinese
Due fenomeni macroscopici hanno interessato il territorio pratese negli ultimi venti anni.
Il primo è il progressivo dispiegarsi della crisi di quello che in letteratura è stato studiato e descritto come un tipico “distretto industriale marshalliano”. Sebbene a Prato la crisi si sia manifestata congiuntamente alle cattive prestazioni dell’economia regionale, nazionale e dell’intero sistema moda italiano (Irpet 2014), il sistema produttivo locale ne è stato colpito in modo particolarmente grave (Irpet-Provincia di Prato 2014: 14-16). La mancata individuazione di strategie di sistema finalizzate a fronteggiare gli effetti della piena apertura dei mercati globali, nonché i cambiamenti nella catena del valore del comparto moda (crescente rilevanza dei brand, tempi di produzione sempre più ridotti, prevalenza di piccoli lotti) hanno determinato lo spiazzamento dei beni intermedi prodotti nell’area (i tessuti) rispetto al prodotto finito (il cui valore risiede oggi essenzialmente in aspetti immateriali come il marchio, l’immagine e il contenuto-moda) (Macchi 2013, CCIAA et al. 2013).
Gli effetti della crisi non sono stati soltanto quantitativi (crollo dell’export, riduzione della capacità produttiva, ridimensionamento dei livelli occupazionali – contenuto in parte dall’ampio ricorso alla CIG). Negli ultimi anni si è assistito al progressivo deterioramento della filiera, al tendenziale dissolvimento delle caratteristiche fondative dell’“atmosfera distrettuale” e alla perdita di capacità di orientamento strategico da parte delle istituzioni locali. La capacità di adattamento sistemica ripetutamente evocata dalla letteratura distrettuale è state sostituita da una situazione di iper-concorrenza, caratterizzata da sempre più marcate asimmetrie di potere tra gli attori economici locali e dallo sfilacciamento del capitale sociale distrettuale.
Il secondo fenomeno è l’insediamento sul territorio, a partire dalla fine degli anni ’80, di un elevato numero di migranti cinesi. Com’è noto, la migrazione cinese a Prato è cresciuta a ritmi senza eguali – almeno in Italia – e si è caratterizzata per alcune peculiarità socio-economiche. Oltre al rapido costituirsi di un’area ad alta concentrazione insediativa (ma con caratteristiche strutturali risalenti all’impianto più tipico della città-fabbrica) (Bressan, Tosi Cambini 2011), a partire dall’inizio del nuovo secolo una quota significativa di imprese cinesi è passata dalla produzione conto-terzi (in posizione subalterna rispetto alle imprese finali locali) alla produzione conto proprio (spesso con l’inversione dei rapporti di forza rispetto al tessuto imprenditoriale locale mainstream). Si è così sviluppato e consolidato un settore della filiera, precedentemente poco rilevante, a conduzione quasi esclusivamente cinese (la produzione di confezioni per il “Pronto Moda”; Ceccagno, Rastrelli 2008; Ceccagno 2012; Dei Ottati 2013).
L’obiettivo di questo breve testo è delineare un’interpretazione alternativa del nesso che collega le politiche migratorie adottate localmente per affrontare la ‘questione cinese’ e la crisi della forma distretto. Crisi del distretto e presenza cinese sono in effetti fenomeni collegati, anche se non nel modo prefigurato dalle rappresentazioni dominanti. L’insediamento cinese infatti non spiega la fine della forma distrettuale: per comprendere il tipo di nesso che lega i due fenomeni è indispensabile focalizzare l’attenzione sulla dimensione istituzionale.
La presenza cinese nella società locale, manifestatasi inizialmente – analogamente a quanto è avvenuto in altre aree distrettuali – come risposta difensiva alla crisi del distretto, non ha suscitato reazioni significative fino al biennio 2007-2008, quando – in coincidenza con il sovrapporsi della crisi globale con quella locale – il governo cittadino ha cominciato a sviluppare un’azione di contrasto finalizzata (almeno nelle intenzioni) a reprimere il lavoro nero e la concorrenza sleale di cui le imprese a conduzione cinese sono state accusate di fare ampio uso. Nel corso degli anni, le politiche di contrasto all’irregolarità dispiegate dall’amministrazione hanno esercitato una pressione sempre più forte sui cittadini e sulle imprese cinesi. L’intenzione, inizialmente non dichiarata, di spingere i cinesi a dirigersi altrove, è divenuta progressivamente l’unico vero obiettivo – talora anche esplicitamente dichiarato – delle politiche di contrasto e repressione indirizzate alle imprese cinesi.
In parallelo all’intervento del Comune anche la Regione Toscana – dopo il cambio di maggioranza dell’amministrazione comunale verificatosi a seguito delle elezioni amministrative del 2009 (vinte da una coalizione di centro-destra) – ha cercato di promuovere una propria strategia ‘localizzata’. Dichiarando di lavorare per l’emersione e la regolarizzazione dei lavoratori e dei rapporti economici sommersi, la Regione ha inteso marcare, almeno sul piano retorico, una chiara distinzione rispetto all’operato dell’amministrazione locale.
La differenza tra le due strategie è in realtà molto meno netta di quanto appare a prima vista. L’analisi delle policies e la ricostruzione documentale mostrano che, al di là delle retoriche adoperate (repressione versus emersione), le due strategie condividono alcuni assunti di fondo: a) la proclamata volontà di rilanciare il sistema manifatturiero locale mantenendo la centralità del distretto tessile, una volontà che appare sempre meno sostenibile alla luce delle trasformazioni del contesto; b) la costante ricerca del consenso delle parti sociali, e in particolare dell’attore più influente (l’Unione Industriale Pratese), fattore che spiega la persistenza delle retoriche di cui al punto a); c) l’assenza di interlocuzione/riconoscimento politico degli attori cinesi (l’assenza di interlocuzione è stata parzialmente recuperata dalla Regione Toscana nell’ultima fase, quella susseguente al rogo del 1 dicembre 2013).
Il tentativo di rilocalizzare le politiche migratorie è qui interpretato come un indicatore della indisponibilità degli attori locali a rimettere in discussione il modello di governance, inteso come sinonimo della configurazione di potere locale. Tale tentativo è il risultato dell’assenza di visioni alternative rispetto all’egemonia del modello interpretativo basato sulla forma distretto, un’egemonia in nome della quale si è preteso – e ancora in gran parte si pretende – di assumere l’identità distrettuale come unica invariante all’interno di un contesto in fase di radicale trasformazione.
La crisi del distrettualismo
La riflessione sul nesso tra crisi del distretto e presenza cinese trae origine da due domande. In primo luogo appare legittimo chiedersi se la forma-distretto sia ancora capace di cogliere il senso dei cambiamenti: se, in altre parole, l’elaborazione distrettuale sia ancora in grado di rendere conto delle trasformazioni avvenute. Dato che tale elaborazione si confronta oggi con difficoltà insormontabili di riproduzione del modello, sia in termini economici (di indicatori produttivi e occupazionali) sia in termini di fattori extraeconomici (le trasformazioni socio-antropologiche), ne consegue la seconda domanda: considerato che un distretto che non è più in grado di riprodurre i suoi fattori costitutivi difficilmente può essere ancora considerato tale, perché nel dibattito pubblico locale questo concetto continua a ispirare le strategie degli attori, e prima tra tutte la modalità di gestione della presenza cinese?
Prima di provare a rispondere a questa domanda è necessario premettere che il “distretto industriale marshalliano” è un idealtipo che per molto tempo ha rappresentato uno strumento interpretativo efficace per leggere ciò che avveniva in alcuni contesti territoriali peculiari. Il pensiero distrettualista ha in effetti innovato la riflessione sullo sviluppo locale sotto molteplici aspetti. Si pensi, in primo luogo, al rigetto delle letture dello sviluppo stereotipate, ed in particolare alla dichiarata avversione per le angustie dottrinarie degli economisti neo-classici. La centralità dei fattori extra-economici, la necessità ripetutamente evidenziata di studiare il contesto sociale per comprendere l’assetto produttivo peculiare della Terza Italia, la concezione del mercato come forma di relazione (come istituzione) socialmente regolamentata; questi tratti sono soltanto alcuni degli aspetti che hanno spinto il dibattito oltre le secche del paradigma neoclassico basato sulla rational choice e sull’homo oeconomicus. L’intera l’introduzione di uno dei volumi più importanti di Becattini (2001: IX-XX), Il bruco e la farfalla, consiste in una serrata critica all’uniformità ed astrattezza delle teorie piattamente economiciste.
Il distrettualismo ha promosso anche la forte inclinazione interdisciplinare degli studi sullo sviluppo locale, sottoponendo a critica gli approcci monofattoriali e riduzionisti. Ciò non vale soltanto per la già ricordata propensione alla ‘contaminazione’ dell’economia, ma anche per il favore con cui ha guardato e attivamente sviluppato un intenso “interscambio di frontiera” tra studiosi delle più diverse estrazioni, come i geografi, i sociologi, gli antropologi (Becattini 1987: 23). L’asserzione di Becattini per cui il distretto poteva essere compreso solo in una chiave interdisciplinare (Becattini 1989) resta ancora oggi una premessa non aggirabile per chi voglia misurarsi seriamente con la complessità delle traiettorie di cambiamento dei contesti locali.
Il distrettualismo ha anche contribuito a riportare all’attenzione della riflessione teorica la dimensione spaziale, sostanzialmente assente nell’impostazione neoclassica o sottoposta ad una interpretazione meccanicista nelle teorie ‘sviluppiste’, che concepivano lo spazio come un contenitore da popolare – attraverso interventi di ingegneria sociale – di impianti, comunità e servizi. E’ sintomatico che un campo di studi nel quale l’oggetto d’indagine principale non è più l’impresa, ma il sistema locale che ne rende possibile la proliferazione, sia stato osteggiato da quegli economisti che non hanno rinunciato a “una descrizione del mondo in cui domina la concorrenza perfetta e i rendimenti costanti di scala” (Brusco, Paba 1997: 321).
Lungi dunque dal cancellare i meriti della riflessione sui distretti appare urgente sottoporre a critica: a) l’attuale pertinenza dell’idealtipo “distretto marshalliano” rispetto alle trasformazioni avvenute nel contesto esaminato; b) l’impiego di tale concetto a fini di legittimazione dell’assetto di governance locale.
L’uso strumentale della retorica distrettualista è da attribuire in primo luogo alla popolarizzazione del dibattito sul distretto ed alla sua traduzione in termini più immediatamente e direttamente politici; tuttavia, questa declinazione può in parte essere spiegata anche con la presenza nella teoria di riferimento di alcune ambigue formulazioni originarie. Nonostante la proclamata centralità della dialettica tra sistema locale e contesto globale, la teorizzazione ha teso a sovrastimare le capacità di adattamento del distretto ai mutamenti di contesto. I sistemi locali distrettuali, e quello di Prato in particolare, sono stati concettualizzati come modelli capaci di combinare capacità produttiva e benessere sociale: una ‘macchina sociale’, oltre che produttiva, in grado di rinnovare costantemente una ‘miracolosa congiunzione’ tra competitività esterna e gradevolezza della vita sociale (Becattini 1989), così come tra competizione e cooperazione (Dei Ottati 1991). L’idea che la capacità di adattamento ai mutamenti fosse connaturata alle caratteristiche costitutive del distretto ha favorito il rafforzamento dell’auto-identificazione locale con il sistema distrettuale.
Con il passare del tempo il distrettualismo è diventato la scatola nera delle dinamiche sociali, politiche ed economiche pratesi, il dispositivo istituzionale e normativo attraverso il quale gli attori hanno interpretato e rappresentato l’evoluzione del contesto locale. Di fatto, si è progressivamente consolidato un insieme di norme e rappresentazioni riguardanti il ruolo degli attori locali. La naturalizzazione del distrettualismo come forma di pensiero egemonica ha fatto diventare istituzioni – nel senso di configurazioni in grado di orientare le interazioni tra gli attori locali e garantirne la stabilità – le rappresentazioni riguardanti i confini tra mercato, politica e società. Si è così imposta un’idea dello sviluppo locale che postulava divisioni di ruoli ben definite tra politica (incaricata di fornire beni collettivi sotto forma di servizi e infrastrutture), economia (guidata dal protagonismo delle imprese, con il supporto delle associazioni di categoria) e società (concepita come un insieme coeso orientato alla riproduzione delle condizioni di esistenza del modello).
Il processo di istituzionalizzazione di questo modello interpretativo è stato favorito da due fattori specifici, di natura politica. In primo luogo ha svolto un ruolo fondamentale la crisi e la transizione – allo stesso tempo culturale, intellettuale e organizzativa – del Pci. Ridefinitosi, dopo il crollo del Muro, come partito interclassista, e tuttavia privo di un asse culturale di riferimento stabile – oscillando in modo incerto tra social-liberalismo e socialdemocrazia classica (Biasco 2009) – a partire dagli anni ’90 il partito egemone necessitava – tanto a livello nazionale che locale – di rinnovare sia i propri riferimenti teorici che le proprie basi di consenso. Nel caso pratese, il distrettualismo ha fornito il materiale intellettuale utile, presentandosi sul piano teorico come una ‘terza via’ tra il radicalismo neoliberale e lo ‘statalismo fordista’ e su quello pratico – dell’assetto dei poteri – come un potente fattore di legittimazione dell’impianto riformista e aconflittuale caratteristico del clima consensuale ampiamente celebrato nel distretto. Non che siano mancati, a sinistra, gli scontri ideologici sull’interpretazione dello sviluppo locale e sulla natura dei distretti. Tuttavia essi hanno per lo più opposto gli studiosi dei distretti, alleati con le forze politiche e sociali locali, a singoli esponenti o correnti politiche della sinistra esterni alla realtà locale (si pensi agli scontri tra i distrettualisti da una parte e il sindacato nazionale o economisti come Augusto Graziani dall’altra).
Il secondo aspetto riguarda il posizionamento delle associazioni di rappresentanza degli interessi, a partire da quella più importante, l’Unione Industriale Pratese. Se fino agli anni ’70 la direzione del modello di sviluppo locale poteva dirsi contesa tra il Comune a guida comunista e l’UIP (Cammelli 2014), a partire dagli anni ’80 l’egemonia dell’associazione industriale locale e la costante ricerca del suo consenso da parte degli attori politici locali (in primis il Pci e i suoi successori) ha reso sostanzialmente sovrapponibili gli interessi delle imprese, i destini del distretto e gli assi di sviluppo del sistema locale. La celebrazione del distrettualismo è divenuta così l’arma retorica utilizzata per orientare tutte le policies, comprese quelle migratorie: non è un caso che il protagonismo cinese sia stato stigmatizzato come una presenza ‘aliena’, a dispetto della sua connotazione funzionale rispetto al modello produttivo locale, proprio quando l’imprenditoria locale ha cominciato a temere di non poter più contenere l’imprenditoria cinese in una posizione subalterna, ancillare rispetto ai rapporti di forza tradizionalmente asimmetrici tra terzisti e committenti (si veda l’articolo di Antonella Ceccagno in questo dossier).
I due temi appena richiamati presentano ovviamente dinamiche e nessi che oltrepassano lo scenario locale, ma a Prato si sono manifestati in forme peculiari e soprattutto interrelate, dando luogo sul piano del dibattito all’egemonia indiscussa della retorica distrettualista e sul piano più concreto degli assetti di governance al consolidamento del ‘patto cittadino’ tra parti politiche e istituzioni intermedie. La presenza cinese non poteva non essere dirompente, rispetto ad un assetto di questo tipo, e in effetti la rottura simbolica e politica del 2009 – con la vittoria alle amministrative di una coalizione di centro-destra per la prima volta nel dopoguerra – si è verificata soprattutto su questo piano. Lasciando fuori tutti gli altri attori che non si riconoscevano nei princìpi costitutivi della rappresentazione distrettualista, le alterne vicende del ‘patto’ hanno continuato a rappresentare la base di riferimento dell’assetto di potere locale, sia pure con modalità più articolate. Negli ultimi anni si è anche teorizzata la necessità di passare a meccanismi di regolazione consapevoli e istituzionalizzati (si parla in proposito di management distrettuale) (UIP-Nomisma 2007, Dei Ottati 2009), un passaggio anch’esso legittimato sul piano teorico (e indirettamente anche su quello politico) dalla letteratura distrettualista.
‘Fuori’ e ‘dentro’?
L’attuale fase di declino sta mettendo a nudo le caratteristiche di un sistema che per alcuni decenni ha inteso fornire di sé, sia all’interno che all’esterno, l’immagine di modello non soltanto economico, ma anche sociale e politico.
La constatazione che i fattori macro che hanno messo in crisi il distretto sono fuori dalla portata degli attori locali non equivale però a sostenere che tali fattori devono essere considerati come agenti esterni che solo a partire da un dato momento storico hanno determinato la rottura di un ordine fino ad allora perfettamente auto-regolato. Ogni interpretazione tendente ad avvalorare l’idea che i fattori esterni abbiano fatto irruzione sul contesto locale esclusivamente negli ultimi due decenni (e con conseguenze ipso facto negative) deve essere respinta, dato che per il distretto le interazioni tra il ‘fuori’ e il ‘dentro’ non sono una novità circoscrivibile agli anni della crisi.
Ciò che qui si definisce ‘globale’ non è un insieme di variabili meramente esogene, ma una delle condizioni di possibilità del distretto fin dal suo stesso costituirsi. Per quanto ‘autocontenuto’ dal punto di vista tecnico-organizzativo (in termini di assetto della filiera), il distretto non ha mai potuto prescindere da ciò che avveniva al di fuori di esso: da un lato perché il mercato di sbocco delle merci non poteva rimanere soltanto quello locale, dall’altro per l’ intrinseca sensibilità del modello produttivo alle ragioni di scambio internazionali (in termini di apertura dei mercati, rapporti di cambio, competizione sul costo del lavoro).
Il sistema distrettuale dovrebbe in realtà essere riconcettualizzato come esito transitorio e spazialmente localizzato di relazioni e flussi di scambio ininterrotti tra scale differenti – in primis tra globale e locale. Quello che è stato definito distretto industriale marshalliano appare quindi come una configurazione contingente dovuta all’interazione tra fattori endogeni (caratteristiche della società locale) e fattori esogeni (evoluzione del mercato mondiale): una interazione nella quale i fattori ‘interni’ non sono necessariamente in grado di adattarsi ai mutamenti del contesto ‘esterno’, come postulato dalle interpretazioni distrettualiste più connotate da tratti essenzialisti e comunitaristi.
Allo stesso tempo, ampliando la visione, la presenza cinese dovrebbe essere considerata e interpretata all’interno di un quadro interpretativo più esteso, capace di tenere conto del mutamento complessivo del sistema locale. Al contrario, molti studi sulle migrazioni non solo tendono a separare in modo artificioso il ‘locale’ e il ‘globale’, ma finiscono di fatto per ignorare le dinamiche di mutamento del sistema sociale più complessivo all’interno del quale i migranti s’insediano. La suddivisione accademica dei campi di studio e l’auto-rappresentazione degli studiosi delle migrazioni come ‘specialisti di settore’ hanno storicamente favorito l’affermarsi di queste tendenze (Castles 2010).
Associare la crisi/trasformazione del sistema locale e le migrazioni dalla Cina significa cercare di andare al di là della compartimentazione disciplinare e interpretativa di fenomeni che devono essere tematizzati e considerati congiuntamente. I migranti cinesi da un lato hanno reso evidente la fine del distretto ‘classico’ (senza peraltro rappresentarne la causa), ma dall’altro rappresentano un fattore costitutivo e strutturale del sistema locale post-distrettuale in via di formazione. Un sistema incomprensibile se si continua ad assumere come immodificabile l’identità distrettuale e i migranti cinesi come un’entità ‘aliena’, insediatasi a Prato per motivi astrattamente riconducibili al generico fenomeno della ‘globalizzazione’.
Riferimenti bibliografici
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3. Andrea Valzania: Il consumo dei cinesi di Prato: tra omologazione e distinzione
Andrea Valzania è docente di Sociologia del lavoro presso Università di Siena e attività di ricerca Istituto Iris di Prato
La vasta letteratura specializzata ha mostrato negli anni come i cinesi di Prato non siano un gruppo sociale indistinto caratterizzato solo dalla contrapposizione tra chi ha o meno i mezzi di produzione oppure, in termini migratori, tra chi deve ripagare il proprio debito e chi invece sfrutta il loro lavoro. E, ovviamente, non sono nemmeno un tutto indistinto quando parliamo del loro comportamento sociale.
Nonostante tutto, anche i terribili fatti di cronaca che hanno rimesso al centro dell’attenzione una certa immagine della presenza cinese sul territorio, la realtà è infatti molto più complessa di quanto è stata finora rappresentata nel dibattito pubblico e comprende, tra i soggetti sociali più interessanti da tenere in considerazione per il prossimo futuro, la crescita delle giovani generazioni, in contrasto con i percorsi dei padri[1], e una nascente “classe media” che diversifica le proprie attività lavorative e che preferisce stili di vita differenti da quelli del recente passato, influenzando le tradizionali dinamiche di mobilità sociale[2].
Il contesto materiale e culturale che ha permesso lo sviluppo delle novità a cui facciamo riferimento può essere rappresentato da tre macro-processi fortemente intrecciati tra loro: la crisi economica globale, che ha interessato, seppur in maniera minore rispetto al comparto tessile del distretto, anche le confezioni cinesi; il transnazionalismo migratorio, che ne sta mutando la composizione interna, con una crescita di flussi provenienti dal Fujian e dalla Manciuria (tendenzialmente più poveri e con meno reti sociali); le trasformazioni valoriali e culturali in Cina e tra i cinesi di Prato, che legano indissolubilmente tra loro, come in un gioco di specchi, ciò che sta succedendo nella madrepatria alle dinamiche presenti sul territorio.
In particolare, ciò che sta succedendo in Cina sembra condizionare in maniera maggiore rispetto al passato ciò che avviene a Prato non solo per quanto concerne l’ambito economico ma anche per quanto riguarda l’ambito culturale. Sappiamo ancora poco di questi fenomeni. Solo per citarne uno tra i più interessanti, molto diffuso soprattutto nelle giovani generazioni, il tumultuoso e allo stesso tempo silenzioso sviluppo dei social network e della fruizione delle informazioni in rete.
Tutto questo ha ovviamente importanti e complesse conseguenze sociologiche, in gran parte ancora da studiare. L’analisi che presentiamo in questo articolo costituisce un primo passo in questa direzione ed un punto di osservazione differente per comprendere i mutamenti che stanno interessando il comportamento sociale della popolazione cinese presente sul territorio e i loro processi di integrazione[3]. Un dato innegabile e visibile a tutti, infatti, è che i cinesi, oltre ad essere degli imprenditori capaci di sfruttare le diverse opportunità di mercato, sono divenuti nel tempo anche dei formidabili consumatori, con ricadute evidenti sull’intero tessuto economico locale, decostruendo, di fatto, alcuni tra i principali stereotipi che hanno segnato il loro insediamento territoriale.
Nuovi consumatori globali
Come sappiamo, la capacità di consumare rappresenta ancora oggi per gli immigrati, nonostante le sue trasformazioni postmoderne, un segno di emancipazione sociale.
In particolare, questo aspetto diventa non solo la riprova evidente del successo migratorio ma anche una modalità attraverso la quale esprimere “processi culturali plurimi e contraddittori che nel sistema del consumo si mescolano, senza appiattirsi a logiche eminentemente economiche” (Paltrinieri, Parmiggiani 2007: 113).
Ciò che si vuole qui evidenziare è come il processo di integrazione passi anche attraverso determinati stili di vita e di consumo, che sono oramai il risultato complesso dell’incrocio tra i processi di transnazionalismo economico e culturale in atto. Nonostante siano ancora relegati nei vecchi stereotipi della visione miserabilista, gli immigrati, e tra questi gli immigrati di origine cinese occupano sicuramente un posto di primo piano, sono invece da annoverare a pieno titolo tra i cosiddetti “nuovi consumatori” globali, veri e propri protagonisti delle mode contemporanee secondo le modalità proprie del transnazionalismo connettivo (Ambrosini 2008). Queste novità hanno riflessi significativi anche in termini territoriali, come è possibile notare nel caso di Prato. La definitiva trasformazione di una ampia parte della popolazione cinese in consumatori locali (che in alcuni settori sono divenuti persino “sostitutivi” rispetto alla clientela italiana), infatti, contribuisce alla circolazione del denaro sul territorio, superando l’immagine dei cinesi esclusivamente interessati ad inviare rimesse in Cina, prassi troppo spesso strumentalizzata come una indisponibilità ad integrarsi propria della popolazione cinese. In questo senso, invece, incontrovertibilmente (se adottiamo la logica del mercato attuale secondo la quale la crescita si ottiene solo incrementando i consumi), anche i consumi degli immigrati cinesi hanno una ricaduta sul territorio in termini di ricchezza diffusa, coinvolgendo nelle dinamiche tra consumatore e venditore la popolazione autoctona attraverso modalità che favoriscono la conoscenza reciproca e affrancano una parte della popolazione cinese dal solo consumo etnico. Non si tratta di esclusivi processi di assimilazione ai gusti occidentali, che comunque a distanza di qualche anno sono sempre presenti in qualsiasi migrazione, soprattutto nelle seconde generazioni, ma di spazi di interazione sociale che, sfruttando il momento di scambio proprio del commercio, si esercitano al di fuori dei canali un po’ autoreferenziali nei quali solitamente si svolgono.
Se il processo di integrazione è bidirezionale, ovvero non assimilativo ma fondato sul reciproco cambiamento, come noi crediamo, lo scambio prodotto dall’atto di vendita, che assume necessariamente una qualche forma di interazione sociale, permette ad entrambi i soggetti di entrare in contatto con la diversità, generando conoscenza reciproca e trasformando nel corso del tempo le relazioni presenti sul territorio.
Anche nel caso pratese, il carattere specifico della situazione di mercato ha fatto poi il resto. Essendo infatti i cinesi ottimi clienti potenziali, questo processo ha prodotto un interesse nei soggetti locali nel fornire una risposta sempre più appetibile e attrattiva per questa fascia di consumatori, come dimostrano, tra le altre cose, una maggiore presenza di personale bilingue nei principali centri commerciali e supermercati dove è significativa la clientela cinese, l’utilizzo di messaggi promozionali in lingua, l’apertura di una filiale di Extrabanca, etc.
Nonostante questi aspetti, tuttavia, la possibilità di intercettare la clientela cinese avviene soprattutto attraverso i canali informali del “passaparola” e, soprattutto, una particolare attenzione rivolta al risparmio e alle varie promozioni sui prodotti. In particolare, il passaparola è caratterizzato da reti di guanxi nelle quali sono compresi anche cittadini italiani, in modo da facilitare un primo contatto con la realtà commerciale. Solo in un secondo momento, una volta testato il posto, i primi clienti cinesi si avvicenderebbero agli italiani nell’attività di promozione, consentendo l’avvicinamento di altri connazionali. In questo processo, le giovani generazioni svolgono spesso un ruolo di “avanguardia” nell’apertura di nuovi canali di contatto tra collettività migrante e società locale, esercitando un vero e proprio ruolo di opinion leaders all’interno dei gruppi frequentati.
D’altronde, il profilo medio del consumatore cinese è quello di un consumatore molto preparato, informato e deciso, sempre attento ad ottimizzare le proprie risorse (di denaro e di tempo) per il raggiungimento dei propri obiettivi. Un consumatore che, ad esempio (anche in misura maggiore di quello italiano) dedica molto tempo alla visita dei negozi alla ricerca di informazioni e di un’offerta migliore e, una volta scelto il prodotto, difficilmente potrà cambiare idea. C’è poi una fascia particolare di consumatori, appartenenti ad una nascente “classe media” interna alla popolazione cinese, che si sta facendo portatrice di nuovi stili di vita rispetto a quelli della maggior parte dei connazionali, fondati sull’importanza di una maggiore libertà, della disponibilità di tempo libero, della minore durezza del lavoro. Seppur ancora quantitativamente minoritaria, questa fascia di popolazione sembra giocare un ruolo molto innovativo rispetto al passato, diversificando la produzione, terziarizzando la presenza imprenditoriale e interagendo di più con la popolazione italiana. In termini di consumi, ma presumibilmente anche in altri ambiti della società, questa parte della popolazione cinese potrebbe svolgere, e in parte lo sta già facendo, un ruolo di élite in senso gramsciano rispetto alla massa, imprimendo una maggiore velocità al processo di integrazione.
Inoltre, al di là della capacità del singolo portafoglio, i cinesi sembrano attribuire al consumo anche una valenza collettiva e “rituale” e tendono quindi a vivere questi momenti come una vera e propria occasione di svago ludico-ricreativo in cui tempo libero e tempo di lavoro domestico si sovrappongono, trasformando i luoghi di consumo in luoghi di ritrovo. In taluni casi, tuttavia, questa pratica di acquisto collettivo pare svolgere anche specifiche funzioni di supporto reciproco (di tipo linguistico, nella contrattazione, nella condivisione delle spese, e così via) per la fascia ancora ampia di popolazione che non comunica in lingua italiana.
“Consumo, dunque sono”
Nel titolo provocatorio scelto da Bauman (2008) ci sono almeno due aspetti che sono impliciti anche nel nostro ragionamento: il primo è il nesso tra consumi e processi identitari (dove il consumo tende a sostituire la centralità novecentesca del lavoro); la seconda, è l’utilizzo di un bene come segno di status (il “consumo vistoso” di Veblen). D’altronde, i beni consumati sono mezzi simbolici di comunicazione non verbale che permettono una classificazione dei comportamenti sociali degli individui, che per i cinesi, dobbiamo ricordarlo, ha inizio nell’epoca di Deng Xiao Ping (“arricchirsi è glorioso”). Ciò che appare interessante, pertanto, non è soltanto analizzare la possibilità o meno di acquisto quanto l’acquisto distintivo. I benestanti, infatti, comprano (e frequentano, ostentando le loro auto di lusso e i loro vestiti di grandi marche per arrivare nei parcheggi limitrofi ai luoghi di consumo) gioielli, vino pregiato, beni da regalare al loro ritorno in patria, anche per differenziarsi dai più poveri, i quali tendono ad emularne le gesta (e l’atteggiamento verso il consumo) andando anche, seppur con minore frequenza, nei luoghi di “moda” tra i più ricchi. In questo senso, il consumo come simbolo di status o, più in generale, come modello a cui tendere nel comportamento sociale di gruppo ci consente di sottolineare un altro aspetto evidenziato dalla ricerca, presente soprattutto nelle giovani generazioni. L’acquisto di un bene di marca (e di moda) comunica immediatamente verso l’esterno una condizione sociale ed economica, l’appartenenza ad una comunità di consumatori globali e, soprattutto, il sentirsi parte del mondo occidentale: ciò che conta, insomma, è il messaggio verso l’esterno e nei confronti di quei connazionali che non possono permetterselo. Esiste in tal senso uno spazio sociale transnazionale (Faist 2000) nel quale interagiscono tra loro, secondo vere e proprie dinamiche di potere, processi culturali diversi e talvolta contrastanti. Nel caso empirico preso in esame queste dinamiche hanno mostrato, da un lato, un consumo di lusso localmente situato che sembra risentire delle influenze promosse dalla moda e dall’attrazione per i prodotti made in Italy, dall’altro, una maggiore attenzione, grazie anche al ruolo esercitato dalle migrazioni, al mercato locale del lusso da parte di consumatori posti a migliaia di chilometri di distanza. In ogni caso, i cittadini cinesi di Prato tendono a veicolare nel proprio paese di origine la conoscenza sia di modelli di consumo e di preferenze propri della società in cui vivono, alimentando una sorta di conoscenza “di rimbalzo” che unisce la Cina e l’Italia, aprendo nuovi importanti sbocchi di mercato.
In questo quadro, anche la scelta dell’orario nel quale consumare può essere letto come un simbolo di status. Una tra le principali novità emerse dalla nascente classe media è senza dubbio la rivendicazione di un maggiore tempo libero come segno di qualità della vita (magari proprio da dedicare ai consumi). Un aspetto impensabile solo pochi anni fa e che sarà interessante analizzare per le conseguenze prodotte in quelli a venire. Il tempo libero rappresenta per i cinesi una scoperta di portata simile a quella degli americani al tempo di Henry Ford. Ciò nonostante, l’orario e le modalità di consumo devono assolutamente conciliarsi con l’organizzazione familiare e lavorativa della collettività cinese. Trattandosi per lo più di persone giovani e quindi in età lavorativa, si capisce bene perché vi siano intere fasce orarie, solitamente la mattina, nelle quali è assai difficile vedere cinesi nei negozi o nei grandi centri commerciali, mentre in tarda serata, soprattutto negli orari di chiusura (tanto che sorge il sospetto che le aperture serali di molte attività commerciali siano state promosse soprattutto per intercettare questa clientela), si raggiungono i picchi più elevati di presenza. Chi può consumare la mattina, dunque, rappresenta un’élite di privilegiati.
Il transnazionalismo affettivo
Come sappiamo, con questo concetto la letteratura rimanda all’acquisto di beni di lusso, o comunque con un significato augurale (è il caso, ad esempio, del successo avuto dal cioccolatino Ferrero Rocher), da regalare ai membri della propria cerchia familiare o amicale sia nei momenti di ritorno in patria che durante l’anno.
Il transnazionalismo è dovuto alla pluralità di variabili globali che contribuiscono ad influenzare il gusto della popolazione cinese e che si possono vedere in maniera assai vistosa nelle giovani generazioni, maggiormente permeabili alle mode.
Un ambito dove questa commistione esercita dinamiche assai evidenti è quello relativo all’organizzazione di matrimoni di “alto livello” attraverso il ricorso ad agenzie specializzate italiane. La grande importanza tradizionale che la cerimonia e la festa di nozze di fronte a parenti e amici rivestono nella società cinese (Ceccagno 1998; Sheng 2005), e che persiste anche nei contesti di migrazione, ne fa un laboratorio perfetto dove osservare queste dinamiche. Ciò che notiamo è come, accanto ai riferimenti legati alla cultura di origine (che comprende l’importanza dell’istituzione familiare, dei ruoli e delle opinioni degli ascendenti più anziani ed il mantenimento di una simbologia che vuole il rosso quale tradizionale colore associato al matrimonio in quanto segno di felicità e ricchezza futura) si inseriscono caratteristiche prettamente locali, di solito legate al contesto e alla scelta della location nel quale si svolge la cerimonia. Generalmente, la preferenza va infatti alle cerimonie all’aperto inserite in un contesto di lusso globalmente riconosciuto (ville di Firenze, alberghi di catene internazionali di lusso, etc..), frequentate da promessi sposi appartenenti ad una élite globale e “cosmopolita” nella quale potersi riconoscere.
Elementi diversi e sempre continuamente legati a questo doppio filo culturale caratterizzano anche il banchetto di nozze, che appare davvero un buon esempio della abilità dei giovani consumatori di origine cinese di intrecciare i riferimenti di tipo locale sia tra loro sia con quelli di carattere globale: “La festa più grossa è quella al ristorante cinese. Loro fanno sempre, per quanto ne so, delle grandi cene tra di loro al ristorante cinese. [Prima] fanno questo pranzo o questa colazione ad un ristorante italiano. Il mangiare è italiano, eh. (…) Nel senso che non ordinano cibo cinese o cucinato “alla cinese”. Ad esempio, non chiedono il pesce – perché loro mangiano pesce principalmente – chiedono salumi toscani, bistecca, cose così. (…) Per i primissimi matrimoni [di giovani di origine cinese] che ho fatto, ho proposto agli sposi un catering con delle portate italiane ma in qualche modo che potessero essere adattate al gusto cinese ma loro volevano proprio il mangiare toscano, con tutti i vini abbinati. Proprio come si farebbe per noi. Però, poi so che la sera fanno questa cena al ristorante cinese. Una volta mi invitarono e si mangiò proprio cinese. E so che lì spendono davvero tanto. Fanno delle cene con tantissime portate. (…) Lì sono tanti, mentre ai matrimoni che ho organizzato sono pochi, sono un numero ristretto. (Brano estratto da un’intervista ad un titolare agenzia organizzazione eventi)”.
Quali scenari futuri?
La nostra prospettiva ha permesso di mettere in luce alcuni processi sui quali dovrebbero concentrare la loro attenzione futura le politiche locali.
Una parte della popolazione cinese, minoritaria ma in crescita negli ultimi anni, manifesta esigenze vicine a quelle di un ceto medio italiano e costituisce, sia per quanto riguarda la propria spesa pro-capite in termini di consumo sia per quanto concerne il proprio comportamento sociale, una ricchezza per il territorio.
Da questo punto di vista è stato sintomatico riscontrare come la stessa percezione degli italiani sui cinesi a Prato possa cambiare attraverso questi processi; non più solo le allarmistiche preclusioni su una presenza scomoda e ingerente, ma anche il riconoscimento della loro “utilità” sociale ed economica, come ha esemplificativamente sintetizzato uno dei commercianti italiani intervistati: “fortunatamente vendo ai cinesi!”.
I processi di mobilità sociale non sono solamente rappresentabili nel passaggio dal lavoro dipendente alla scelta di aprire un’impresa, ma prendono forma anche attraverso percorsi differenti e, talvolta, di “cesura valoriale”, iniziando a mutare la tradizionale stratificazione sociale dei cinesi; comprare casa fuori dal perimetro spaziale tradizionale, aprire un negozio per clientela italiana e frequentare i luoghi di consumo non etnicamente definiti, sono tutti comportamenti che simbolizzano bene i cambiamenti in atto. Inoltre, non meno significativa, sembra emergere anche una domanda di rappresentanza finora inespressa, che potrebbe preludere l’inizio di processi di “istituzionalizzazione” della loro presenza imprenditoriale e sociale. Da questo punto di vista torna di grande attualità la tematica del “riconoscimento”, che nei prossimi anni potrebbe dare un nuovo imprinting alle politiche migratorie.
Riferimenti bibliografici
Ambrosini M. (2008), Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, Il Mulino
Bauman Z. (2008), Consumo, dunque sono, Roma-Bari, Laterza
Berti F., Pedone V., Valzania A. (2013), Vendere e comprare. Processi di mobilità sociale dei cinesi di Prato, Pisa, Pacini Editore
Ceccagno A. (1998), Cinesi d’Italia. Storie in bilico tra due culture, Roma, Manifestolibri
Faist T. (2000), The Volume and Dynamics of International Migration and Transnational Social Spaces, Oxford, Oxford University Press
Paltrinieri R., Parmiggiani P. (2007), I consumi degli immigrati, in “Sociologia urbana e rurale”, n.83
Portes A, Rumbaut R. (2006), Immigrant in America. A portrait, Berkeley, University of California
Sheng X. (2005), Chinese Families, in: B.N. Adams, J. Trost (eds), Handbook of World Families, Thousand Oaks, Sage Pubblications
[1] Una sorta di “dissonanza generazionale” simile a quella rilevata dagli studi di Portes e Rumbaut (2006) ma accentuata dalla velocità dei processi informativi globali.
[2] Questo articolo presenta alcuni tra i principali risultati di una recente ricerca: Berti, Pedone, Valzania (2013).
[3] Il consumo come indicatore di integrazione non è ovviamente un tema nuovo; già agli inizi degli anni 2000 la Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati in Italia lo aveva infatti preso in considerazione nella convinzione che potesse costituire un segnale di buona riuscita del progetto migratorio. E’ tuttavia del tutto nuovo nell’analisi della popolazione cinese in Italia e della popolazione cinese a Prato.
Category: Migrazioni, Osservatorio Cina, Osservatorio sulle città
Chi ha scritto questo dossier ha riportato delle macroscopiche e spudorate falsitá.
Delle fue una: O cretini o collusi.
Sicuramente in malafede.
Vergogna!!