Ivan Franceschini: La coscienza di classe nella “nuova era” di Xi
Diffondiamo dal supplemento a Il Manifesto “E’ lavoro, E’ opposizione” del 27 febbraio 2019
“Il Partito Comunista Cinese è l’avanguardia della classe operaia cinese, del popolo cinese e della nazione cinese.» Che queste parole, eredità di una rivoluzione passata, ancora oggi aprano lo Statuto del Pcc, lascia pochi dubbi sui fondamenti teorici della legittimità del Partito che da settant’anni governa la Cina. Prima ancora che rappresentanti della nazione, i leader cinesi amano presentarsi come fautori degli interessi di un gruppo sociale specifico: i lavoratori.
Alla luce della crescita economica impetuosa che ha caratterizzato la Cina degli ultimi quattro decenni, questa pretesa non sembrerebbe del tutto infondata. In fondo, grazie allo sviluppo del Paese molti lavoratori oggi possono beneficiare di migliori condizioni lavorative e salariali, per non parlare della relativa sicurezza derivante dal nuovo sistema previdenziale. In aggiunta, il Partito-stato può vantare al proprio attivo l’adozione di un apparato di leggi e regolamenti sul lavoro molto avanzato, culminato con il passaggio nel 2007 di una Legge sui contratti di lavoro fortemente osteggiata da gruppi imprenditoriali cinesi e stranieri.
Eppure, un esame più attento delle dinamiche dello sviluppo cinese mette in luce serie contraddizioni nel messaggio operaista del Partito-stato. Innanzitutto, il miracolo economico cinese è stato reso possibile dallo sfruttamento di centinaia di milioni di migranti rurali. A dispetto della retorica ufficiale, molti di questi ex-contadini continuano tuttora a lavorare in condizioni di assoluta precarietà, esclusi da ogni servizio pubblico, per salari minimi e a rischio della propria salute.
In secondo luogo, sin dagli anni Novanta, il Partito-stato non ha esitato a tradire ripetutamente il patto sociale stretto con i dipendenti delle imprese statali, lanciando imponenti piani di ristrutturazione industriale che hanno portato al lastrico decine di milioni di lavoratori. Infine, geloso custode del proprio ruolo di avanguardia, il Partito ha assegnato il monopolio della rappresentanza dei lavoratori alla Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi, un’organizzazione di massa di stampo leninista costretta ad operare come una «cinghia di trasmissione» tra classe dirigente e lavoratori. Ogni altra forma di associazionismo operaio è stata proibita e repressa.
Di fronte a questo scempio, i lavoratori cinesi non sono certo rimasti in silenzio. Dagli anni Ottanta a oggi, sono stati innumerevoli i casi di proteste operaie in Cina. Pochi oggi ricordano che nel 1989 i lavoratori erano in piazza a fianco degli studenti a Pechino e in molte altre città cinesi, in protesta contro la corruzione e mala gestione ufficiale e per rivendicare il diritto a eleggere i propri rappresentanti.
Se negli ultimi trent’anni l’attivismo operaio in Cina si è tradotto soprattutto in scintille di scontento limitate a singole fabbriche, in cui i lavoratori si sono mobilitati per rivendicare il rispetto di diritti già acquisiti, non sono mancati casi sporadici di proteste coordinate finalizzate a rivendicare interessi che andavano ben oltre il minimo garantito per legge, quali ad esempio salari più elevati e, occasionalmente, il diritto a creare sindacati indipendenti.
Poiché il Partito-stato è ben attento a custodire i numeri dell’attivismo operaio, le uniche cifre su cui possiamo contare arrivano da fonti non governative. La fonte più autorevole in questo senso è la «Mappa degli scioperi» curata dal China Labour Bulletin (Clb), una ong basata a Hong Kong. Attraverso un costante monitoraggio dei media cinesi, nel 2018 Clb ha registrato 1,701 incidenti, il 73.3 per cento dei quali in aziende domestiche.
Il settore più irrequieto era quello edile (45 per cento dei casi), seguito dal manifatturiero (16 per cento) e dai trasporti (16 per cento). Significativamente, la maggior parte di queste proteste coinvolgeva meno di cento partecipanti e durava appena qualche giorno, a dimostrazione dello squilibrio di forze tra la classe operaia cinese, debole e frammentata, e il fronte comune costituito dagli apparati locali del Partito-stato e dai datori di lavoro.
Questa situazione difficilmente cambierà nel prossimo futuro. Sotto la guida di Hu Jintao e Wen Jiabao (2003-13), il Partito-stato ha adottato un messaggio conciliatorio nei confronti delle forze sociali, inclusi i lavoratori, lanciando un appello per l’instaurazione di una «società armoniosa».
Approfittando di quest’apertura ufficiale, nel decennio scorso i lavoratori cinesi sono riusciti ad ottenere importanti vittorie, tanto che qualche anno fa si cominciava a parlare di un «risveglio» della classe operaia in Cina. Con Xi Jinping, ogni tentativo di conciliazione è stato sacrificato sull’altare della crescita economica.
L’imperativo di mettere l’economia al centro si è fatto ancora più urgente nell’ultimo paio d’anni, da quando la Cina è entrata nella fase della cosiddetta «nuova normalità», un periodo marcato dal rallentamento della crescita economica. In tale contesto, una guerra commerciale con gli Stati Uniti non potrà far altro che spingere il Partito-stato a irrigidire ulteriormente le proprie posizioni di fronte a ogni segnale di scontento sociale.
I lavoratori stanno già pagando il prezzo di questo irrigidimento. Dal 2016, le autorità cinesi discutono la possibilità di emendare la legislazione sul lavoro in modo da aumentare la «flessibilità» di un mercato del lavoro percepito come eccessivamente rigido. Nel frattempo, l’opera legislativa in campo lavoristico si è pressoché arrestata, le bozze di nuove leggi e regolamenti ferme nei cassetti di qualche ministero, lasciando intere aree delle relazioni industriali, ad esempio nella platform economy, nel limbo.
Come se non bastasse, di fronte al rallentamento dell’economia, autorità locali hanno deciso di congelare salari minimi e concedere alle imprese agevolazioni in materia previdenziale.
Ancora più preoccupanti sono i crescenti attacchi del Partito-stato contro quel settore della società civile attivo sul fronte dei diritti dei lavoratori, in particolare le cosiddette «Ong del lavoro». Si tratta di organizzazioni molto piccole, con non più di mezza dozzina di dipendenti e uffici di fortuna in genere situati nei pressi di comunità operaie.
Tradizionalmente, queste realtà si concentravano su attività culturali, sulla disseminazione del diritto e sull’offerta di consulenze legali ai lavoratori, ma all’inizio di questo decennio alcuni attivisti hanno deciso di adottare una strategia più aggressiva, centrata sulla promozione della contrattazione collettiva tra i lavoratori.
Se un simile approccio poteva essere tollerabile nell’era di Hu e Wen, per l’amministrazione di Xi ogni tentativo di rafforzare la coscienza di classe e capacità organizzativa dei lavoratori è anatema.
Mentre in passato le Ong del lavoro erano oggetto di offensive cicliche in concomitanza con periodi politicamente delicati ma il resto del tempo potevano operare in relativa libertà, oggi la repressione è divenuta costante e ha portato all’instaurazione di un clima di permanente incertezza e paura tra gli attivisti. Questo è avvenuto in almeno due modi. In primo luogo, oltre a servirsi della violenza e di altre forme «grezze» di controllo, le autorità cinesi sotto Xi si sono dedicate con notevole impegno alla persecuzione per vie giudiziarie degli attivisti, servendosi di tribunali e media per lanciare campagne finalizzate a distruggere la reputazione di questi individui, dipinti come burattini nelle mani di «forze ostili straniere».
Appena qualche settimana fa, alla fine di gennaio, cinque attivisti del lavoro, attivi in differenti organizzazioni, sono stati arrestati in diverse parti del Paese e incriminati per aver «creato litigi e causato problemi».
In secondo luogo, negli ultimi anni il governo di Pechino ha adottato una serie impressionante di leggi e regolamenti sulla società civile che impongono severe restrizioni per la registrazione e le operazioni delle Ong, limitando fortemente l’accesso a quei fondi esteri da cui organizzazioni cinesi attive in campi politicamente sensibili – quali ad esempio i diritti dei lavoratori – dipendono per la propria sopravvivenza.
Tutto questo si è tradotto nell’annientamento pressoché totale delle Ong del lavoro. Le pochissime organizzazioni rimaste ormai si concentrano su attività culturali – anche queste rischiose nel clima attuale – e cercano di stabilire collaborazioni con imprese e autorità locali nel tentativo di tirare avanti. Se fino a pochi mesi fa alcuni gruppi continuavano a occuparsi di casi collettivi, seppure sottotono e con infinita prudenza, con gli ultimi arresti l’idea stessa della contrattazione collettiva come strumento per avanzare gli interessi della classe operaia sembra essere ormai finita in Cina.
Eppure, l’eliminazione di queste organizzazioni potrebbe non essere abbastanza per esorcizzare lo spettro dello scontento operaio. La scorsa estate, i dipendenti della Jasic, un’azienda metalmeccanica di Shenzhen, si sono mobilitati per richiedere la creazione di un sindacato in grado di confrontarsi con i datori di lavoro.
A sorpresa, quando i lavoratori si sono trovati a scontrarsi con gli attacchi coordinati dei manager e delle autorità locali, un folto gruppo di studenti di alcune delle principali università del Paese si è mobilitato in loro sostegno, viaggiando a Shenzhen per manifestare la propria solidarietà.
Se tanto gli studenti quanto i lavoratori sono diventati oggetto di una durissima campagna di repressione, quanto accaduto ha suonato un campanello d’allarme per il Partito-stato.
Questo non solo perché l’alleanza tra studenti e lavoratori riportava alla mente eventi d’altri tempi, non da ultimo la primavera del 1989, ma soprattutto perché gli studenti non esitavano a descrivere la propria lotta nel linguaggio «maoista» della lotta di classe, mettendo così in luce l’ipocrisia del messaggio operaista del Partito-stato. Come mai in passato, l’imperatore oggi è nudo.
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