www.sindacalmente.org: Tre articoli sul Brasile che resiste a Bolsonaro
Diffondiamo da www.sindacalmente.org del 6 ottobre 2019
Il Brasile che resiste a Bolsonaro. Tre articoli su Il Manifesto del 2 ottobre “scattano” una fotografia sul Brasile di Bolsonaro e sul futuro dell’opposizione e di Ignacio Lula che potrebbe già ora lasciare il carcere in semilibertà, ma sceglie diversamente. L’attuale governo è un incubo, soprattutto per gli indios e per l’Amazzonia, che ci riporta ai tempi della morte di Chico Mendes, alla gravità di quel momento tragico. Al potere c’è un gruppo di fascisti, che hanno una larga maggioranza e attaccano i diritti, gli insegnanti e l’ambiente. Larghi settori della popolazione si stanno risvegliando, ma ci vorrà ancora tempo. Intervista a Jorge Viana, membro del Pt, ex presidente del Senato, che ha trasformatogli ideali di “florestania” in politiche nazionali. L’ex presidente Lula ha diritto al regime di semilibertà, ma non vuole che sia firmato da chi lo ha incastrato. In carcere a Curitiba da un anno e mezzo, ha le idee chiarissime: «Non scambio la mia dignità con la mia libertà», ha scritto in una lettera aperta divulgata tramite l’avvocato Cristiano Zanin. «Voglio che sappiano che non accetto di mercanteggiare la mia libertà e i miei diritti». E allo scrittore Paulo Coelho, che gli aveva inviato un messaggio di solidarietà, l’ex presidente ha ribadito: «Non accetterò favori da chi ha lasciato il paese in balìa della menzogna. La verità vincerà. È questo che toglie loro il sonno».
Nella foto più di un migliaio di donne indigene arrivano nella capitale del Brasile per protestare contro le politiche del presidente Jair Bolsonaro.
1. Angelo Ferracuti: Intervista a Jorge Viana, membro del Pt, ex presidente del Senato, che ha trasformato gli ideali di “florestania” in politiche nazionaliIl miglior avversario di Bolsonaro? «Lui e la sua famiglia» (Il Manifesto 2 ottobre 2019)
Al potere c’è un gruppo di fascisti, in simbiosi con il popolo, che hanno una larga maggioranza e controllano tutto. La gente comincia a svegliarsi, ma ci vorrà ancora tempo. L’attuale governo è un incubo, soprattutto per gli indios e per l’Amazzonia, che ci riporta ai tempi della morte di Chico Mendes, alla gravità di quel momento tragico. Incontro Jorge Viana nella . sua casa di Rio Branco, un villino con un ampio giardino con alberi d’alto fusto, il prato inglese e un salone accogliente, alle pareti molti quadri, fotografie in bianco e nero, e oggetti che ricordano la sua storia e il suo mondo, quello degli indios e dei seringueiros dell’Acre, i lavoratori della gomma, nella regione del Brasile più sperduta e dimenticata a confine con Perù e Bolivia di cui è stato governatore.
Politico del Partito dei lavoratori (Pt) più volte parlamentare e presidente del Senato, è quello che più di altri ha trasformato gli ideali di florestania in politiche nazionali, riconoscendo ai popoli della foresta diritti di cittadinanza e sfruttamento della terra secondo principi di agroecologia, dando forza al mondo della cooperazione e a un’economia comunitaria.
Viana è un uomo piccolo di statura di sessant’anni, dai modi semplici e molto diretto, un ingegnere forestale che attualmente insegna all’Università di Brasilia e lavora a progetti di sviluppo sostenibile, ma che non ha nessuna intenzione di abbandonare Fattività politica, in quanto vuole candidarsi alle prossime elezioni nazionali che si terranno tra due anni. Tra l’altro è stato uno dei pochi politici del Pt che dopo l’inaspettata sconfitta elettorale, ha avuto una posizione molto critica nei confronti del suo partito che secondo lui non ha ammesso che alcuni suoi membri e alleati erano coinvolti in vicende di corruzione.
D. Che sta succedendo in Brasile? C’è un presidente, Bolsonaro, che attacca governi esteri, ong, il mondo dell’istruzione, quella che definisce «spazzatura marxista», popoli indigeni e l’Amazzonia, dove aumentano incendi e deforestazione. Come racconterebbe a un lettore italiano questo momento difficile della vita del suo paese?
Stiamo vivendo un momento politico asfissiante, un incubo, soprattutto per gli indios e le popolazioni dell’Amazzonia. A noi che viviamo nella regione dell’Acre, ricorda il moménto della morte di Chico Mendes,’la gravità di quel momento tragico. C’è un disprezzo impressionante per le popolazioni indigene da parte del governo Bolsonaro, la volontà di cancellare tutte le tutele costituzionali, delegittimare la Funai, l’ente statale che dovrebbe salvaguardare le terre demarcate, anche se il Tribunale federale per il momento ha bloccato questo tentativo, ritenuto anticostituzionale. Una politica che al contrario protegge i grilleiros, i grandi proprietari terrieri, che adesso possono andare in giro armati e spara- : re, far valere le proprie ragioni con Fuso delle armi. È un inferno per chi vive a contatto con queste persone, per gli indios, per i lavoratori agricoli delle fazende, il governo incita alla distruzione delle foreste come ai tempi della dittatura, c’è un progetto di legge per dimezzare le terre demarcate dei popoli indigeni e quelle in concessione ai coltivatori diretti delle cooperative, per darle ai grandi affaristi.
D. E la foresta continua a bruciare, soprattutto in Rondonia, nello stato di Amazonas, ma anche qui nell’Acre.
Dopo la vittoria di Bolsonaro era prevedibile, sapevamo chi aveva alle spalle, i potentati dell’agrobusiness, i grandi faccendieri agricoli. Nell’ultimo ventennio la deforestazione era salita a 25 chilometri quadrati all’anno, ma grazie alle nostre politiche, quelle dei governi di Lula e Dilma Roussef, negli ultimi tre era stata ridotta a 5 mila. In un solo anno, con l’arrivo del nuovo esecutivo di destra, c’è stata una crescita di oltre il 100%, anche perché nel bilancio ha diminuito drasticamente gli investimenti per combattere il disboscamento, attraverso controlli fatti direttamente nei territori. Sarà fin serio problema per il Brasile, in quanto questi dati non rispettano l’accordo di Parigi del 2015 sulla riduzione dei gas serra e la temperatura media globale, riducendo i rischi dei cambiamenti climatici.
D. Intanto Norvegia e Germania hanno interrotto i finanziamenti al fondo che si occupa di conservazione dell’Amazzonia.
Sì, perché il governo Bolsonaro ne aveva bloccate le operazioni e stava utilizzando quei soldi per fare altre cose, con una spregiudicatezza e un’irresponsabilità sul piano dei rapporti internazionali che parlano chiaro.
D. Cosa sta facendo l’opposizione, il Pt, il Psol (Partito socialismo e libertà, ndr), in parlamento e nella società?
Non esiste un’opposizione oggi in Brasile. Al potere c’è un gruppo di fascisti, in simbiosi con il popolo, che hanno una larga maggioranza e controllano tutto, dai mezzi di comunicazioni ai grandi giornali, che sono tutti schierati con lui, da quattro anni si vive una crisi politica-istituzionale, dove settori del potere giudiziario hanno criminalizzato i partiti di sinistra, un piano per distruggere Lula come simbolo di un Brasile democratico, alternativo a quelli autoritari. C’è proprio un accanimento contro di lui spalleggiato dalla grande stampa. Il procuratore pubblico Deltan Dallagnol ha fatto una dichiarazione assurda, incomprensibile che però fa capire in quale situazione ci troviamo: «Non abbiamo prove ma la certezza che lui è colpevole». Con Lula in prigione e Bolsonaro al potere tutto quanto si traduce in qualcosa di simbolico è tragico. La società ha fatto un passo indietro, ripetendo gli errori di sempre. È come se si fosse divisa in tre parti, e due hanno scelto Bolsonaro, estrema destra e conservatori, che sono state storicamente sempre molto forti in Brasile.
D. Però segnali di resistenza ci sono stati, come la grande manifestazione di metà maggio contro i tagli all’istruzione, o quelle recenti e molto partecipate di San Paolo e Rio De Janeiro in difesa dell’Amazzonia.
La più grande opposizione a Bolsonaro sono lui e la sua famiglia, perché ogni giorno creano un problema, come il figlio Flavio, indagato per associazione per delinquere, appropriazione indebita e riciclaggio. Sì, adesso la gente comincia a risvegliarsi, il pendolo si è alzato molto e comincia ad abbassarsi, ma ci vorrà ancora molto tempo. Comunque è evidente che Bolsonaro è inadeguato, un politico mediocre, sono trent’anni che è nel Congresso ma non se n’è accorto nessuno. Vuole fare il conservatore ma non ha neanche una cultura politica liberale per legittimarsi. Lui non è pazzo ma malato di mente sì (ride, nda), ci sono molti dubbi che possa durare quattro anni. Questo si pensa anche in ambienti militari importanti.
D. Come ha reagito il mondo degli artisti, degli intellettuali?
Non abbiamo neanche un ministro della Cultura, il governo ha tagliato i fondi per il cinema, con la scusa che sono tutte produzioni di cultura marxista, tanto che è nata una polemica con l’attore Wagner Moura, il quale ha definito Bolsonaro un razzista amico dei fascisti. Oggi i partiti di opposizione sono molto fragili, hanno poca capacità di creare consenso in una .società sempre più orientati dai media, condizionata dai media quindi il mondo della cultura può far crescere e sviluppare un movimento di opinione forte contro il governo e le sue politiche liberticide. Artisti molto popolari come Caetano e Veloso Chico Buarque, che da sempre si battono contro il governo di destra e le sue derive autoritarie, in questo momento storico sono molto importanti.
2. Claudia Fanti: L’ex presidente Lula in regime di semilibertà (Il Manifesto 2 ottobre 2019)
Dal momento in cui è entrato in carcere un anno e mezzo fa, Lula lo ha detto e ripetuto: «Uscirò da qui solo quando la mia innocenza sarà riconosciuta al 100%». E ha continuato a ribadirlo anche quando, il 23 settembre scorso, ha finito di scontare un sesto della pena, ottenendo così il diritto alla semilibertà. Né lo hanno fatto cedere le crescenti pressioni di familiari e amici per convincerlo a uscire di prigione, facendovi ritorno solo di notte o accettando i domiciliari con relativa umiliazione del braccialetto elettronico. a sorpresa È arrivata anche la lettera della Procura di Curitiba, firmata da Deltan Dallagnol – il coordinatore del pool della Lava Jato caduto in disgrazia dopo le rivelazioni di Intercept sulla più grande farsa giudiziaria della storia del Brasile – e da altri 14 procuratori ugualmente screditati, in cui, constatata «la buona condotta in carcere» dell’ex presidente, «si chiede al Pubblico ministero federale» di inviarlo «al regime di semilibertà». Nessun sussulto di coscienza, ovviamente, dietro tale richiesta, ma solo una mossa dettata dalla disperazione.
Con la Lava Jato ormai totalmente compromessa dai messaggi divulgati da Glenn Greenwald e dai suoi colleghi riguardo al complotto giudiziario ai danni di Lula, e la possibilità ora assai meno remota che il suo processo venga annullato, i procuratori hanno giocato d’anticipo, anche in vista dell’esame da parte della Corte Suprema della richiesta di scarcerazione avanzata dalla difesa dell’ex presidente sulla base dell’accusa di parzialità nei confronti dell’ex giudice Sérgio Moro. Richiesta su cui la seconda sezione del Supremo tribunale federale dovrà in breve pronunciarsi, dopo aver già posticipato la decisione prima della pausa invema- ‘ le con il pretesto di voler attendere una conferma ufficiale dell’autenticità dei contenuti che Inter- cept continua regolarmente a pubblicare da giugno.
La lettera con cui la Procura sollecita il passaggio di Lula al regime di semilibertà ha avuto, tuttavia, l’effetto opposto, convincendolo ancor di più a restare in carcere un altro po’ nella speranza di poterne uscire poi completamente pulito, con tutté le carte in regola, cioè, per riprendere il discorso là dove si era interrotto: con la candidatura alla presidenza del Brasile. Perché il punto, ormai, non è più se Lula uscirà o meno di prigione – quasi nessuno in Brasile pensa che ci resterà ancora a lungo – ma come ne uscirà. E SU QUESTO L’EX PRESIDENTE ha le idee chiarissime: «Non scambio la mia dignità con la mia libertà», ha scritto in una lettera aperta divulgata lunedì per mezzo dell’avvocato Cristiano Zanin. «Voglio che sappiano che non accetto di mercanteggiare la mia libertà e i miei diritti». E allo scrittore Paulo Coe- lho, che gli aveva inviato un messaggio di solidarietà, l’ex presidente ha ribadito: «Non accetterò favori da chi ha lasciato il paese in balìa della menzogna. La verità vincerà. È questo che toghe loro il •sonno». A dare ragione a Lula è anche la sua nuova compagna, la sociologa Rosangela da Silva con cui l’ex presidente ha già annunciato che si sposerà una volta uscito di prigione: «La libertà arriverà, ma non porterà la firma di chi ha frodato la giustizia».
NON TUTTI, PERÒ, LA PENSANO allo stesso modo. In molti infatti ritengono che Lula abbia addirittura il dovere di accettare la libertà vigilata, essendo la sua scarcerazione uno strumento fondamentale in funzione di un rilancio del tessuto democratico del paese, gravemente compromesso a partire dal golpe contro Diima Rousseff. Tanto più che, viene sottolineato, potrebbe comunque continuare a lottare per dimostrare la sua innocenza anche fuori dal carcere. Senza contare poi che, di fronte a un quadro politico in costante evoluzione, perdere questa opportunità, anche considerando l’età di Lula, ormai 74enne, potrebbe rivelarsi una scommessa davvero troppo pericolosa.
TUTTAVIA, SE APPENA SEI MESI FA uno dei suoi più stretti collaboratori, l’ex ministro e braccio destro Gilberto Carvalho, poteva definire «impossibile» una sua assoluzione – per questa, diceva, «bisognerà aspettare che cambi il rapporto di forze in Brasile» – oggi il quadro profondamente mutato alimenta più di una speranza.
Quanto l’edificio della Lava Jato scricchioli da tutte le parti lo ha infatti indicato in maniera assai chiara la decisione con cui la Corte suprema, con sei voti a favore contro tre, ha riconosciuto che, neha fase finale del processo, ; >. un pentito non può pronunciarsi dopo l’imputato da lui accusato, ristabilendo così il principio, violato ripetutamente da Moro in decine di processi, compreso queho contro Lula, che è alla difesa che spetta l’ultima parola. È «l’inizio della fine», ha commentato non a caso la procuratrice Thaméa Danelon, ex-capo della Lava Jato a Sào Paulo.
3. Angelo D’Orsi: Università del Capitale e lotta rivoluzionaria (Il Manifesto 2 ottobre 2019)
Dal Maranhào, all’estremo Nord, allo Stato di Santa Catarina, all’estremo Sud, il viaggio è lungo, e comporta sbalzi climatici notevoli. Il passaggio da uno Stato all’altro della Repubblica Federale, in un tragitto di migliaia di chilometri, e diverse ore di volo, ti mette anche davanti alla diversità di questo Paese gigante che è il Brasile.
Il Nord aspro, caldo e povero, e il Sud umido, piovoso e ricco, esattamente il rovescio geografia>economico dell’Italia. Ma appena giungo, a Florianopolis, capitale dello Stato, trovo la stessa cordialità, e il medesimo spirito combattivo per la difesa dell’Università pubblica e la lotta contro “Bozo”. E ciò mi fa sentire a casa un po’ dappertutto.
Il primo incontro con il mondo universitario è il distintivo Euramo Universidade Publica («Io amo l’Università pubblica» cori tanto di cuore rosso) che mi viene offerto, da un collega, e che con gioia fisso alla mia giacca. Mi si informa che il programma di lavoro previsto nella UFSC, Universidade Federai de Santa Catarina, rischia di essere danneggiato dallo sciopero generale degli studenti, riuniti in assemblea permanente.
L’attività prevista peraltro si terrà ugualmente, dato il tema: Gramsci, a cui nessuno studente in sciopero potrebbe opporsi, aggiungono sorridendo; Punico problema sarà la riduzione del pubblico. Mi conducono a vedere la sala dove si tiene l’assemblea permanente: è un enorme spazio con il piano terra occupato da sedie e tavolini, dove studenti scrivono, leggono, discutono, mangiucchiano. Altri svolgono attività varie. Il tutto in una situazione che non può essere di silenzio, ma certo è assoluta- mente tranquilla, anche dal punto di vista dei decibel.
Attraverso la sala, e la riguardo dall’alto, .dalle balconate dei piani superipà-per avere una visione d’insieme, enfi soffermo sugli striscioni tutti inneggianti alla libertà della cultura, alla importanza che le università pubbliche vengano sostenute, disinteressatamente, mentre l’obiettivo di Bolso- naro è precisamente quello opposto: svilire, far rinsecchire gli atenei di Stato (sia dei singoli Stati della Repubblica, sia quelle federali), tagliando loro l’erba sotto i piedi, in modo che i servizi diventino pari a zero, e gli studenti si indirizzino verso gli atenei privati, di imprese e di chiese, o quelli stranieri, statunitensi, diretta- mente foraggiati dalle nazioni estere, a cominciare dagli Usa, come ho già avuto modo di ricordare. Tutte università che non hanno di mira la funzione civile, la cultura critica, bensì il mercato e l’azienda.
Nonostante lo sciopero, la conferenza su vita e pensiero di Gramsci, e il primo atto del minicurso su «Gramsci e una teoria generale del marxismo», vedono una presenza massiccia di studenti, e non ‘ mancano i colleghi. Nel secondo giorno, il corso prosegue. E le domande rimaste in sospeso il primo giorno riaffiorano, impellenti, implacabili, mi vien fatto di pensare, davanti al fuoco di fila di studenti e colleghi.
Non si tratta soltanto però di piccoli comizi politici, ma anche di vere e proprie richieste di approfondimento: Gramsci è e non smette di essere un punto di riferimento e arriva il momento in cui mi si chiede perché in Italia non è così. A loro pare assurdo che noi italiani abbiamo un patrimonio immenso, come il pensiero (e la stessa esistenza) di Antonio Gramsci e non lo si sfrutti. Comincia a emergere un tema che verrà poi ripreso nel terzo giorno, nel corso della immancabile intervista.
A diecimila chilometri di distanza si è colta, insomma, la deriva filologistica degli studi gramsciani in Italia: giovani e meno giovani insistono quasi gridando che Gramsci è stato non soltanto un pensatore, ma un attore politico, che ambiva a progettare e realizzare la rivoluzione. Certo, specie dopo la sconfitta – l’avvento fascista in Italia, la vittoria della reazione in Europa, il trionfo del capitalismo dopo la crisi di Wall Street;dell’autunno ’29… – la rivoluzione per Gramsci diventò un processo volto alla conquista dell’egemonia, attraverso strumenti prima di tutto culturali, ma egli non aveva rinunciato all’opzione del cambiamento radicale e alla volontà di essere dalla parte degli oppressi, come aveva sentenziato in un componimento scolastico del penultimo anno di liceo.
E allora mi sollecitano: «Lei non pensa che sia necessario essere gramsciani per studiare Gramsci?». Sì, qui sanno bene che Gramsci viene citato, usato, anche da politici e ideologi che non so no comunisti, né marxisti, né, infine, gramsciani: ma noi, mi si dice con enfasi, noi non possiamo permetterci di mettere Gramsci in una vetrina di biblioteca. A noi servono i suoi concetti, e il suo esempio, per agire contro questa destra «terrorista» e cercare di sloggiare Tintruso dalla presidenza.
Uscendo mi imbatto in un > grande murale che mostra donne e uomini e ragazzi con bandiere rosse e fiamme alle loro spalle: innalzano uno striscione: «Contra a Universidade do Capital Revoluto Social». E sorrido con un certo compiacimento. Questi non hanno intenzione di mollare la lotta per «uno straccetto di laurea» (Gramsci dixit, 1916!).
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