Marina Forti: Cop.21, conflitto di interesse sul clima

| 8 Dicembre 2015 | Comments (0)

 

Diffondiamo da www,terraterraonline dell’8 dicembre 2015

La Conferenza dell’Onu sul clima in corso a Parigi è un affare costoso. E almeno il 20 per cento di questo costo è finanziato da alcune grandi aziende, per lo più del settore dell’energia

 

Chiamiamolo conflitto d’interesse. La Conferenza delle Nazioni unite sul clima in corso a Parigi è un affare costoso, come tutti i consessi dell’Onu: e almeno il 20 per cento di questo costo è finanziato da alcune grandi aziende, per lo più del settore dell’energia. Niente male:  la conferenza che discute come frenare il cambiamento del clima ed evitare che diventi una catastrofe irreversibile per l’umanità è sponsorizzata dall’industria che più di tutte è direttamente coinvolta nel cambiamento del clima, cioè quella energetica: sappiamo tutti ormai che bruciare combustibili fossili è la prima fonte dei gas di serra che riscaldano l’atmosfera terrestre.

Anche le aziende sono corresponsabili della ricerca di soluzioni sul clima, si dirà. Il punto però è quali aziende, e cosa ne ottengono in cambio (in fondo, un vertice dell’Onu non è esattamente come una partita di calcio). Tra gli sponsor di Parigi ad esempio troviamo Engie (già Gaz de France-Suez), Suez Environment, il gruppo bancario Bnp Paribas, Energie de France. Si da il caso che Engie sia proprietaria di 30 centrali a carbone sparse per il mondo (tra cui quella di Vado Ligure, oggi chiusa per ordine della magistratura); in generale produce buona parte della sua energia con nucleare e combustibili fossili, solo il 5% con fonti rinnovabili. Bnp Paribas investe in Canada nelle sabbie bituminose, una delle fonti più controverse per il suo impatto ambientale. Anche Edf possiede e opera una quindicina di centrali a carbone – sto citando l’analisi pubblicata da un gruppo di Ong ambientaliste francesi.

Sponsorizzare la Conferenza sul clima, da parte di grandi inquinatori,  è quello che gli ambientalisti chiamano greenwashing, darsi una facciata “verde”? Si, certo, ma non solo: è anche lotta ideologica, oltre che interessi privati nelle politiche pubbliche. Vediamo perché. continua

L’organizzazione non governativa Corporate Accountability International (Cai), che si batte per la trasparenza delle grandi aziende multinazionali, ha analizzato i nessi tra le aziende sponsor, i decisori politici e le istituzioni internazionali e sostiene che la Conferenza di Parigi è sede di un  lavoro di lobby:, attraverso le decine di «eventi collaterali» in cui le aziende presentano «innovazioni di mercato» ai problemi ambientali, e cose simili. Oppure attraverso i negoziati informali, i cosiddetti informal informals che si tengono fuori dalle sedi plenarie per discutere punto per punto le bozze degli accordi e «facilitare» il lavoro dei negoziatori: sedi in cui il mondo delle imprese influenza i negoziati a proprio favore.

La vulgata è che le industrie devono contribuire alla soluzione del problema, impegnarsi nella transizione energetica, eccetera eccetera. Spesso gli eventi collaterali sono presentati come «forum pubblici di indirizzo politico», anche se  presenziano aziende e governi mentre hanno ben poco spazio le reti della società civile organizzata presenti a Parigi: proprio quelle che rappresentano  chi sta già pagando il prezzo di inquinamento e cambiamento del clima.

Insomma: industrie embedded nei negoziati – mentre organizzazioni ambientaliste e reti sociali ne sono escluse, a quanto denunciaun’organizzazione come Friends of the Earth International (a dire la verità, anche i negoziatori dei paesi meno potenti e più vulnerabili lamentano di essere esclusi dai negoziati veri). Tenute a distanza anche fisica: non è la prima conferenza Onu in cui ciò accade, anche se questa volta ad appesantire la tensione ci sono le misure anti-terrorismo adottate a Parigi dopo la strage del 13 novembre.

La presenza delle imprese nei corridoi dei negoziati non è una novità assoluta, e riflette una tendenza ormai affermata: è almeno un decennio che conferenze Onu affidano a «partnership pubblico-privato» le politiche per il clima (ma questo vale anche per altri campi di intervento che dovrebbe essere pubblico, dagli aiuti internazionali per lo sviluppo alla sanità o l’istruzione). È un progetto ideologico e politico: gli stati delegano le politiche pubbliche all’intervento (e ai finanziamenti) privati; il principio di coinvolgere le «parti sociali» è diventata ricerca di «soluzioni di mercato»,  di  collaborazione tra «mercato e ambiente».

In una nota da Parigi, il magazine americano The Nation commenta: «Chi inquina paga, ma non dovrebbe anche governare».

 

 

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Category: Ambiente, Osservatorio internazionale

About Marina Forti: Marina Forti, giornalista e scrittrice, vive a Roma. Per quasi trent’anni ha lavorato nella redazione del quotidiano il manifesto, dove ha avuto gli incarichi di inviata, caporedattore e caposervizio degli esteri. Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale, in Iran e nel sud-est asiatico – ma occasionalmente anche nelle Americhe. Dal 1998 al 2012 ha curato una rubrica di cui questo blog riprende il nome: terraterra, storie quotidiane di ambiente e conflitti per le risorse naturali (per cui ha ricevuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino). Tra i suoi libri: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo (Feltrinelli , Milano 2004); Il cuore di tenebra dell'India. Inferno sotto il miracolo (Bruno Mondadori 2012)

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