Terza storia d’amore: L’amore per la buona tavola di Stefano Bonilli

| 10 Agosto 2014 | Comments (0)

 

 

 

Dal 12 al 28 agosto la rivista on line www.inchiestaonline.it va in vacanza perché il suo direttore ed operatore Vittorio Capecchi va in vacanza con Amina dai suoi genitori Aulo Crisma e Maria dal Bosco (87 e 93 anni) in un posto su i monti Lessini sopra Verona dove le connessioni sono molto difficili. Questo congedo, breve, viene fatto pubblicando TRE STORIE D’AMORE

 

Terza storia d’amore: Come terza storia d’amore diffondiamo quella  per la buona tavola (cubi e vino) di Stefano Bonilli, un amico caro, che ci ha lasciato in questi giorni.

 

 

1. Roberto Burdense: Addio al rivoluzionario della cultura enogastronomica

[Il fatto quotidiano, 4 agosto 2014]

 

Stefano Bonilli se n’è andato ieri sera, all’improvviso, lasciando di sasso un intero mondo: quello dell’enogastronomia italiana. Classe 1945, cresciuto a Bologna, viveva “da sempre” nel cuore di Roma, città che amava molto e dove si è svolta tanta parte del suo percorso professionale e di vita.

Giornalista de il Manifesto prima e poi della Rai, è stato sin dalla metà degli anni ’80 uno dei protagonisti di quella vera e propria rivoluzione che la cultura gastronomica ha vissuto nel nostro Paese, fino ai successi (e agli eccessi) odierni.

Se oggi il vino è una delle punte di diamante del nostro export, se i nostri cuochi sono affermati professionisti noti in tutto il mondo, se il settore della produzione alimentare di qualità è uno di quelli che più contribuiscono a dare una bella immagine del nostro bistrattato Paese, certamente Stefano è una delle persone (non tante, in fin dei conti) a cui bisogna dire grazie.

Occorre tornare a quell’Italia di metà anni ’80 per far capire, a chi non lo ha conosciuto, chi è stato Stefano Bonilli e per quali intuizioni dobbiamo oggi ricordarlo e ringraziarlo. Erano anni in cui di cibo e vino non si parlava né sui giornali, né alla radio e in televisione. Per leggere qualcosa dovevi cercare i pezzi di Gino Veronelli o Gianni Brera, splendide penne che facevano però una corsa solitaria e forse – loro malgrado – troppo elitaria. La voglia di rendere più accessibile e democratico il verbo della buona tavola accomunava Bonilli e Carlo Petrini, che si erano conosciuti nei primi anni ’70 a il Manifesto, e che si ritrovarono nella primavera del 1986 per una di quelle vicende che nella vita non puoi pianificare: lo scandalo del vino al metanolo portò Bonilli nelle Langhe a fare un servizio per la Rai e ad incontrare di nuovo l’amico di vecchia data.

Bonilli, allora quarantenne, e Petrini, appena quattro anni in meno, avevano fantasia ed energia da vendere: in pochi mesi furono protagonisti di una serie di episodi che avrebbero cambiato per sempre la storia dell’enogastronomia italiana, lasciando segni che ancora oggi sono ben vivi e forti. Nel luglio 1986 nasceva infatti Arcigola, la prima pietra del movimento Slow Food, con Petrini Presidente e Bonilli tra i fondatori. Da lì a poco Arcigola con Bonilli e Daniele Cernilli avrebbe dato vita alla casa editrice Il Gambero Rosso, la vera creatura di Stefano. E nell’autunno 1987 avrebbe visto la luce la prima edizione della guida Vini d’Italia, destinata a riscrivere le regole della critica enologica italiana, con i famosi Tre Bicchieri.

A partire dai primi anni ’90 le strade di Slow Food e del Gambero Rosso si separarono gradualmente, con le due organizzazioni impegnate a sviluppare i propri progetti in sempre maggiore autonomia. Stefano Bonilli, in particolare, seppe mettere a frutto la sua esperienza nel mondo Rai inaugurando, nel luglio 1999, il canale Gambero Rosso Channel. La capacità di anticipare i tempi, propria di Stefano, si ritrova anche nel suo rapporto con il web: fu tra i primi ad intuirne le potenzialità e a cercare di sfruttarle a beneficio della comunicazione gastronomica.

Oltre che un importante innovatore e un grande gourmet, Stefano è stato anche un ottimo maestro. Non si contano oggi quelli che lo ringraziano per aver insegnato loro un mestiere. Un mestiere che non esisteva, poiché fino a pochi anni fa chi scriveva di cibo e di vino era un autodidatta. Nessuna scuola e di fatto nemmeno nessuna bottega dove andare a imparare davvero il mestiere. Stefano, che conosceva il mestiere di giornalista, ha dapprima preso a bottega, al Gambero Rosso, tanti ragazzi e ragazze che hanno poi potuto coltivare anche in altre testate il loro talento. E poi ha costruito una vera e propria scuola di giornalismo enogastronomico dentro la Città del Gusto.

Il momento più difficile della sua carriera fu sicuramente il traumatico distacco dalla sua stessa creatura, la casa editrice Gambero Rosso (Bonilli fu licenziato nel settembre 2008 al culmine di una crisi della holding da lui stesso creata e passata poi di mano proprio negli anni che seguirono il grande investimento della Città del Gusto). Le cicatrici di quella vicenda erano evidenti e chi conosceva Bonilli non poté non vedere la sua grande sofferenza. Il fuoco sacro che ardeva in lui non era però spento del tutto e Stefano si lancio presto in nuove avventure editoriali, in nuovi dibattiti, in nuove riflessioni sul futuro della gastronomia e su come sarebbe stato necessario occuparsene.

Leggeva molto, Stefano. Scriveva bene. Sapeva raccontare storie memorabili della cucina italiana e dei suoi protagonisti. Ci sarebbe stato ancora tanto bisogno di lui, anche per discuterci animatamente – come è capitato anche a me, più di una volta in 23 anni di conoscenza – sapendo però sempre che dall’altra parte c’era un galantuomo che non faceva venire meno il rispetto. E che alla fine tutte le volte ti lasciava qualcosa di buono da tenere a mente.

Grazie Stefano, questo piccolo mondo ti deve tanto.


2. Loris Campetti: Un ricordo torinese di Stefano Bonilli

[Il manifesto Bologna 7 agosto 2014]

Era una brutta giornata d’autunno, l’autunno torinese. La spinta propulsiva dei 35 giorni di presidi ai cancelli di Mirafiori andava esaurendosi e crescevano le denunce per violenza privata, cioè contro i picchetti operai che disincentivavano i crumiri a varcare i cancelli o, peggio, a scavalcare il muro di cinta del gigante industriale – “il muro della vergogna”, tuonava il segretario generale della Fim Franco Bentivogli. In ballo c’erano 24 mila posti di lavoro e le conquiste di un decennio di lotte operaie.

L’appuntamento era al Teatro Nuovo, dove i vertici della Fiat guidata da Gianni Agnelli e, soprattutto, Cesare Romiti avevano convocato capi, impiegati e crumiri per invitarli alla “controrivoluzione”. Ci si aspettava qualche centinaio di “travet”, ma lo “sciafela leun” (schiaffeggia leoni, così chiamavamo Romiti) aveva lavorato bene, sguinzagliando tutti i suoi scherani: giornata di lavoro pagata e trasferta per i fuori sede. Arrivarono in migliaia, con cartelli e striscioni, grigi, brutti, rabbiosi: “Novelli, Novelli, riaprici i cancelli”, come se la protesta operaia fosse colpa del sindaco comunista. Teatro pieno, strada di fronte piena, partirono in corteo verso il comune. Io ero il cronista torinese del manifesto, Stefano quello inviato da via Tomacelli e con noi c’era un dirigente del Pci che al tempo si chiamava ancora Pci.

In tre guardavamo gli ascari del padrone sfilare, c’erano tante impiegate alla loro prima uscita sociale, emozionate e un po’ spaesate, vestite con l’abito della domenica. Stefano e il comunista (più tardi sarebbe approdato in Parlamento) si avvicinarono a una signora tirata a lucido appena uscita dal parrucchiere che alzava uno dei tanti cartelli di protesta antisindacale. “Si è fatta la permanente per l’occasione?”, chiesero con un sorriso raggiante, e lei visibilmente compiaciuta: “Sì, si nota?”. “Si nota – fu la risposta corale – ma la faccia resta sempre come il culo”. Cattiveria? No, rabbia di chi vede una storia finire, una storia iniziata un giorno d’autunno del ’69 e conclusa proprio da quella marcia dei cosiddetti 40 mila. In realtà erano al massimo la metà, e comunque una marea, violenta e fangosa. Uno tsunami antioperaio.

 



 

Category: Cibi e tradizioni, Editoriali, Welfare e Salute

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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