Alberto L’Abate: Gramsci e la nonviolenza
Si è tenuto, alla fine di maggio 2013, un convegno internazionale su “Mille libri per Gramsci” che si è svolto, in tre giornate distinte, a Roma, Cagliari, e si è concluso ad Ales, la città natale di Gramsci. In questo convegno è emerso che, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati, di Gramsci e su Gramsci, 20.000 saggi in quaranta lingue diverse. Molti di questi sono apparsi nel mondo anglosassone, in particolare negli USA, ma anche in Sud America ed in Asia, specie in India. Come dice il giornalista che riporta, in un quotidiano sardo, su questo convegno: “Il dato forte, che dovrebbe indurre anche dalle nostre parti a riconsiderare con più attenzione gli insegnamenti del pensatore sardo, è quello dell’attualità contemporanea del suo pensiero, diventato in diversi paesi all’estero bussola da usare un questi anni di crisi globalizzata”1 .
1. In Italia silenzio e censura
Ma dal convegno è emerso anche come, nel nostro paese, dopo gli anni settanta: “ ci sia stato un grande silenzio nei confronti di Gramsci. Una grigia omologazione in sede accademica” tanto che uno dei relatori, in occasione della pubblicazione degli atti di un convegno, si scopre drasticamente censurato e depurato da tutti i riferimenti a Gramsci. “Segno inequivocabile – conclude il giornalista – che quel pensiero continui, a distanza di tempo, ad essere ancora scomodo”(ibid.).
Questo mi ha fatto ritornare in mente una censura di questo tipo subìta anche dal sottoscritto, sui suoi studi sui rapporti tra “Gramsci e la Nonviolenza”, presentati, in prima istanza, in un seminario di studi a Ghilarza nel 1992, in un convegno su questo tema al quale hanno partecipato, oltre al sottoscritto, che aveva l’incarico di introdurre il tema presentando un saggio su “Sette ipotesi sui rapporti tra Gramsci e la nonviolenza”, due importanti studiosi del pensiero gramsciano, come Caprioglio, curatore di quasi tutti gli scritti giovanili gramsciani per l’editore Einaudi, e direttore del Centro Gramsci di Torino, e Don Nardone, che aveva fatto una bella tesi sul pensiero di Gramsci, seguita da Norberto Bobbio, diventata poi un volume, e scritto poi altre cose importanti su Gramsci. Il convegno era organizzato, in un bel castello di Ghilarza, dalla Casa per la Pace e dalla Casa Gramsci di quella cittadina , in cui Gramsci aveva passato i primi anni della vita, all’interno delle iniziative del mese della cultura del Comune. Come scrive il gruppo di studio sulla “nonviolenza e Antonio Gramsci”, in un resoconto su un seminario del 2011, sempre tenutosi a Ghilarza, di cui parleremo in seguito : “In quell’occasione i pareri dei tre studiosi si focalizzarono
su interpretazioni differenti fra loro: mentre Don Nardone sembrava più propenso a vedere alcuni nessi fra il pensiero gramsciano e quello nonviolento di Gandhi e Capitini, Caprioglio tendeva invece a negare qualsiasi tipo di rilettura nonviolenta di Gramsci”2. Ma la cosa strana è stato il fatto che, malgrado la Casa Gramsci fosse specializzata nel conservare tutta la documentazione gramsciana (scritta e visiva), e fosse incaricata, dal Comune di Ghilarza, di registrare il dibattito, quella registrazione è andata, stranamente, perduta, e per quasi venti anni di quel dibattito non si è saputo nulla. Trascuratezza o censura ?. Personalmente sono convinto che fosse stata censura perché le mie tesi non corrispondevano con quelle del Partito Comunista, cui Caprioglio, secondo me, faceva riferimento, partito che prima aveva cercato di costruire il comunismo nel nostro paese trasportando in Italia – in disaccordo con Gramsci – la rivoluzione violenta di tipo leninista, e poi, dopo il “compromesso storico”, accettando il riformismo – anche qui in totale disaccordo con Gramsci – considerandolo come una scelta “nonviolenta”, e lasciando del tutto nel dimenticatoio la rivoluzione nonviolenta predicata ed attuata da Gramsci.
Dopo questo episodio la riflessione su Gramsci e la nonviolenza è rinata, molti anni dopo, quando un amico di Ales, cui avevo raccontato di quel convegno “censurato,” mi ha proposto di riscrivere le mie tesi e di partecipare, con le mie riflessioni su questo tema, al Premio Gramsci della città di Ales. Grazie ad una registrazione fatta alla buona, e da distante, da un amico della Casa per la Pace di Ghilarza, alle 90 pagine di appunti che avevo fatto leggendo testi gramsciani per prepararmi al convegno, e grazie anche agli appunti presi a mano da mia moglie durante il convegno stesso, ho potuto ricostruire parte di quel dibattito e scrivere un primo saggio su “Gramsci e la nonviolenza”, che ho presentato per quel premio. Il saggio non è stato premiato, ma è stato pubblicato, nel 2011, come quaderno n.1 della Fucina per la Nonviolenza di Firenze, ed è poi diventato la base di un seminario di studi a Ghilarza, nell’estate 2011, cui hanno partecipato dodici persone della “Rete Nonviolenza Sardegna”. La conclusione di questo seminario è stata fatta alla Casa natale di Gramsci ad Ales, cittadina dove appunto si è concluso anche il convegno gramsciano prima citato. Ma ricordo ancora, con molta gioia, il commento fattoci, alla conclusione di questa presentazione, dai dirigenti della Associazione Casa Natale Gramsci: “Ci avete fatto conoscere un Gramsci a noi del tutto sconosciuto!”. E questo apprezzamento ha portato i dirigenti di questa Associazione a chiederci di poter inserire, nel volume con la pubblicazione dei testi premiati con il XII premio Gramsci, anche il mio testo originale ed lo scritto conclusivo del seminario di Ghilarza del 2011, cosa che abbiamo accettato con piacere 3 .
2. Giuseppe Ganduscio e Carla Marazza
Ma a questo punto è il caso di tornare al tema di questo articolo, e cioè all’inizio delle riflessioni su Gramsci e la nonviolenza . Queste erano cominciate con la mia conoscenza di Giuseppe Ganduscio, e della sua compagna Carla Marazza. Giuseppe Ganduscio, nato a Ribera, in Sicilia, è un antesignano dei cantanti di musiche folcloristiche che non si limitano a cantarle, ma che le ricercano attivamente nelle tradizioni popolari del proprio paese4. Ma oltre che ricercatore e cantante Ganduscio aveva anche impiantato una industria a Firenze per la produzione di apparecchiature elettroniche perfezionate per la riproduzione e la trasmissione di musica, nella quale, al momento più fiorente, lavoravano circa una quarantina di persone. Venuto a conoscere il lavoro che Danilo Dolci, con strumenti della nonviolenza, faceva nella sua Sicilia, Giuseppe decise di lasciare la fabbrica ai suoi operai ed è sceso, con la sua compagna di vita Carla Marazza, a Partinico ed a Trappeto per collaborare con il lavoro di Danilo. E visto che molti dei volontari, che venivano spesso dall’Italia del Nord, non conoscevano per niente la cultura e la storia della Sicilia, cominciò a far loro lezioni su questo tema, lezioni che, dopo la sua morte (avvenuta purtroppo, per cancro, quando era ancora molto giovane) la sua compagna Carla Marazza raccoglierà e farà pubblicare in un aureo libretto intitolato “Perché il Sud si ribella”5. Giuseppe e Carla erano ambedue appassionati del pensiero gramsciano, dal quale dicevano di aver tratto anche l’amore per la nonviolenza, ed erano molto arrabbiati per il trattamento che il Partito Comunista, del quale ambedue facevano parte, aveva avuto verso Gramsci stesso ponendolo in ostracismo ed ordinando alle sezioni, tra l’altro anche quella di Sesto Fiorentino alla quale essi stessi appartenevano, di togliere dalle pareti le foto di Gramsci. La tesi di fondo del libretto di Giuseppe era quella che c’era una grande differenza tra “ribellione” e “rivoluzione”: la prima era un cambiamento sociale improvviso fatto però senza aver chiaro dove si voleva andare, mentre la seconda era invece un cambiamento, anche questo, talvolta, ma non necessariamente, rapido, che aveva invece molto chiare le idee su dove si voleva arrivare. Nei termini della teoria nonviolenta la rivoluzione implicava perciò l’aver chiaro quello che viene definito “il progetto costruttivo”.
E Ganduscio sosteneva che Gramsci era un “rivoluzionario nonviolento” perché predicava una rivoluzione pacifica, senza spargimento di sangue, costruita dal basso attraverso una forte organizzazione di base (i consigli di fabbrica), che avesse anche chiaro il tipo di società che voleva mettere al posto di quella vecchia. Mentre in Sicilia, invece, tutti i moti sociali che erano avvenuti erano stati fatti senza alcuna idea di dove si sarebbe dovuti arrivare, e spesso anche usando la violenza, e si caratterizzavano perciò solo come “ribellioni”.
Come avremo occasione di vedere in seguito, l’incomprensione del Partito Comunista, sia durante l’imprigionamento di Gramsci (si veda il bel film : “Gramsci: i giorni del carcere”, di Lino Dal Fra 6), sia soprattutto dopo la sua morte, ha radici profonde in questa non compresa differenza. L’entusiasmo di Giuseppe e Carla mi ha molto influenzato, ed ambedue mi hanno tramesso l’amore per il pensiero di Gramsci, che da allora mi ha portato a lavorare ripetutamente sul rapporto tra Gramsci e la nonviolenza.
Questi approfondimenti mi hanno portato ad elaborare un modello strutturale, di ispirazione gramsciana, per l’analisi della società a livello macro, che verrà utilizzato, proficuamente, da me e da alcuni miei allievi, sia per l’analisi del fenomeno guerra a livello mondiale, sia per il superamento della separatezza tra modelli conflittuali e consensuali, e sia, infine, per la coesistenza di modelli interpretativi del marxismo occidentale e di quello terzo-mondista.
Questo modello gramsciano si basa infatti sulla rilevanza di due fattori fondamentali, la classe sociale ed il territorio, mettendo in luce la co-presenza, nella società attuale, di fenomeni legati alla dominanza della classe sociale alta sulle altre, e della città sulla campagna (cui corrisponde anche quella del Nord sul Sud), e richiede, per il suo superamento, ciò che sosteneva Gramsci, cioè un alleanza del proletariato interno, delle fabbriche del Nord, con quello esterno, i contadini del Sud7 .
3. Il convegno a Ghilarza del 1992 e le sette ipotesi
Il proseguo della riflessione è invece legato alla mia collaborazione, per vari anni, con la Casa per la Pace di Ghilarza, per seminari estivi sulla nonviolenza. Durante uno di questi emerse l’idea di organizzare, in quella città, durante il mese dedicato dal Comune a sviluppare temi culturali, ed insieme alla Casa Gramsci di quella cittadina, una riflessione approfondita sui rapporti tra Gramsci e la nonviolenza. La proposta fu accettata sia dalla Casa Gramsci che dal Comune, si mise a punto il programma e gli invitati, e si arrivò al convegno, di cui abbiamo già accennato, presso la Torre Aragonese di Ghilarza, il 24 settembre 1992.
Qui di seguito le sette ipotesi8 della mia introduzione al dibattito.
La prima ipotesi è quella che un iniziale collegamento tra Gramsci e la nonviolenza sia la grande importanza data da lui alla politica come atto morale, una politica cioè legata ai valori etici, alla verità9, alla auto-disciplina. Quando si leggono, infatti, le frasi di Gramsci sull’importanza della verità e della disciplina anche per l’autoformazione delle persone, ritornano in mente frasi abbastanza simili di Gandhi, che, pur partendo da principi filosofici e politici abbastanza diversi, arriva però a conclusioni molto vicine. La politica come atto morale implica anche un impegno etico che porta ad unire ragione e passione, e fa riferimento all’esistenza di un essere umano complessivo, formato di mente, anima e corpo, tutti interconnessi ed interagenti. Questa mi sembra una prima pista molto interessante sulla quale lavorare e da approfondire.
Una seconda ipotesi è quella che riguarda la concezione del popolo e dell’essere umano che Gramsci aveva: egli non credeva nell’uomo massa, egli aveva una immagine dell’uomo come essere individuale legato, e collegato strettamente agli altri esseri umani, attraverso continui rapporti di interconnessione. E dalla sua lettura emerge chiaramente l’importanza del singolo essere umano e la necessità di formare gli uomini a sentirsi tutti responsabili di quanto avviene in questo mondo. Questo ricorda moltissimo certe frasi di Don Milani, sull’importanza di educare i giovani a superare il fascistico “Me ne frego”, tanto diffuso, purtroppo, anche oggi, tra i giovani, per portarli invece a capire la bellezza dell’I care, dell’importanza che tutti gli uomini si sentano responsabili di tutto10. Connesso a questo c’è in Gramsci anche la coscienza che la passività dell’uomo è uno degli elementi che determina negativamente la storia, perché, in questo caso, si lascia fare la storia agli altri, a quelli che hanno beni ed interessi. Da qui la necessità che gli esseri umani, soprattutto quelli che fanno parte della classe operaia, prendano coscienza del loro stato e delle ragioni che lo determinano, diventino attivi, operino per liberarsi dal loro giogo, e non accettino di essere uomini massa. Ma questo sottolinea anche la necessità di superare le concezioni meccanicistiche ed evoluzionistiche, presenti anche in certe scuole marxiste, che fanno ritenere che il comunismo sarebbe stato il naturale sviluppo del progresso capitalistico, e che perciò vedono la storia quasi determinata da forze poco controllabili dall’uomo, mentre, secondo Gramsci, è l’uomo stesso che può, e deve, costruire la propria storia. Mi sembra questa un’altra pista, un’altra ipotesi, veramente importante, su cui questo collegamento tra Gramsci e la nonviolenza si può ritrovare.
La terza ipotesi è quella del legame tra costruzione e distruzione, che si potrebbe anche chiamare dell’importanza del progetto costruttivo. Scrive Gramsci:
“E’ distruttore-creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, far affiorare, il nuovo che è diventato necessario ed urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea”11.
Da questa si evince che il mondo nuovo si costruisce all’interno del vecchio mondo e, che, man mano che nasce quello nuovo, a poco a poco il vecchio crolla, e si distrugge. Da questa impostazione emerge, tra l’altro, l’importanza degli aspetti strategici, progettuali ed anche la centralità del processo educativo, del prepararsi ad essere uomini liberi, della necessità di costruire una nuova classe dirigente, un nuovo gruppo che non aspetti la palingenesi, il cambiamento subitaneo ed improvviso di tutta la realtà, la rivoluzione vista come azione improvvisa, ma che, senza aspettare questo fatidico giorno, cominci da subito a trasformare la realtà nel senso desiderato, dando vita appunto a quegli aspetti innovativi che, come accennato prima nella citazione di Gramsci, porteranno alla crescita della società nuova ed alla morte di quella vecchia. Questa è un’altra delle ipotesi, che mi sembra valga la pena di essere sviluppata, che conferma l’apertura di Gramsci verso le tematiche, e le modalità di lotta, della nonviolenza.
La quarta ipotesi è strettamente connessa a quella che abbiamo appena veduto, ed è l’importanza data da Gramsci alla guerra di posizione, invece di quella di movimento. Una guerra cioè vista non come uno scontro frontale, ma con continui processi molto lunghi di prese di posizione, di conquista o costruzione delle famose “casematte”, come avamposti della società da costruire in mezzo a quella vecchia da distruggere. E’ questo tipo di lotta e di guerra, appunto di posizione, con avanzamenti e sconfitte, ma con altri avanzamenti, fino alla trasformazione sociale completa, che Gramsci vede come fondamentale in un tipo di società come la nostra, dei paesi occidentali avanzati ed anche, spesso solo a parole, democratici. Anche su questo le molte pagine degli scritti di Gramsci sono estremamente interessanti, e richiamano la nonviolenza, e la sua strategia di trasformazione della società attuale, una strategia rivoluzionaria, sì, ma senza violenza, che porta avanti la lotta con un principio di gradualità, da lotte di intensità minore ad altre sempre più grandi, fino alla totale trasformazione sociale della realtà nella quale viviamo. Dalla lettura dei testi gramsciani, ma in particolare delle “Lettere dal Carcere” e dai “Quaderni del Carcere” ho tratto l’impressione che il discorso sulla guerra di posizione, e cioè di una strategia nonviolenta di trasformazione sociale, sia andato aumentando in Gramsci dall’inizio del suo imprigionamento verso la fine della sua vita12. E’ questo, della guerra di posizione, un altro filone, un’altra ipotesi importante del rapporto tra Gramsci e la nonviolenza.
La quinta è l’ipotesi dell’importanza dell’organizzazione di base, e del controllo dal basso, che è quella che si può chiamare la rivoluzione dal basso, e cioè che Gramsci, in tutto il suo pensiero, tenga a sottolineare l’importanza dell’organizzazione di base, dei gruppi e dei consigli operai, dei vari organismi di base. E quindi l’importanza di un basso che si organizza, per creare una nuova società, e mettere, sia pur gradualmente, fine alla vecchia società capitalistica e sfruttatrice. Dando vita ad una specie di contropotere di base che poi, a poco a poco, riuscisse ad impregnare e trasformare tutta la società.
Questa idea gramsciana è stata arricchita, in seguito, da Aldo Capitini (il fondatore del Movimento Nonviolento Italiano e l’organizzatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi), che considerava Gramsci suo maestro… Capitini, riprendendo alcune idee di Gramsci, fonda un giornale “Il potere è di tutti”, con il quale cercava di educare alla partecipazione attiva i contadini, gli operai, gli studenti, affinché organizzassero, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle campagne, degli organismi di base che dovevano essere gli elementi fondamentali per creare una società diversa13.
E questo ha portato anche all’organizzazione, da parte di Capitini, dei COS, Centri di Orientamento Sociale, che erano appunto dei centri di informazione e discussione pubblica, nati originariamente nella città di Perugia, ma che si sono poi diffusi in tutta Italia. In questi si presentavano e si discutevano, da una parte, i temi di amministrazione locale, invitando anche gli amministratori a discuterne con il pubblico perché si facessero certe cose, o delle ragioni del perché non si facevano altre cose, e così via. Ma dall’altra parte anche, in modo alternato, i problemi mondiali, il perché delle guerre in corso o in preparazione, e su cosa si poteva fare per evitarle, e così via. E questo con l’idea, che è sempre molto attuale, che è importante interessarsi dei problemi locali, ma che bisogna sempre avere presente i loro collegamenti con i problemi mondiali.
Capitini, nei COS, dedicava spesso del tempo alla conoscenza di Gramsci e del suo pensiero dato che, come abbiamo visto, vedeva Gramsci come suo ispiratore per questo tipo di attività. La teoria del potere di Capitini aveva stretti collegamenti con quella di Gramsci che è, anche, la teoria del potere alla base della nonviolenza. Questa sostiene che non esiste tutto il potere al centro e nessun potere alla base, ma, che, ognuno di noi, ognuno dei cittadini, ha un briciolo di potere, e che, se prende coscienza del proprio potere, se riesce ad organizzarsi, a collegarsi con altri gruppi nella stessa condizione, a diventare attivo e non passivo, anche attraverso l’azione diretta nonviolenta, se riesce a fare bene questo lavoro, il potere di chi lo detiene attualmente diminuisce e diventa sempre meno forte, e che, se questo movimento di sviluppo del potere dal basso si accresce e si allarga, quello dall’alto rischia di indebolirsi ed anche di crollare14.
La sesta ipotesi, è il superamento dell’idea di dittatura del proletariato in quella di egemonia. L’egemonia è un concetto che include anche momenti consensuali, di condivisione da parte di tutti i gruppi, non solo del gruppo egemone, il che implica un forte lavoro per convincere gli altri delle proprie idee e dei propri punti di vista. Il concetto di “egemonia culturale della classe operaia” di cui parla Gramsci, viene considerato molto importante da Capitini il quale scrive: “Se sul piano politico deve formarsi la volontà collettiva per la trasformazione sociale, il Gramsci vede che sul piano culturale occorre una riforma intellettuale e morale, con una nuova concezione del mondo, e questa riforma molto più complessa è riforma ‘in senso forte’”15.
E Capitini, rispetto al concetto di egemonia, appoggia la tesi di Bobbio: “Bobbio. …sottolinea l’importanza del consenso nel pensiero di Gramsci che si estrinseca anche nel concetto di egemonia intesa non solo come direzione politica, ma anche come direzione culturale, e che include, ma non si identifica, con l’uso della forza (vista come strumentale e subordinata all’egemonia) che ha una estensione maggiore e comprende anche la direzione culturale, cioè la formazione del consenso, oltre la direzione politica” ed ancora: “ ..mette al centro del processo rivoluzionario non il numero di persone, non la forza bruta, ma la capacità di elaborazione culturale”16.
Ed infatti l’egemonia non si identifica né si esaurisce nella forza, specie di quella bruta di tipo poliziesco e militare messa in atto nel’Unione Sovietica da parte di Stalin. Questo porterà Gramsci al rifiuto, in modo molto netto, e alla condanna dello stalinismo, posizione che, data l’impostazione dell’allora Partito Comunista, lo metterà spesso in difficoltà all’interno del partito da lui stesso fondato, e per l’adesione al quale verrà anche messo in carcere.
Una ultima ipotesi, più gramsciana che nonviolenta, dalla quale i movimenti nonviolenti hanno tutto da imparare, è quella del superamento della mitizzazione della classe operaia, tradizionalmente intesa come gli operai delle grandi industrie dei paesi sviluppati, come leva principale del processo rivoluzionario. Questo avrebbe dovuto avvenire, perciò, nei paesi e nelle zone industrialmente più forti, come in realtà non è affatto avvenuto. Questa teoria metteva ai margini, in questo processo, i contadini del mezzogiorno ed i popoli dei paesi non industrializzati, nei quali, invece, molte volte ci sono stati movimenti rivoluzionari ispirati al socialismo. Uno dei punti essenziali dell’insegnamento gramsciano, che può permettere di superare il distacco tra il marxismo dei paesi occidentali e quello terzomondista, era quello di trovare punti di accordo ed una strategia rivoluzionaria comune tra operai e contadini, tra Nord e Sud17.
Ma come abbiamo già accennato varie di queste ipotesi hanno avuto l’appoggio di Don Nardone18 ma il quasi totale dissenso di Caprioglio che ha “dichiarato che, quando ha ricevuto l’invito, non ha nascosto le sue perplessità nel vedere accostato il pensiero di Gramsci a quello di Gandhi e di Tolstoj, e dichiara perciò di aver scelto, in questo dibattito, di fare l’avvocato del diavolo, sostenendo la tesi contraria alla mia, e cioè che il pensiero di Gramsci non ha nulla a che vedere con la nonviolenza. Infatti, secondo lui, Gramsci è strettamente ancorato al pensiero di Marx, ed influenzato anche da quello di Sorel, e pur utilizzando le armi della critica sosteneva anche la critica delle armi ed accettava l’assioma che la violenza è la levatrice della storia.
Secondo Caprioglio, infatti, la cultura nella quale Gramsci era immerso, e che aveva accettato, era una cultura violenta di origine hegeliana: per lui l’emancipazione dei lavoratori, per la quale lottava e alla quale aveva dedicato la propria vita, non avrebbe potuto avvenire senza violenza”19 .
Non mi sembra il caso di riprendere qui tutti gli elementi principali di queste discussioni ed anche le mie risposte ai dubbi espressi da Caprioglio. Ma non vorrei dare l’idea che le obiezioni e le critiche di Caprioglio alle mie ipotesi fossero del tutto infondate. Nel convegno, dopo tutti gli interventi anche dei presenti, il tempo che ho avuto per confutare alcune delle sue critiche è stato al massimo di 10 minuti, e forse è stata anche questa limitazione a non convincerlo del tutto sulla validità e sostenibilità delle mie ipotesi. Quando ho scritto il primo saggio, di cui ho già accennato, sulla base dei miei appunti, ho sviluppato le mie argomentazioni sperando che il dibattito potesse continuare per scritto. Purtroppo Caprioglio, nel frattempo, era morto e questo non è stato possibile.
Ma per non fargli torto vorrei per lo meno citare due sue osservazioni che hanno una base reale: 1) che Gramsci non era sicuramente un nonviolento integrale, perché riteneva, in certe situazioni, l’uso delle armi necessario; 2) che Gramsci era molto critico verso un pacifismo generico che non coglieva a fondo le cause reali dei conflitti in atto.
A queste critiche ho risposto, qui in estrema sintesi, che 1) Gramsci aborriva la guerra e le armi, anche se le considerava necessarie per difendersi da attacchi padronali contro l’azione proletaria, e per difendere la rivoluzione socialista da una contro-rivoluzione violenta ; 2) che le sue critiche erano perfettamente congruenti con le tesi dei nonviolenti contemporanei, e cioè che è molto più pericolosa e subdola, e perciò anche più difficile a combattere, la violenza strutturale di quella diretta, mentre spesso la cosiddetta “pacificazione “ tende a lavorare contro questa ultima ma a non far nulla contro la prima.
Ma per un approfondimento sia delle critiche di Caprioglio, anche di quelle che, secondo me, erano molto meno fondate di queste prime, che delle mie risposte più esaustive rimando le persone interessate ad approfondirle nel volume del Premio di Ales citato ripetutamente. Quello che mi sembra importante ripetere qui è il fatto che, personalmente, non riesco a liberarmi dal dubbio che queste perplessità di Caprioglio abbiano avuto molta influenza sulla “perdita” delle registrazioni ufficiali dell’incontro, e forse, ma questo è molto più dubbio dato che probabilmente è morto prima di riceverlo, sul silenzio della stampa di sinistra, cui il mio primo libretto20 su questo dibattito, e con queste ipotesi, era stato mandato per recensione.
4. Il seminario del 2011 alla Casa per la Pace di Ghilarza
Comunque queste censure, se di questo si tratta, e questi silenzi, sono alla base del desiderio di confrontarmi su queste ipotesi con altre persone interessate a questa tematica, che hanno portato all’organizzazione, insieme alla nascente “Rete Nonviolenza della Sardegna”, di un seminario di studi sulla nonviolenza e Gramsci che si è tenuto, nei giorni dal 6 al 9 luglio 2011, alla Casa per la Pace di Ghilarza . In questo seminario, cui hanno partecipato 12 persone21 oltre al sottoscritto, ci siamo divisi in tre gruppi di lavoro, ciascuno dei quali “con il compito di approfondire e verificare un’ipotesi di partenza attraverso letture, sottolineature, confronti e l’utilizzo della tecnica della stesura collettiva cara a Don Milani”22. Il compito dei gruppi, grazie all’abbondante materiale fotocopiato di molti testi prestatici dalla Casa Natale di Gramsci di Ales, dove si concluderà il seminario, era quello di trovare elementi di appoggio, od anche di contrasto,alle principali ipotesi da me illustrate nel quaderno citato che tutti i partecipanti avevano ricevuto con il compito di leggerlo prima di venire a Ghilarza. In realtà elementi di contrasto non ne sono emersi, ma anzi sono emersi molti punti di approfondimento delle ipotesi di partenza. Anche qui non posso riprendere, per non allungare troppo questo saggio, né il testo della relazione complessiva del seminario apparsa nel volume del XII Premio Gramsci, già ripetutamente citato, né l’articolo riepilogativo sul seminario apparso sul numero di Azione Nonviolenta, anche questo già citato.
Mi limiterò ad alcune citazioni di questo ultimo articolo che mettono in luce aspetti non sufficientemente chiariti nell’esposizione delle ipotesi di partenza .
Il primo gruppo aveva l’incarico di approfondire le ipotesi sul rapporto tra morale e politica e tra individuo e società. Si scrive nella relazione citata: “Gramsci, in particolare nei Quaderni dal Carcere, appare come sostenitore di una profonda integrazione fra morale e politica: ‘ L’etica di un gruppo deve essere concepita come capace di diventare norma di condotta per tutta l’umanità’ (Quaderni, 6, VIII). Strettamente correlato a questo è il rapporto tra individuo e collettività, secondo l’autore ‘ la collettività deve essere intesa come prodotto di un’elaborazione di volontà e pensiero collettivo, raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto e non per un processo fatale estraneo ai singoli (Quaderni, 6, VIII)23. Commenta la relazione: “E’ qui ben chiara l’importanza che l’individuo e le sue scelte (come quella di partecipare attivamente agli accadimenti del proprio tempo e di associarsi per farlo con più efficacia) rivestono ai fini stessi del cambiamento sociale”24 .
Il secondo gruppo doveva approfondire l’ipotesi dei rapporti tra violenza e nonviolenza . Si scrive nell’articolo citato: “[Gramsci] si mostra estraneo ed avverso sia al riformismo che al massimalismo rivoluzionario, perché il primo è insufficiente rispetto agli sviluppi storici, mentre il secondo minimizza l’avversario e si crogiola nell’attesa di una rivoluzione messianica ed irreale”25 . E si scrive ancora nella relazione: “Un altro punto importante che avvicina l’intellettuale sardo alla non violenza è rappresentato all’attenzione per l’uso dei mezzi più appropriati durante la lotta sociale. Gramsci avverte che alle azioni illegali e violente di uno Stato è errato e perdente rispondere con gli identici mezzi, in quanto si restituirebbe allo Stato stesso la sua patente di ‘difensore della legalità’ che aveva appena persa. Ancora oggi i movimenti nonviolenti si sforzano di chiarire e far capire a tutti questo fondamentale punto ispiratore dell’azione diretta nonviolenta”26.
Il terzo gruppo doveva lavorare, oltre che sul concetto di “egemonia”, anche sulle ipotesi delle strategie di lotta. Si scrive nella relazione, su questo secondo argomento: “Gramsci paragona la lotta di classe ad una guerra di posizione, piuttosto che ad una guerra frontale o di movimento (come era stata la rivoluzione sovietica ). In quest’ottica assume rilevanza la costruzione di spazi e presidi della nuova società civile dentro la struttura della vecchia, che l’autore chiama ‘fortezze o casematte’, e il cui scopo è quello di diffondere una cultura di uguaglianza e giustizia capace di farsi strada all’interno dell’esistente, perché ‘la rivoluzione non è un atto taumaturgico, è un processo dialettico di sviluppo storico’ (Ordine Nuovo, 1919)”27.
In conclusione si scrive in questo articolo : “Dal lavoro collettivo di studio e di confronto sono quindi emersi non pochi spunti utili a confermare le nostre ipotesi di vicinanza ed affinità, almeno di una parte del pensiero dell’intellettuale sardo del Novecento con quello nonviolento. Questa provvisoria conclusione, pur suscettibile di maggiori approfondimenti e di nuove verifiche, mette in luce un Gramsci per molti versi sorprendentemente attuale, oltre che compatibile con i fondamenti della nonviolenza”28 .
5. E’ ancora attuale parlare di Gramsci e di socialismo?
Nel proseguo di questo saggio vorrei riprendere le tesi con cui avevo iniziato il mio primo studio sui rapporti tra Gramsci e la nonviolenza29: “Parlare attualmente di Gramsci e di socialismo sembra andare del tutto controcorrente, dato il crollo dei paesi cosiddetti socialisti, e quella che è stata definita “la fine della storia”30, e cioè la presunta vittoria del sistema capitalista a livello mondiale. Ma questo pone un problema importante al quale si può riallacciare il pensiero e la figura di Gramsci. E’ fallito il socialismo come modello di società, oppure sono fallite le due strade finora intraprese per raggiungerlo, e cioè, da una parte, la rivoluzione armata, violenta, utilizzata in Russia da Lenin, ed il riformismo, utilizzato invece nei paesi occidentali? L’ipotesi che sia vera questa seconda ipotesi, e che sia ancora aperta e da sperimentare la strada della rivoluzione nonviolenta dal basso, è stata sostenuta, con molte valide argomentazioni, da Giuliano Pontara31, un obbiettore di coscienza italiano al servizio militare che ha preferito l’esilio in Svezia (dove è diventato esimio docente di filosofia morale) al carcere, allora previsto, in Italia, per coloro che rifiutavano di esercitarsi a fare la guerra.
Pontara è uno dei più profondi studiosi italiani del pensiero gandhiano, ed autore di molti importanti libri su tematiche nonviolente. La tesi di Pontara,presentata ad uno dei due dibattiti organizzati dal Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini, su “Marxismo e Nonviolenza nella transizione al socialismo” (cui hanno partecipato importanti politici e studiosi del nostro paese) era quella che tra il voto ed il fucile ci fosse una terza via al socialismo, rivoluzionaria nonviolenta (che lui definisce di “nonviolenza specifica”) che avrebbe potuto, e potrebbe forse ancora, portare il nostro paese ad un socialismo dal volto umano.
Secondo Pontara, infatti, la via rivoluzionaria armata era contro-produttiva perché tendeva a deumanizzare ed a brutalizzare i valori del socialismo, ed ad insediare nei posti dirigenziali persone e gruppi autoritari che avrebbero mantenuto il potere attraverso la soppressione delle informazioni, la segretezza, l’irregimentazione, l’eliminazione totale dell’autogestione del popolo; la via riformista, quella del voto, era per lui insufficiente perché costringeva la classe operaia ad annacquare notevolmente il programma socialista per allearsi con il ceto medio necessario a vincere le elezioni. Il ceto medio, a sua volta, avrebbe potuto poi allearsi con le forze di destra per bloccare e distruggere quanto già fatto, senza che la classe operaia fosse preparata ad una resistenza nonviolenta di fronte a questa restaurazione. Per Pontara perciò la via più valida era quella della rivoluzione nonviolenta, mai purtroppo ancora realizzata, perché questa tende ad inibire nell’avversario quei processi sociali e psicologici che lo portano a de-umanizzare il nemico, e tende a ridurre il processo di scalata della violenza.
Ma, secondo Pontara, la scelta di questa via richiede l’accettazione di cinque principi: 1) non causare la morte o gravi sofferenze all’avversario; 2) assumere su di sé i sacrifici necessari a portare avanti la propria causa; 3) mantenere, in tutte le fasi, la massima obbiettività ed imparzialità, il massimo controllo da parte dei partecipanti, e la non clandestinità; 4) allargare la partecipazione anche grazie ad un programma costruttivo che ricerchi obbiettivi sovra-ordinati che richiedono, per il loro raggiungimento, la collaborazione delle parti in conflitto; 5) graduare i mezzi di lotta: arrivare alla scelta di quelli più radicali (come la disobbedienza civile o il boicottaggio) solo quando quelli più blandi si sono dimostrati chiaramente insufficienti.
Norberto Bobbio, che è stato uno degli interlocutori privilegiati di questi dibattiti, ha sostenuto la validità e l’importanza di queste tesi ed ha scritto: “La ‘complementarietà’ della nonviolenza rispetto al marxismo è stata la tesi che ha finito per emergere e che merita di essere considerata come il punto di partenza di ulteriori discussioni”32. Ed infatti da quei primi dibattiti ne sono nati vari altri sulla “terza via al socialismo” che però, più che discutere sulla via di trasformazione, e sul collegamento ed i rapporti tra la via utilizzata per la trasformazione ed il modello di società realizzato, come nei nostri convegni, hanno parlato solo del modello riformista, come realizzato in certi paesi europei come l’Inghilterra e l’Italia, considerandolo come una terza via (in realtà come terzo modello) al socialismo tra il capitalismo ed il comunismo sovietico.
In un articolo sulla Stampa di Torino Norberto Bobbio si è lamentato che questi dibattiti, successivi al nostro (e cioè quelli sul marxismo e lo stato, sul leninismo, sulla terza via al socialismo), dibattiti che qualcuno ha definito “litigio a sinistra”, non abbiano tenuto in alcun conto quelli precedenti del Movimento Nonviolento e che, perciò, per questa mancanza, siano stati molto più poveri di quello che avrebbero potuto essere altrimenti. Infatti, rispetto alla cosiddetta alternativa del modello riformista, ed al suo considerarsi come una terza via, il Movimento Nonviolento ha scritto, nella introduzione degli atti del primo dei convegni su citati: “Il problema dell’uso della violenza o della nonviolenza nella transizione al socialismo è stato sottovalutato dalla sinistra che ha ritenuto, a torto, il problema dei metodi come secondario rispetto a quello della conquista del potere…
L’esperienza storica ha dimostrato “ad abundantiam” come le modalità con cui si arriva al potere sono una variabile fondamentale anche del come tale potere viene mantenuto e gestito e che perciò un “socialismo dal volto umano” necessita di un modo di arrivare al potere diverso dalla rivoluzione armata, ma forse diverso anche dal semplice uso dell’arma elettorale…Resta perciò aperto il problema di una via originale di transizione al socialismo che non si identifichi né con la tradizionale via riformistica dei paesi a capitalismo avanzato (che spesso si è limitata a razionalizzare il sistema senza trasformarlo profondamente) né con quello della rivoluzione armata portato avanti nei paesi del terzo mondo (che spesso danno vita a regimi dittatoriali e totalitari e non a quella nuova forma di società intravista da Marx, Lukačs, Gramsci e altri autorevoli marxisti)”33.
Da questo punto di vista la figura ed il pensiero di Gramsci è fondamentale per sviluppare questo tema dato che le sue idee possono dare attualità al progetto di una rivoluzione nonviolenta nel nostro paese, che deve essere ancora fatta, con la speranza di dar vita ad un socialismo dal volto umano, autogestito, e anti-autoritario, come quello che si era tentato di realizzare, ai tempi della primavera di Praga, da parte di Dubček e di altri socialisti democratici34, ma che è stato ucciso ai suoi albori dai carri armati sovietici, non senza una bellissima resistenza nonviolenta durata circa otto mesi che ha portato molti militari russi a solidarizzare con i resistenti locali, ed ha convinto il governo russo a cambiare rapidamente i loro militari che occupavano quel territorio per paura che diventassero pericolosi, una volta tornati in Russia, per il mantenimento dello stesso regime35 “.
6. Un saggio, in inglese, sulla violenza e nonviolenza nel pensiero di Gramsci
Ma prima di concludere questa riflessione devo dar atto di un notevole contributo su questo stesso tema, di un marxista jugoslavo, Dan Jakopovic, apparso nel 2008, ma che ho reperito solo recentemente. L’articolo è apparso nel numero del novembre 2008 dell’International ViewPoint – News and analysis from the Fourth International, un giornale online, nella sezione di dibattito sulla strategia rivoluzionaria marxista. L’autore, al momento dell’uscita del suo articolo, era il direttore di Novi Plamen, una rivista di sinistra della Ex Jugoslavia. In precedenza, nel 2007- 2008, era stato membro del Comitato Nazionale del Partito Socialista degli USA, in particolare come presidente della Commissione Lavoro.
Il titolo del suo articolo è “La rivoluzione ed il Partito nel pensiero di Gramsci. Una applicazione moderna”. Qui mi limiterò ad analizzare la parte dell’articolo che riguarda soprattutto il rapporto tra violenza e nonviolenza nella teoria Gramsciana di “trasformazione sociale rivoluzionaria”. Nell’introdurre le sue tesi scrive l’autore: ”Cercherò anche di identificare elementi di una possibile costruzione della pace impliciti nel pensiero di Gramsci, il rapporto dialettico tra la guerra di posizione e la guerra di movimento, l’egemonia ideologica e materiale, in particolare riguardo ai problemi di consenso e coercizione, al potere materiale e la forza nel cambiamento sociale come un elemento possibilmente contraddittorio rispetto ad una strategia di trasformazione delle coscienze e di una nonviolenza rivoluzionaria che tenda a stabilire un ordine sociale consensuale, veramente democratico e civilizzato”36.
E, parlando poi della filosofia della prassi, scrive l’autore: “Il lavoro di Gramsci è un tentativo inusualmente anticipatorio di sviluppare un Marxismo politicamente strategico, liberato dalla fatalistica fiducia su leggi storiche ‘immutabili’ che non dipendono dall’iniziativa dell’essere umano. Gramsci ha posto l’iniziativa umana al centro del processo rivoluzionario, determinato a restaurare e reintegrare gli elementi, a lungo dimenticati, della totalità e della dimensione soggettiva-creativa della politica socialista, particolarmente degradata durante il Marxismo ufficiale, dogmatico, della Seconda Internazionale. Nel suo pensiero il quietismo politico, la depoliticizzazione e la passività della Seconda Internazionale erano anche, in parte, conseguenza della sua interpretazione positivistica, “oggettivistica”, da materialismo volgare, del cambiamento sociale sistemico. ….una epistemologia… disperatamente non dialettica nel suo non sofisticato determinismo, nemico della costruzione di una valida strategia rivoluzionaria, dal momento che la vita manifesta “una complessa interrelazione di forze soggettive ed oggettive”37. E continua l’autore, sviluppando questo aspetto: ”Gramsci ha cercato di raggiungere una unità dialettica, reciproca, di teoria e pratica, pensiero ed azione, soggetto ed oggetto. Egli aspirava a costruire una teoria “aperta”, non ortodossa, che potesse essere compresa dalle masse, che fosse capace di stimolare e risvegliare le sue potenzialità creative. Le formule fisse, non riflessive, non servono a nulla. Le contraddizioni del Capitalismo non “esplodono” da sole ma devono essere ricercate e colte al volo attraverso sforzi coscienti” (ibid. p. 1).
Ma arrivando a trattare il tema specifico della “dialettica tra consenso e coercizione” che è quello che ci riguarda più vicino in quanto approfondisce il rapporto tra violenza e nonviolenza nei processi rivoluzionari, scrive Jakopovich: “La rivoluzione è una cosa grande e terribile, e non un gioco da dilettanti o una avventura romantica 38.
L’ideologia e la società civile possono essere il metodo dominante nelle società sviluppate capitalistiche, ma la coercizione rimane, alla fine, quello determinante. Diversamente da certi “libertari” moderni, Gramsci sarebbe stato d’accordo con la tesi di Mao che la “rivoluzione non è una festa per prendere un té” perché lo stato capitalista è “uno stato integrale”.”una società politica più una società civile, in altre parole, una egemonia protetta da una corazza coercitiva”39. Ma l’autore, dopo questa citazione, sostiene che troppo raramente ci si è posti il problema di come si deve affrontare attualmente quell’elemento coercitivo.
Ma da questa citazione sembrerebbe che la scelta nonviolenta, per l’autore in questione, sia esclusa, o almeno marginalizzata, come elemento fondante della strategia rivoluzionaria gramsciana. In realtà scrive l’autore, in una nota (la 49): “Malgrado Gramsci quasi sicuramente non ha espresso interesse nella nonviolenza come tale, la “elasticità” o la natura aperta della sua teoria offre molte strade, diverse e possibilmente creative, di sviluppo teorico e pratico” (p.11 del testo). In particolare egli trova importante, da questo punto di vista, la ricerca gramsciana della “trasformazione delle coscienze”. Scrive infatti l’autore , iniziando con una citazione gramsciana: “Non si dovrebbero scimmiottare i metodi delle classi dominanti, o si cadrebbe in una facile imboscata “40.
E continua l’autore: “La strategia della ‘trasformazione delle coscienze’ è un aspetto cruciale di un cambiamento profondo e sostenibile. Gramsci era particolarmente appassionato a ricostruire il fattore consensuale in politica, ed è qui che si potrebbe sviluppare uno dei contributi di Gramsci alla teoria della nonviolenza. Mai prima il bisogno di una egemonia politica e di appoggio da parte delle masse è stato così grande e più indispensabile, tenendo in considerazione non solo i metodi sofisticati del controllo ideologico capitalista , ma anche il potere, mai così, in precedenza, distruttivo, ed omicida, dello stato capitalista e dei suoi eserciti privati. L’approccio militarista grossolano, come pure le concettualizzazioni semplicistiche Gandhiane, mancano nel tenere in considerazione pienamente questi pericoli, o le alternative possibili…. Fissarsi mentalmente sul modello militare è il marchio dello stolto: la politica, anche qui, deve avere la priorità rispetto agli aspetti militari“ 41. Inoltre l’autore sostiene che nella costruzione di una contro-egemonia socialista certe visioni di una nonviolenza radicale potrebbero essere utili per arrivare ad una moralità più elevata, come citato in un testo del Talmud : “Se il tuo nemico è affamato, dagli da mangiare.. facendo così accumulerai carbone da fuoco sulla sua testa, e cioè, detto in altre parole, accenderai il fuoco dell’amore in lui”42
E cioè, secondo l’autore, invece dell’approccio superficiale che si basa su misure amministrative, punitive e di polizia per inventare e proteggere il nuovo ordine, il movimento ed il nuovo ordine devono essere costruiti su una popolarità ed un consenso allargati, il che è impossibile “senza la capacità di perdonare e di raggiungere i migliori istinti dell’umanità, come pure la abilità nel fare compromessi , e la volontà di tenere in considerazione gli interessi di altre forze sociali e di combinarle con gli interessi della classe operaia” (testo citato, p. 8).
E scrive ancora l’autore: “Una avanguardia rivoluzionaria che si prende il compito di costruire seriamente una contro-egemonia consensuale deve portare avanti le sue attività (nei movimenti sociali e della società civile, come pure all’interno della sfera dell’amministrazione pubblica) nello spirito di un umanesimo genuino, di una cameraderia democratica, di inclusività e di anti-settarismo… ed il rifiuto di ogni genere di ‘corporativismo della classe operaia’ …. Un nuovo ordine pluralista che si basi su una alleanza tollerante (ma sufficientemente coerente, diretta) di forze sociali progressiste dovrebbe essere in grado di ridurre i pericoli di una controrivoluzione violenta “( ibid. p. 8).
Ma prima di approfondire ulteriormente, con Jakopovich, le sue ulteriori riflessioni su quella che noi del Movimento Nonviolento abbiamo definito la terza via al socialismo, quella della rivoluzione nonviolenta tra quella armata, da un lato, ed il riformismo e la via parlamentare, dall’altra, argomento sui cui abbiamo organizzato ben due convegni cui hanno partecipato alcuni tra i migliori intellettuali del nostro paese43, vorrei, con questo autore, analizzare le sue tesi sulla via parlamentare al socialismo che il Partito Comunista Italiano, quando questo esisteva ed ha deciso di prendere questa strada, ha definito come “scelta nonviolenta”, in contrasto con le tesi di Capitini ed anche del Movimento Nonviolento, che sostenevano la necessità, e cercavano di attuare invece, una “rivoluzione nonviolenta”.
7. La via parlamentare al socialismo
Jakopovich inizia a parlare di questo argomento citando un marxista americano che, secondolui, aveva influenzato anche Gramsci, e cioè Daniel De Leon. Questi: “sperava che una maggioranza parlamentare della classe operaia avrebbe potuto permettere una rivoluzione relativamente “pacifica” (e cioè senza spargimento di sangue), con la classe operaia che esercitasse il suo potere extra-parlamentare in appoggio alla vittoria parlamentare”. Engels considerava le elezioni come un “utile (sebbene imperfetto) barometro delle forze” (ibid. p. 8). “Gramsci – scrive Jakopovich – diversamente dal suo rivale politico all’interno del PCI Bordiga, rifiutava l’astensionismo, considerando la politica elettorale come una necessità tattica e strategica.
Il Parlamento era un elemento critico nel quale portare avanti la lotta per l’egemonia e per la legittimazione delle masse. Ma il partito deve resistere a qualsiasi pericolo di venire incorporato nello status-quo, dall’alto verso il basso, in un accomodamento riformista al sistema dominante (una “rivoluzione passiva” nel vocabolario gramsciano)….. Gramsci si è opposto rigidamente – scrive sempre Jakopovich – a qualsiasi concezione del partito che l’avrebbe ridotto ad una società puramente elettorale, e paragonava i parlamentari opportunisti e collaborazionisti di classe, ad ‘uno sciame di mosche cocchiere che rovistano all’interno di un vaso pieno di roba bianca da mangiare nel quale restano intrappolate e periscono ingloriosamente’ 44”.
”La concezione di democrazia di Gramsci – scrive sempre l’autore – non è assimilabile al quadro quasi ‘democratico’ delle istituzioni della società capitalista. Sfortunatamente la sua critica alla politica parlamentare ed elettorale del Partito Socialista Italiano e del sindacalismo burocratico è rimasta perfettamente applicabile anche alla critica dello staliniano Partito Comunista Italiano, dopo la seconda guerra mondiale” (ibid, p. 8).
Ma l’autore cita anche Marx e Lenin che riconoscono l’importanza delle “rivoluzioni pacifiche” in vari paesi del mondo, e quest’ultimo considera la prospettiva di una transizione pacifica al socialismo “come una potente – probabilmente indispensabile – arma propagandistica”. Ma riporta anche una frase di Lenin, sulla quale lavorerà nella parte conclusiva del suo saggio:
”anche ribellioni anticapitaliste relativamente nonviolente e radicali sono state finora, normalmente, seguite da controrivoluzioni violente”45. Ed in precedenza, nel suo articolo, aveva fatto anche un’altro riferimento alle posizioni sia di Gramsci che di Lenin che sembra opportuno analizzare, prima di passare alla conclusione sulle ulteriori considerazioni di questo autore sulle possibilità di una “rivoluzione nonviolenta”.
Jakopovich, riprendendo il tema gramsciano della “guerra di posizione “o “guerra di assedio”, che lui considera far parte di una teoria gramsciana sui diversi stadii della rivoluzione, vede questa come una prima fase della conquista finale del potere. L’autore descrive così questa tesi: “Lo sviluppo di reti di contropoteri di base all’interno della società civile è un aspetto cruciale della ‘guerra di posizione’ che deve precedere la conquista diretta del potere politico della società.
Sia gli aspetti ‘organici’ che quelli ‘congiunturali’ della vita politica hanno un loro spazio all’interno della totalità dialettica. La posizione e le manovre sono complementari. Non dovremmo ridurre la forza vitale della storia, turbolenta e capricciosa, ad una accumulazione di forze di tipo perfettamente lineare , e prevedibile, finché non si raggiunga l’egemonia. Molte insurrezioni, incluse, ad esempio, almeno in parte, le rivoluzioni spagnole e quella portoghese del 1974-75, mettono in luce l’errore della mancanza di decisione nell’estendere e prendere il potere in momenti critici del conflitto, lasciando così ai contro-rivoluzionari il tempo e l’energia sufficiente per consolidare le loro forze ed organizzare una contro-offensiva. C’è un pericolo considerevole di riluttanza e demoralizzazione in uno scenario di questo tipo, specialmente se si assomma alla rinunzia della strategia di una ‘rivoluzione permanente’ ”. (ibid. p. 7).
E passando a Lenin, l’autore sostiene: “Lenin ha posto una ipotesi che appare logica, che il punto di svolta in cui l’accumulazione di forze dovrebbe aprire la strada alla presa diretta del potere statuale costituisce il momento in cui l’attività organizzativa dell’avanguardia popolare è al suo livello più elevato, mentre la classe dominante è divisa al suo massimo, ed i suoi possibili sostenitori sono molto deboli ed estremamente indecisi46 . Inoltre una tattica di “attacco improvviso” potrebbe dimostrarsi molto più efficace quando le forze della rivoluzione accumulate sono messe in azione nello loro interezza”(ibid. p. 7).
Abbiamo visto, nell’analisi di Jakopovich, i rapporti tra la guerra di posizione e la conquista del potere, l’importanza di non essere indecisi al momento della presa di potere (aspetto su cui torneremo al momento della riflessione sulla possibile applicazione di queste idee nella situazione del nostro paese), ed infine anche la forte preoccupazione di una controrivoluzione violenta anche di fronte al una lotta vincente eminentemente pacifica e nonviolenta.
8. Come difendersi dalle contro-rivoluzioni violente?
E’ su questo ultimo aspetto che questo autore chiude la sua riflessione sulla nonviolenza nel processo rivoluzionario. Egli parte, infatti, dalle rivoluzioni portoghesi e venezuelane (ambedue caratterizzate da movimenti di giovani ufficiali e di soldati, anche se non agli stessi livelli) che mostrano l’importanza del “far scoppiare le divisioni del militarismo dal suo interno”47.
Per questo egli sostiene che ogni tentativo di portare avanti delle rivoluzioni relativamente pacifiche (senza spargimento di sangue) senza un lavoro serio e continuato all’interno delle forze armate, è una pura fantasia. Scrive Jakopovich: “Lo sviluppo ed il mantenimento di buoni rapporti con le forze militari (che dovrebbero essere chiaramente distinte dalle politiche che spesso le spingono verso conflitti sanguinosi) è una delle assolute priorità di un lavoro preparatorio per la rivoluzione. Attraverso metodi di fraternizzazione ed una attività nascosta di aiuto ad organizzarsi, le forze armate dovrebbero essere sostenute come persone che sono ultra-sfruttate a beneficio delle élites, e dovrebbero essere trasformate nei nostri più forti alleati – l’alternativa più probabile è quella che diventino i nostri più terribili avversari.
La rivoluzione ha bisogno dell’appoggio delle forze armate precisamente per minimizzare la violenza, sabotare e paralizzare il sistema militarista dal suo interno. L’approccio “pacifico ma armato” recentemente reso popolare (ma in modo imperfetto) da Chavez in Venezuela resta probabilmente il più realistico e produttivo. Sembra sensato per evitare di alienare eccessivamente gli oppositori, e di impegnarsi con le potenzialità, di solito sottostimate, della non collaborazione e di un intervento relativamente nonviolento” (ibid. p. 9).
E conclude questa argomentazione con questa frase : “Non c’è mai stato più bisogno di una nuova sintesi dialettica al posto della vecchia dicotomia ‘violenza-nonviolenza’, per la quale potrebbe essere utile un raffinato concetto di “nonviolenza rivoluzionaria armata” (ibid. p. 9).
Ma Jakopovich conclude l’articolo con una lunga citazione di una nota nonviolenta statunitense, Barbara Deming. Questa richiede, per darci un buon livello di controllo di quanto avviene intorno a noi, di porre in atto due diverse pressioni, quella della nostra sfida verso il nostro antagonista, in particolare verso le sue violazioni dei nostri diritti umani, con la pressione dell’amore e del rispetto per la sua vita, e per i suoi stessi diritti umani. Secondo la Deming la combinazione di queste due pressioni è particolarmente importante: “l’azione più efficace ricorre al potere ed impegna la coscienza”48.
9. Le mie risposte alle tesi di questo marxista jugoslavo
Dopo aver cercato, nel modo più esauriente possibile, di dar atto delle tesi di questo marxista sul rapporto tra Gramsci e la rivoluzione (violenta e/o nonviolenta)49, per concludere queste mie riflessioni mi restano due gravosi compiti:
(1) chiarire, nel più breve spazio possibile, la concezione di rivoluzione nonviolenta di Capitini, di altri nonviolenti, e dei seguaci di Capitini50, in rapporto anche a quella che viene definita la “via parlamentare al socialismo”, e confrontarla con le tesi di questo autore per vedere somiglianze e differenze e trarne, se possibile, un corpus comune da applicare nella situazione italiana attuale; (2) Fare questa applicazione per vedere quale strada resta, se ancora aperta, per andare verso una società più giusta, più umana, più solidale, non subordinata al Capitale ed alle leggi del Mercato (visto, questo, realmente, come il “Nuovo Principe”).
Scrive Capitini, a proposito della necessità di una “rivoluzione nonviolenta”: “A noi pare che ci siano due posizioni sbagliate, a) quella di coloro che dicono di volere la pace, ma lasciano effettivamente la società attuale come è, con i privilegi, i pregiudizi, lo sfruttamento, l’intolleranza, il potere in mano a gruppi di pochi; b) quella di coloro che vogliono trasformare la società usando la violenza di minoranze dittatoriali e anche la guerra, che può diventare atomica e distruttiva per tutti.
Per noi il rifiuto della guerra e della sua preparazione militare, industriale, psicologica, è una componente fondamentale del lavoro per la trasformazione generale della società. Perciò lavoriamo in queste due direzioni: 1) spingere a costituire dappertutto forme di controllo dal basso; 2) orientare ed alimentare questo controllo con idee e iniziative contrarie al capitalismo, al colonialismo, all’imperialismo (potere di tutti)”51. E come già accennato per portare avanti questo lavoro dal basso, egli aveva organizzato i COS (Centri di Orientamento Sociale) sia a Perugia, la sua città natale e nella quale ha vissuto la maggior parte della sua vita, sia in molte città del nostro paese, dove si era creato l’interesse a farlo. Ma come chiarisce molto bene Norberto Bobbio nella sua introduzione a questo libro, Capitini non vedeva queste forme di partecipazione dal basso (per lo sviluppo delle quali, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, aveva anche fondato un giornale : “Il Potere è di tutti”) come una alternativa al Parlamento ed ai poteri costituiti a livello locale, ma come una “aggiunta”a questi: “E’ vero – , scrive in un altro testo Capitini – ci sono i partiti, i sindacati, le amministrazioni comunali e provinciali, il governo con i suoi ministeri; ma questo non basta, è necessario aggiungere il controllo di tutti dal basso, per criticare, approvare, stimolare, per dare elementi che quelli dall’alto non conoscono e fare proposte a cui essi non hanno pensato”52.
Ed approfondisce questo concetto di “rivoluzione nonviolenta” anche Danilo Dolci, che di Capitini si dichiara allievo: “I prepotenti, quando non possono sopraffare gli altri prepotenti per sostituirsi a questi, cercano di accordarsi tra di loro, naturalmente a danno dei deboli: non è questa la pace, anche quando non spara la lupara o il cannone….Occorre l’impegno continuativo, strategico, per la costruzione del mondo nuovo e la demolizione del superato, attenti a muovere le proprie forze in modo da suscitarne ovunque nuove: occorre una rivoluzione nonviolenta impegnata ad eliminare lo sfruttamento, l’assassinio, l’investimento di energie in strumenti di assassinio, e promuovere reazioni a catena di nuova costruzione”53. Ma un ulteriore contributo di cui parlerò qui, per chiarire questo concetto, è la distinzione fatta da un noto marxista francese che ha sviluppato molto anche gli aspetti della necessità, per la costruzione di un mondo migliore, di difendere il nostro ambiente dagli attacchi del capitalismo industriale, André Gorz54.
Questi distingue tra riforme dal basso e quelle dall’alto: Le prime sono quelle fatte con una grande organizzazione e partecipazione di base, le seconde invece con accordi di vertici, anche, per esempio, dei delegati al Parlamento.
Secondo Gorz le prime riforme sono molto più solide perché l’organizzazione di base può sempre tornare in vita per difenderle, mentre le seconde sono molto più labili perché una diversa maggioranza parlamentare può decidere di eliminarle, come succede spesso per riforme che vadano contro gli interessi dei grandi potentati e delle multinazionali.
Tirando le somme su quanto detto prima, quando abbiamo parlato di Pontara e di Ganduscio, e quanto detto in questo paragrafo su Capitini, Dolci e Gorz, la rivoluzione nonviolenta, per i convinti di questa strada al socialismo, non è una semplice ribellione, un atto subitaneo di rottura degli equilibri democratici di paese, ma un lavoro lungo (Capitini parla anche di “rivoluzione permanente” dato che non si illude che si possa raggiungere in un battere d’occhio ed in un solo colpo, ma attraverso vittorie, sconfitte ed altre vittorie ) di organizzazione della base, di educazione e formazione permanente di questa, avendo ben chiaro, e costruendo con questa55, il tipo di società che si vuole mettere al posto di quella attuale (il progetto costruttivo), ed avendo anche chiarita la strategia con la quale raggiungere questo obbiettivo, cercando di modificare, democraticamente, in questo senso anche gli equilibri attuali dello stesso Parlamento.
Un contributo importante a definire meglio la ”rivoluzione nonviolenta” ci viene anche da uno dei più stretti collaboratori di Gandhi, ed uno dei suoi successori alla guida del movimento nonviolento indiano, e cioè Jayprakash Narayan , detto familiarmente JP.
Questi, che proveniva dal Partito Socialista Indiano -contrariamente all’altro grande leader della successione di Gandhi, e cioè Vinoba, che non riteneva opportuno partecipare alle elezioni, e credeva importante lavorare solo alla base56– sosteneva l’importanza di una partecipazione attiva anche alla sfida elettorale ed è riuscito a sconfiggere lo strapotere di Indira Gandhi57 battendo, con una coalizione di partiti, quello del Congresso guidato da Indira. Essendo, però stato messo in prigione da lei con accuse del tutto infondate, dalla quale uscirà molto ammalato, e solo qualche mese prima di morire (tutto molto in analogia con l’imprigionamento di Gramsci da parte del Partito Fascista e del Governo Mussolini ) non poté andare a guidare il governo, come sarebbe stato suo diritto e gli fu proposto58, e l’alternativa ad Indira durò non molto tempo.
Ma il contributo fondamentale di J.P. alla definizione di “rivoluzione nonviolenta” è quella di “una rivoluzione totale”, che implicasse cioè un cambiamento non solo di tutte le strutture sociali (dal punto di vista economico, sociale e politico) ma anche dell’uomo stesso che, in analogia con l’impostazione gramsciana, doveva diventare attivo e non passivo, un attore protagonista della storia e non un supino ricettore di mutamenti che giungono dall’esterno. Ma tornando a quanto detto prima dell’importanza, oltre che di una forte e cosciente organizzazione di base, anche della modifica degli equilibri parlamentari, ho sempre in mente le frasi di quello che considero un altro mio grande maestro, Lelio Basso59, dette qualche tempo prima di morire, ad un incontro di studio a Firenze. Dato che non mi risulta che siano mai stati pubblicati gli atti cito a memoria, anche se sono passati molti anni da allora : “La nostra sinistra non fa politica, per fare politica bisogna avere una strategia a lungo raggio, ed altre mete a medio e breve raggio, mentre la nostra sinistra cerca solo trovare alleanze a breve termine che gli permettano di andare al potere, anche se non sa, poi, dove questo potere dovrebbe e potrebbe portarlo”. E’ una accusa fortissima di mancanza di quello che abbiamo definito il “progetto costruttivo” che rende la nostra sinistra, se questa esiste realmente, più una passiva ricettrice di quanto fatto all’esterno, e dei mutamenti sociali in atto, che una attiva costruttrice di un futuro diverso, basato sui valori socialisti della solidarietà, della giustizia, della partecipazione di base, dei beni comuni. Credo che questa accusa sia molto veritiera, e che sia importante tenerne conto quando affronteremo il secondo argomento, quello degli insegnamenti da applicare nella nostra realtà .
Resta invece da vedere, per il primo punto, le coincidenze o le differenze, tra la impostazione dei nonviolenti, prima delineata, e quella di questo marxista jugoslavo, nella interpretazione della via gramsciana al socialismo. Se si va a vedere bene le critiche alla cosiddetta democrazia borghese, e dei limiti di un riformismo debole ed interclassista, e sull’importanza di contropoteri di base che affianchino e integrino, ma non sostituiscano, gli equilibri parlamentari, sono abbastanza simili. In particolare le frasi del marxista statunitense De Leon, dall’autore citato come un antesignano di Gramsci, sembrano del tutto corrispondenti, ed in linea anche con le proposte di Gorz di un riformismo non chiuso in accordi di vertice, ma saldamente fondato su una forte organizzazione (i contropoteri di base) che controllino, dal basso, chiunque sia al potere (il potere di tutti capitiniano).
Rivediamo le proposte di De Leon : “sperava che una maggioranza parlamentare della classe operaia avrebbe potuto permettere una rivoluzione relativamente “pacifica” (e cioè senza spargimento di sangue), con la classe operaia che esercitasse il suo potere extra-parlamentare in appoggio alla vittoria parlamentare“. Una differenza semmai è nel ruolo da dare alla nonviolenza nel processo rivoluzionario. Secondo Jacopovich, anche se parla della necessità delle due forze, o forme di pressione, il “potere” e l’“impegno della coscienza”, in realtà, per lui la nonviolenza, più che una forza rivoluzionaria, sembra essere una specie di aggiunta, quasi strumentale, per umanizzare la lotta e per “ridurre i pericoli di una contro-rivoluzione violenta”(ibid. p. 8).
Inoltre mentre Jakopovich cita la famosa frase di Gramsci della differenza tra i paesi orientali, dove il potere era tutto, e la strategia valida era quella della conquista repentina del potere, tipo quella fatta da Lenin, ed la situazione invece del mondo occidentale, nel quale il potere è diffuso, ed è necessaria una strategia diversa, meno diretta e più pervasiva, non cita invece la frase, che noi abbiamo definita del “progetto costruttivo”, e cioè della coesistenza del processo di distruzione e costruzione60.
Mi sembra molto strano perché è questa la frase che avvicina di più, su tutte, l’impostazione gramsciana alla lotta ed alla strategia nonviolenta, di cui pure l’autore ha deciso di occuparsi. E questa carenza si nota anche nell’interpretazione della guerra di posizione, distinta da quella di manovra o di movimento, che io, e noi, compreso il gruppo sardo che ha lavorato con me su questi temi, abbiamo interpretato come sostitutiva, per il mondo occidentale, della strategia leninista, mentre Jakopovich la interpreta solo come una prima fase che deve poi essere tramutata in una presa, quasi necessariamente violenta, del potere. Nell’impossibilità, in questo momento, ed in questa fase – nei limiti di questo saggio- di approfondire ulteriormente questa alternativa, tra la nostra interpretazione della guerra di posizione come sostituiva, nei paesi occidentali, di una guerra di conquista, e perciò come integrativa e non sostitutiva, della via parlamentare al socialismo, e quella di questo studioso che la vede invece come prima fase di una conquista del potere di tipo leninista, considereremo la nostra ipotesi come quella, sia pur provvisoriamente, valida, sulla base della quale faremo le nostre considerazioni nel paragrafo successivo.
Ma l’elemento che sembra, almeno a prima vista, distanziare maggiormente le tesi di questo autore, nelle sue interpretazioni del pensiero di Gramsci, da quelle da noi sostenute nei due dibattiti su Gramsci e la nonviolenza, citati in precedenza , è quella del concetto da lui elaborato della “nonviolenza rivoluzionaria armata”, e cioè della necessità, indicata da Lenin e confermata da Gramsci, di essere preparati a resistere ad una contro-rivoluzione armata che cerchi di vanificare, e svuotare, la vittoria elettorale della sinistra in genere, e del Partito Comunista in particolare. (ibid. 9).
Che questo pericolo non sia irrealistico anche per il nostro paese, e purtroppo anche attuale, lo dimostra l’organizzazione nel nostro paese, nel nostro dopoguerra, per conto della C.I.A. (l’Agenzia Centrale statunitense per gli Affari Internazionali) dell’esercito ombra della Gladio, nato per resistere, militarmente, ad una eventuale vittoria elettorale della sinistra, e direi anche, molto recentemente, il vero e proprio golp61 fatto dal nostro Presidente della Repubblica, Napolitano, in alleanza con l’organo supremo delle Forze Armate, contro l’approvazione, quasi all’unanimità, da parte della Camera dei Deputati, della mozione di soprassedere all’acquisto dei famigerati F35 fino ad una discussione approfondita, in Parlamento, dell’opportunità o meno di confermarne l’acquisto62.
Torneremo, nel paragrafo successivo , a riprendere questo tema, intanto vorrei vedere fino a che punto la tesi di questo studioso del concetto di “ nonviolenza rivoluzionaria armata”, sia valida per lo meno per Gramsci, nel periodo in cui lui ha vissuto.
E non c’è dubbio che Gramsci ritenesse la guerra e le armi necessarie come strumenti di difesa, ma c’è invece qualche dubbio, tranne in situazioni particolari come nella lotta contro il Fascismo, sulla sua accettazione di questi strumenti per l’offesa. Nella mia relazione di Ghilarza del 1992, in risposta alla tesi di Caprioglio che Gramsci accettasse il concetto di ‘violenza come levatrice della storia’, dopo aver riportato molte citazioni di Gramsci su questo argomento, scrivo:
“Anche dalle citazioni riportate prima, emerge non tanto una accettazione della guerra come strumento di cambiamento sociale, o di politica internazionale, ma piuttosto l’idea che questa è resa indispensabile dal fatto di lasciare ‘le masse in stato di ignoranza’ e dal non aver fatto nulla per eliminare lo stato di ferocia nella quale sono state lasciate. E’ proprio per superare queste due condizioni che Gramsci dà tanta importanza all’educazione ed alla formazione delle masse ed ad una strategia rivoluzionaria dal basso. Sembra cioè che in Gramsci ci sia una grande sofferenza dinanzi alla violenza, e che la veda non come un desiderio del popolo ma piuttosto come dovuta allo stesso capitalismo ed all’incapacità dei gruppi dirigenti di comprendere le vere necessità delle masse. Quindi, per Gramsci la violenza è in un certo senso obbligata, causata da altri, non prescelta dalle masse stesse”63.
Ma tornando alla definizione di Jakopovich di “nonviolenza rivoluzionaria armata”, come strumento per evitare e difendersi da eventuali, e quasi sicure, controrivoluzioni armate da parte del sistema dominante, mi vengono in mente due citazioni che rendono questa tesi accettabile, e direi anche accettata, in certe determinate situazioni, non solo per il evitare il rischio di controrivoluzioni armate ma anche in situazioni di conflitti altamente squilibrati, da alcuni dei più importanti nonviolenti a livello mondiale.
Il primo è lo stesso Gandhi, il padre riconosciuto della “ nonviolenza del forte”. Nel suo dibattito con alcuni pacifisti europei che lo accusavano di aver collaborato, sia pur, normalmente, in forma non armata (come volontari di corpi di pronto soccorso, tipo croce rossa) a tre guerre della Gran Bretagna, alcune delle quali considerate da lui anche ingiuste, e di non essere perciò un pacifista “integrale”, egli risponde, tra l’altro, con l’immagine del “gatto e del topo”. Scrive Gandhi: “Chiederei ai resistenti alla guerra europei di tener conto di una differenza cruciale tra loro e me. Essi non rappresentano nazioni sfruttate; io rappresento la nazione più sfruttata della Terra. Per usare un confronto poco lusinghiero loro rappresentano il gatto ed io il topo. Un topo può avere anche il senso della nonviolenza? Non è una sua fondamentale esigenza far di tutto per realizzare una violenza efficace prima che gli si possa insegnare ad apprezzare la virtù, la grandezza, la supremazia della legge dell’ahimsa in guerra ?”64.
E passando invece a Gene Sharp, il cosiddetto Machiavelli della nonviolenza, egli nelle sue istruzioni per fare delle rivoluzioni nonviolente contro i dittatori, che hanno ispirato i movimenti nonviolenti sia dell’Est che dei paesi arabi, pone tra le prime regole di azione, il lavoro per minare alla base le fonti del potere, e cioè il cercare l’alleanza oltre che del popolo, anche dei funzionari e dei militari che appoggiano il tiranno ed il potere attuale , ma non tanto per usare le armi contro di questi, ma per svuotarlo completamente del suo potere e poterlo portare alla disintegrazione65. Detto questo credo che siamo ora pronti per affrontare l’ultimo tema, quella dell’applicazione di queste tesi alla situazione attuale italiana.
10. E’ possibile un socialismo dal volto umano nel nostro paese?
In questo paragrafo, come già accennato, vorrei vedere quale strada resta, se ancora aperta, per andare verso una società più giusta, più umana, più solidale, non subordinata al Capitale ed alle leggi del Mercato (visto, questo, realmente, come il “Nuovo Principe”). E questo anche grazie agli insegnamenti di Gramsci e della rivoluzione nonviolenta da lui ricercata che in questo saggio abbiamo cercato di ricostruire.
Ma vorrei iniziare questa ulteriore riflessione con la citazione di un articolo di Gad Lerner , il noto conduttore di varie trasmissioni televisive (l’ultima è “Zeta”, per la 7), che ho trovato molto convincente. Il titolo del saggio è: ”Compromesso storico, quando la sinistra si convince di non poter governare”66.
Egli parte dal ricordo del “compromesso storico” del 1973, durante il quale il Partito Comunista Italiano raggiunse il massimo dei voti, e nel quale il leader di quel partito, Berlinguer dichiarò che il Partito non avrebbe mai potuto “vincere le elezioni e governare l’Italia da soli…e dunque ci tocca perseguire la collaborazione tra le forze cattoliche, socialiste e comuniste se vogliamo tutelare gli interessi popolari”67
Da lì nacque l’esperienza di governi di unità popolare guidati da Andreotti, esperienza che si chiuse drammaticamente con l’uccisione di Moro, principale interlocutore democristiano di Berlinguer, da parte delle Brigate Rosse.
Scrive Lerner : “Non mi addentrerò nell’infinita controversia su meriti e demeriti del ‘compromesso storico’ di antica memoria. Mi limito a constatare che ormai sono quarant’anni che all’interno della sinistra italiana si è radicata la convinzione di non potercela fare, da sola, a guidare questo paese. Paura di vincere, dice qualcuno. O se preferite, maledizione dell’ultimo miglio, per cui incespichi quando ormai sei in prossimità del traguardo, com’é successo per Bersani nel 2013”68
Questa osservazione fa rivenire in mente la critica di Basso, di una mancanza di una strategia della sinistra, e rinforza l’ipotesi che sia stata questa la causa principale del crollo elettorale, dopo quel picco, del partito comunista e della sinistra in genere69.
E questo conferma quanto scrive Jakopovich del pericolo che la mancanza di decisione dell’andare al potere, permetta agli avversari di riorganizzarsi e porti alla fine ad una forte demoralizzazione tra le persone del proprio fronte. Nel grande livello di persone che si astengono dal voto (quasi la maggioranza, rispetto ai votanti) c’è sicuramente anche l’effetto di questo scoramento di molte persone che non si accontentano della politica delle aggiustature e dei rappezzamenti70 ma che aspirano ancora ad una società più giusta e più democratica, più socialista.
Ma prima di concludere definitivamente questo saggio vorrei esprimere un forte dubbio che inficia molto le prospettive del nostro paese : “Viviamo in una società pienamente democratica, nella quale i risultati della volontà popolare contano realmente, o in una società nella quale la democrazia è come uno specchietto delle allodole, e vale, almeno per noi, quello che scrivono, in uno loro manifesto, gli anarchici statunitensi : ‘Se il voto servisse realmente a qualcosa l’avrebbero già abolito!’ ?”
E cioè siamo realmente autonomi e legittimati a scegliere il governo che preferiamo, o dobbiamo necessariamente scegliere un governo che mantenga in vita l’attuale modello di sviluppo, di tipo capitalistico, e con il fondamento di base nel libero mercato, come deve fare necessariamente una buona colonia degli Stati Uniti, e non un governo che porti avanti un modello di sviluppo alternativo, di tipo socialista, anche se dal volto umano e democratico come quello della Cecoslovacchia di Dubček?.
In caso contrario i militari USA ed altri della Nato, che a Vicenza ed a Napoli stanno aumentando a dismisura, magari con l’appoggio anche delle nostre forze armate che, come ha dimostrato il recente golp per gli F3571, si considerano al di sopra e più importanti del nostro Parlamento, avrebbero il compito di fare rinsavire il nostro paese per farlo ritornare nell’alveo dello sviluppo capitalista. Se questo, come temo, è il quadro reale c’è realmente bisogno di quella rivoluzione totale predicata da JP che faccia cambiare totalmente la cultura del nostro paese nella quale, tuttora, la grande maggioranza degli abitanti del nostro paese è convinta che gli altri ti vogliono fregare e perciò, per non essere fatti fessi, bisogna fregarli noi per primi, ed è necessario anche mettere sotto controllo la spesa militare, e ridurla notevolmente, altrimenti, come scrive Sun-tzu ne, L’ Arte della guerra,72, se questa è troppo elevata in rapporto ai problemi sociali del paese (come è nella realtà, attualmente, malgrado i tentativi di mistificazione73) la sicurezza del paese è messa a rischio.
Se queste due cose sono fatte resta aperta la domanda se ci sia ancora spazio per la via gramsciana al socialismo, ad un socialismo dal volto umano, per tutti coloro che non si identificano con l’attuale modello di sviluppo, di cui fa parte anche il nostro paese, e cercano strade nuove, anche attraverso la messa in atto di “casematte”, per usare la terminologia gramsciana, con la organizzazione di un movimento che ha bocciato, con il referendum, la costruzione di nuove centrali nucleari, che ha scelto l’acqua come “bene comune”, non privatizzato; che lotta concretamente contro la mafia organizzandosi per fare approvare leggi per il sequestro dei beni mafiosi, e per coltivare, in cooperative, i terreni agricoli confiscati a questi stessi; che si sono organizzati dal basso per far mettere sotto controllo, dal nostro Parlamento, con la Legge 185/1990, le nostre vendite di armi all’estero, e che prevedeva anche, se fosse stata attuata, una norma per il finanziamento della riconversione delle industrie belliche. Oppure i non molti, ma che hanno pagato di persona per questi gesti, che si sono rifiutati, e si rifiutano – o attraverso l’obiezione di coscienza al servizio militare oppure non pagando le tasse per le spese militari – di partecipare ad uccidere altri esseri umani in guerre, sedicentemente “umanitarie”, “per la democrazia”, o “contro il terrorismo”, in realtà per mantenere i privilegi del mondo ricco rispetto a quello povero, e per il controllo diretto delle fonti energetiche necessarie al suo sviluppo. Oppure il movimento “Se non ora quando?” che ha visto centinaia di migliaia di donne, arrabbiate giustamente dall’uso strumentale del corpo femminile come merce di scambio per una politica corrotta, scendere in piazza per chiedere una politica più rispettosa del proprio sesso, e più equilibrata nel rapporto tra maschi e femmine. Inoltre, di questo movimento74, fanno parte anche tutti coloro che, concretamente, giorno per giorno, lavorano umilmente per eliminare gli sprechi della società dei consumi, attraverso il riciclaggio ed il riuso, con la ricerca di forme economiche equo-solidali, a chilometro zero, o con i gas (gruppi di acquisto solidali) che ravvicinano i coltivatori che cercano di superare l’agricoltura ed il commercio dello spreco – milioni e milioni di chilogrammi di cibo, e di beni utilizzabili, buttati via ogni giorno nelle pattumiere per rispondere alla logica del mercato e non a quella dei bisogni della gente – ed i consumatori, ridotti alla quasi miseria dal processo di globalizzazione imperante, con la delocalizzazione delle industrie verso paesi dove non esistono sindacati e dove il costo del lavoro è da 10 a 20 volte inferiore al nostro. E così’ via.
Ma le esperienze alternative, di questo tipo, sono moltissime e coinvolgono milioni di persone che forse, se si va a vedere bene, sono la maggioranza della popolazione del nostro paese, anche se molti di loro, schifati dalla politica dell’egoismo, della corruzione e del ricatto, non vanno nemmeno a votare, e quindi, a livello parlamentare, sono inesistenti. Non è proprio possibile, prendendo coscienza di questi fatti, e tenendo vivo l’insegnamento gramsciano, dell’importanza di una rivoluzione nonviolenta, dal basso, unirsi e cambiare pagina?. A questo proposito mi sembra importante chiudere questo articolo con un’altra citazione di Gramsci: “Quello che accade, accade non tanto perché una minoranza vuole che accada, quanto piuttosto perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha lasciato che le cose accadessero“. Non lasciamo che questo avvenga!
Note
1 Walter Porcedda, La Nuova Sardegna, 25 maggio, p.36
2 In “Azione Nonviolenta”, nov 2011, p.12
3 Si veda, “Antologia Premio Gramsci – XII Edizione -Ales- gennaio 2011”, Editrice Democratica Sarda, Sassari, 2012, pp.375-432
4Tra i suoi dischi ci sono: Lu carzaratu. Canti siciliani di carcere, della serie Folklore del mondo, a cura di Roberto Leydi, registrato e pubblicato dalla Ricordi, Milano; tre Canti del lavoro, in due dischi curati da Leydi, per i “Dischi del Sole; Quantu balisicò. Canti siciliani d’amore”, sempre per i Dischi del Sole; Canti popolari siciliani.Conversazione e canto di Giuseppe Ganduscio, registrato e pubblicato da Trinacria, Palermo; e Sicilia: antichi canti d’amore, anche questi della Trinacria di Palermo.
5 Libri Siciliani, Palermo, 1970.
6 Il film ha vinto il premio Locarno, nel 1977, ma è stato visto pochissimo nel nostro paese. Come mai?. Sempre per quella censura, e quel silenzio su Gramsci nel periodo del compromesso storico, per la coscienza che il Partito stava andando contro le sue idee ?
7 Si veda, su questo modello, la sua illustrazione in A. L’Abate, Metodi di Analisi nella Scienze Sociali e ricerca per la pace: una introduzione, pubblicato in coedizione da Transcend University Press di Basilea, e Multimage di Firenze, 2013, pp. 272-273, e, per l’applicazione del modello all’analisi delle guerre: A. L’Abate, Per un futuro senza guerre,
Liguori, Napoli, 2008.
8 Queste ipotesi sono riprese, ma con vari tagli, dal mio saggio, pubblicato nel volume del XII premio Gramsci, citato, alle pp.380-386. Per l’illustrazione esaustiva delle ipotesi si legga il testo nel libro citato.
9 Scrive V. Gerrattana nell’introduzione al II volume delle Lettere dal carcere, (prima pubblicazione, Einaudi, Torino, 1947): ”Io sono sempre stato dell’opinione che la verità abbia in sè la propria medicina” così [scrive Gramsci] in una…lettera alla moglie…(5 novembre 1936)….il contesto è dato dai rapporti privati, sentimentali, ma è lo stesso principio che spinge Gramsci a sottolineare nei Quaderni, che “nella politica di massa dire la verità è una necessità politica”. Nel pubblico e nel privato, nella politica e nei rapporti personali, non dire la verità quando si parla, e si può parlare, è sempre, indipendentemente dalle situazioni, fonte di inganni e di conseguenze disastrose” p.14. Il mio commento era quello che questa importanza data da Gramsci alla verità in politica lo
avvicina di più ai nonviolenti (Gandhi, M.L. King, Capitini, ecc.) che a Machiavelli, pur da Gramsci studiato a fondo, che subordina la verità al fine da perseguire. Nel 1987 le Lettere dal carcere sono state ripubblicate, in due volumi, dal giornale , L’Unità, con due prefazioni, al I volume di Spriano, al II di Gerrattana.
10 Don L. Milani, L’ubbidienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1983.
11 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerrattana, Einaudi, Torino, 1975, in 4 voll.. citazione nel vol II, p.708
12 E’ una tesi questa confermata anche da P. Spriano, op.cit., e dalla R. Rossanda, de “Il Manifesto”. Altri autori, come la Maciocchi nel suo libro: Per Gramsci , Il Mulino, Bologna, 1974, e M. Salvadori, Gramsci ed il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino, 2a ed. 1973, p. 140, sostengono invece l’unitarietà del pensiero gramsciano.
13 Su questi aspetti del pensiero di Capitini si legga il suo Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, 1969; altra ediz. Guerra Edit. Perugia 1999
14 La teoria del potere della nonviolenza è illustrata nel modo molto chiaro ed esaustivo nel primo volume della trilogia di Gene Sharp, La politica della azione nonviolenta , Edizioni. Gruppo Abele, Torino, 1985/6/7, in tre volumi. La validità di questa teoria è stata confermata da molte delle rivoluzioni a-violente avvenute nell’ultimo secolo (Sud Africa, Polonia, Cecoslovacchia, Germania dell’Est, alcuni dei paesi arabi, ecc.) nelle quali la forza per il cambiamento del regime è venuta dalla grande partecipazione di base.
15 Capitini a pag 111, del suo testo, Educazione aperta 2 , La Nuova Italia,Firenze,1967, 2 voll.
16 Ibid. Il testo di Bobbio citato viene dalla sua relazione.”Gramsci e la concezione della società civile” presentata al Congresso sardo di studi gramsciani del 1964.
17 Sul marxismo terzomondista si veda soprattutto, S. Amin, Imperialismo e rivoluzione socialista nel Terzo Mondo, Angeli, Milano, 1979.
18 Per le tesi di Don Nardone su questo argomento si veda il suo libro: L’umano in Gramsci: Evento politico e comprensione dell’evento politico, Dedalo Libri, Bari, 1977; ed anche, nel libro del XII premio Gramsci, già citato, il capitolo sul contributo di Don Giorgio Nardone, pp. 405-407.
19 Nel libro sul XII Premio Gramsci, citato, p.386
20 Faccio riferimento qui alla prima edizione del libretto : Gramsci e la nonviolenza pubblicato, come quaderno, dalla Fucina per la Nonviolenza di Firenze, nel 2011.
21 Queste erano, in ordine alfabetico: R. Arca, T. Barbagli, C. Bellisai, A. Cabiddu, I. Carta, M. Cau, S. Cocco, S. Melis, C. Piras, P. Racca, P. Sanna, M.E. Satta.
22 Si veda la relazione del gruppo apparsa sul numero di “Azione non violenta” del novembre 2011, p.12
23 Nell’ articolo su “Azione nonviolenta”, citato p.12
24 Ibid. p.12
25 Ibid, p.12
26 Ibid, p.13
27 Ibid, p.13
28 Ibid, p.13
29 Queste ultime considerazioni, fino alla nota 35 compresa, sono riprese dal volume del XII premio Gramsci alle po. 375-377
30 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano , 1992
31 G. Pontara “Esiste una terza via al socialismo?”, in Movimento Nonviolento, a cura di, Nonviolenza e marxismo. Libreria Feltrinelli, Milano 1981. Di questo stesso studioso si vedano anche la cura e l’introduzione a M.K.; Gandhi,Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 1973, riedito con aggiornamenti nel 1996; la voce “Nonviolenza”, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, a cura di, Dizionario di politica, Utet-Tea, Milano, 1990; Guerra, Disobbedienza civile, Nonviolenza, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1996, L’antibarbarie: La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 2006, ripubblicato, nel 2008, come allegato al giornale L’Unità.
32N. Bobbio, articolo su “Il Ponte” riprodotto in, Movimento Nonviolento, a cura di, Marxismo e Nonviolenza, Editr. Lanterna, Genova, 1977, p.14. Per un quadro riepilogativo, con aggiornamenti, di questo e del successivo dibattito sullo stesso tema organizzato dal Movimento Nonviolento, si veda: A. L’Abate,”Marxismo e Nonviolenza nella transizione al Socialismo”, in , a cura del giornale “Liberazione”, Agire la nonviolenza: prospettive di liberazione nella globalizzazione, Ediz. Punto Rosso, Milano, 2004, ripubblicato in, A. L’Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008, pp. 235-257
33 Movimento Nonviolento, a cura di, Marxismo e Nonviolenza, citato, pp.7-8.
34 Sui fatti della Cecoslovacchia si vedano: Z. Ziynar, A. Dubček, Che cosa fu la ‘Primavera di Praga’ ?, Idee e progetto di una riforma politica e sociale, Lacaita Edit., Manduria (Ta.), 1989; e R. Richta, Progresso tecnico e società industriale, Jaka Book, Milano, 1977. Richta è un filosofo-sociologo cecoslovacco che ha usato per primo il termine “socialismo dal volto umano” ed ha diretto un gruppo di lavoro che ha elaborato un interessantissimo documento, in appendice al suo libro prima citato Per un nuovo modello di socialismo. Per testi più recenti si vedano i bei libri di F. Leoncini, a cura di, Cosa fu la ‘Primavera di Praga’ ? Idee e progetti di una riforma politica e sociale, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2007; e, L’Europa del disincanto, dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2011.
35 Sulle lotte nonviolente della popolazione di quel paese contro l’occupazione militare delle forze armate russe si veda: G. Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Edizioni. Gruppo Abele, Torino, 1985/86, 3 voll.. Le pagine che riguardano questa resistenza sono nel vol. I, pp.158-160.
36 Http://www.international viewpoint.org/spip.php?art.>, p. 1.
37 C. Boggs, Gramsci’s Marxism, Pluto Press, London, 1976, p. 30
38 A. Gramsci, “Ordine Nuovo, lo Stato ed il Socialismo”, in C. Buci-Glucksmann, Gramsci and the State , Lawrence and Wishart, London, 1980, .pp. 380-382
39 A.Gramsci, “Prison Notebooks”, in C, Boggs, Gramsci’s Marxism , citato, p. 262.
40 A. Gramsci, “Prison Notebooks: State and Civil Society”, in P. Le Blanc,a cura di, From Marx to Gramsci: a Reader in Revolutionary Politics, Humanity Bokks, N ew York, 1996, p. 317.
41 A. Gramsci, ibid., p. 317.
42 R. Kimelman, “Nonviolence in the Talmud”, in R. L. Holmes, a cura di, Nonviolence in Theory and Practice, Waveland Press, Propsect Heights, 2001, p. 24.
43 Oltre a Norberto Bobbio, che è stato il nostro interlocutore privilegiato, gli altri sono stati: tra i marxisti, Lelio Basso, Nicola Badaloni, Luciano Capuccelli, Adalberto Minucci, Roger Garaudy, Lucio Lombardo Radice, Leonardo Tomasetta; trai nonviolenti , oltre al sottoscritto, Pietro Pinna, Giuliano Pontara, Antonino Drago, Matteo Soccio, Domenico Sereno Regis, Lorenzo Barbera, Giovanni Cacioppo, Franz Amato ; tra i cattolici o filosofi amici di Capitini: Ernesto Balducci, Arnaldo Nesti, Giovanni Franzoni, Gilberto Vivarelli, Gianni Baget-Bozzo, Andrea Vasa, Giacomo Zanga , Italo Mancini, Guido Calogero. Gli atti dei due convegni curati dal Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini, già citati, sono intitolati: “Marxismo e Nonviolenza”, svoltosi a Firenze presso la facoltà di Magistero, nel 1973, cinque anni dopo la morte di Aldo, e “Nonviolenza e Marxismo”, nel 1978 svoltosi a Perugia, a dieci anni dalla sua morte, con la collaborazione della Regione Umbra e del Centro Studi Aldo Capitini. Le riflessioni su Gramsci e la nonviolenza sono una ripresa ed una continuazione di questo dibattito.
44 A. Gramsci, in C. Harman, Gramsci versus Reformism, Socialist Wokers’ Party, London, 1977, p. 8. Non essendo possibile ritrovare l’esatta citazione del testo di Gramsci dalla quale è tratta questa citazione, il testo riportato è una mia traduzione del testo inglese riportato dall’autore.
45 Lenin, Collective Works, Vol. 24, Mosca, 1977, p. 120.; Vol. 25, p. 23; p. 55.
46 V.I. Lenin, “Marxism and Insurrection: A letter to the Central Committee of the R.S.D.L.P.”, in, Lenin’s Collected Works, Progress Publishers, Mosca, Vol. 26, 1972, pp. 22-27
47 F. Engels, “The Force Theory”, B.Semmel, a cura di, Marxism and the Science of War, Oxford University Press, 1981, p. 54, od anche in M. Shaw, Dialectics of War, Pluto Press, London, 1988, p. 51.
48 B. Deming, “On Revolution and Equilibrium”, in R. L.Holmes , a cura di, Nonviolence in Theory and Practice, citato, pp. 100-102.
49 Ho lasciato da parte, per necessità di non allargare troppo l’ambito di questo saggio, le argomentazioni dell’autore sul ruolo rivoluzionario del partito che lui vede come “moderno Principe”, ma rifiuta a questo un ruolo di sostitutismo, o nelle sue parole di “dispotismo minoritario”. Scrive l’autore, parlando della concezione gramsciana di partito, (scritto sempre, nel suo saggio, con la p minuscola), con le stesse parole di Gramsci: “avrebbe dovuto in fin dei conti essere ‘un partito delle masse che, attraverso i propri sforzi, cercano di liberarsi autonomamente dalla schiavitù politica ed industriale attraverso l’organizzazione dell’economia politica, e non un partito che sfrutta le masse per i propri eroici sforzi di imitare i giacobini francesi’ “ (citazione da, A. Gramsci, “Two Revolutions”, in C. Boggs, a cura di, The two revolutions : Gramsci and the Dilemma of Western Marxism, South End Press, Boston, 1982, pp.106-107). Chi è interessato a questi altri aspetti del lavoro di Jacopovich farebbe bene a consultare direttamente il saggio già citato.
50 Per uno sviluppo di questo argomento si veda il capitolo: “Idee per una rivoluzione nonviolenta”, nel mio libro, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli 2008, pp.217-233
51 Dal suo libro: Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 159; il libro è stato riedito dall’editore Guerra, di Perugia, nel 1999.
52 “Il controllo dal basso” editoriale del giornale , Il potere è di tutti, gennaio 1974, n.1
53 D. Dolci, Inventare il futuro, Laterza, Bari, 1968, pp. 228-229.
54 Si veda il suo, Capitalismo Socialismo Ecologia, ManifestoLibri, Roma, 1992.
55 L’esempio più tipico di questo lavoro è la programmazione fatta con la stessa popolazione da Danilo stesso che ha portato, ad esempio, ad individuare, per migliorare la situazione economica di una zona depressa, la costruzione della diga sul fiume Jato, in provincia di Palermo, per poi lottare per la sua realizzazione, ottenuta dopo circa 9 anni.
56 La sua più importante attività è stata quella di una riforma agraria, fatta dal basso e non violentemente, che è riuscita a ridistribuire milioni di acri (un acro è circa la metà di un ettaro) in molti stati dell’India nei quali la proprietà fondiaria era concentrata in poche mani. Anche se gli acri donati dai padroni a Vinoba, e ridistribuiti da lui alla popolazione del luogo, erano un piccolissimo segno di buona volontà rispetto ai fabbisogni totali della popolazione contadina indiana, ciò non di meno questa iniziativa ha dimostrato che anche con metodi nonviolenti si possono fare anche importanti riforme che possono poi essere rinforzate anche da un appoggio governativo, che verrà a Vinoba, ma che resterà in gran parte inattuato per la mancanza di quella “rivoluzione totale” predicata e portata avanti da J.P.
57 Che era la figlia di Nerhu ed non aveva alcuna parentela con Gandhi, ma che aveva sposato una persona con questo cognome, ma scritto in modo diverso. Per far credere, alla popolazione analfabeta del suo paese, la sua diretta discendenza da Gandhi e portare avanti la sua politica familistica (passando il governo a suo figlio Rajv)– contro la
quale si era scagliato JP – Indira ha cambiato la scrittura del cognome del marito.
58 In realtà la non accettazione di JP a questa offerta, oltre che al suo stato di salute malfermo, era anche dovuta alla sua idea che il movimento nonviolento non avrebbe dovuto andare al potere, ma essere un “terza forza” tra il governo e l’opposizione, appoggiando o l’uno o l’altro a seconda della corrispondenza, o meno, delle leggi che venivano discusse ed approvate al programma del movimento nonviolento. E’ una proposta molto interessante che forse renderebbe la democrazia parlamentare molto più duttile e produttiva rispetto agli scontri frontali che spesso ci sono tra maggioranza e l’opposizione, e non renderebbe necessari governi di “inciucio” come quello di Letta Jr. che
abbiamo attualmente. Si veda, su questo, il volume di J.P. Narayan, Toward Total Revolution, Popular Prakashan, Bombay, 1978.
59 Lelio Basso è morto nel dicembre del 1978. .
60 La frase già citata dice: “E’ distruttore-creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, far affiorare, il nuovo che è diventato necessario ed urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea”, nei, Quaderni dal Carcere , a cura di Gerrattana, citati, Vol. II, p.708.
61 Secondo autorevoli giuristi la pretesa dei militari di essere indipendenti e superiori alle decisioni del Parlamento è del tutto illegale ed anticostituzionale. Si veda su questo punto l’intervista a S. Rodotà ne “Il fatto quotidiano” del 7/7/2013. Per le spese pazze dei militari, che, se, controllate e ridotte, servirebbero a risolvere molti problemi aperti nel nostro paese (disoccupazione montante, esodati, inquinamenti montanti con rischi di danni ambientali frequenti, mancanza di salvaguardia dei nostri beni culturali, scarsi finanziamenti alla scuola pubblica, ecc.) potrebbero essere risolti, si veda la documentazione di Sbilanciamoci, gli articoli di Alioti, e la ricerca del’Archivio Disarmo di Roma. Si veda anche l’articolo pubblicato dall’ Espresso (di G. Alioti, responsabile Ufficio internazionale dei metalmeccanici CISL, si vedano:“Crisi economica e spese militari”, relazione al convegno di Pax Christi, Bologna, 27/10/2012, su: Per una difesa senza armi:proposte politche programmatiche, nel sito di Pax Christi, Bologna; ed anche <sulle spese militari, il governo dà i numeri/italia/sezioni/home-sbilanciamoci>, ed il più recente, del 18 luglio 2013: “Difesa: Fim, non oltre 600 i nuovi occupati per il programma F-35”, ne , Il Nuovo Giornale dei Militari, citato da, Il Sole 24 Ore, Radiocor; l’indagine dell’Espresso, del 9 maggio 2013: “Le spese pazze della Difesa: un miliardo per comprare altri satelliti spia militari, 800 milioni per un missile che non verrà mai prodotto, e ben 22 miliardi per digitalizzare l’Esercito. Inchiesta su eccessi e sprechi della forze armate”, ed infine, nella relazione di Nibali, su La spesa militare in Italia, Rapporto 2013, dell’Archivio Disarmo di Roma, si dice: “ Da questo quadro traspare una doverosa e forse dolorosa conclusione. Cacciabombardieri, fregate,minifregate e sistemi d’arma di altro genere hanno dietro costi consistenti che non possono essere giustificati soltanto con la minaccia del terrorismo internazionale e con la creazione di presunti posti di lavoro o ancora con l’idea del progresso facile o con l’obiettivo della sicurezza del Paese. Un Paese, ricordiamolo, in forte declino, un Paese che ha ridotto drasticamente le spesesociali, per la scuola, per l’università, per la ricerca, per i beni culturali, per la sicurezza dei suoi cittadini nei luoghi pubblici, ma che, desideroso di proiettare la propria azione sugli scenari internazionali, non esita a sostenere ben 26 missioni nel mondo, a volte con risultati per nulla scontati e non per forza positivi”.
62 Secondo autorevoli ricerche questi velivoli sono non solo estremamente costosi, il cui costo complessivo nei vari anni di ordinazione degli stessi, è di circa 14 miliardi di Euro (ma oltre 50 miliardi per l’intera vita del programma), ma sono anche difettosi, tanto che per superare questi difetti le spese di fabbricazione sono in continuo aumento. Tanto che l’acquisto, ora, di soli 90 aerei, viene a costare quanto prima sarebbero costati i 130 aerei inizialmente sottoscritti dal nostro paese. Questo continuo aumento dei costi ha fatto sì che vari altri paesi, che, come l’Italia, li avevano ordinati (Olanda, Australia, Canada,Turchia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna ) hanno rinunciato al loro acquisto, o stanno comunque rivedendo la loro decisione.
63 In A. L’Abate, “Gramsci e la Nonviolenza”, in, Antologia Premio Gramsci: XII Edizione, citato, p.391. Le citazioni gramsciane accennate nel testo si possono trovare alle pp. 388-390 dello stesso libro.
64 Si veda, Mahatma Gandhi, Lettere ai pacifisti, Quaderni Satyagraha n. 21, Centro Gandhi Edizioni, Pisa, 2013, pp. 126-127. Da questa citazione risulta chiara l’impostazione di Gandhi sull’uso, nelle lotte, della violenza e della nonviolenza. Egli non vede quest’ultima come “negazione” della violenza – per lui è meglio usare questa per
combattere contro i soprusi e le ingiustizie piuttosto che subirle passivamente – ma cone superamento della necessità di usare, nelle lotte, la violenza attraverso quella che lui chiamerà la “nonviolenza del forte”, con le sue due armi: Satyagraha, ovvero lotta con la forza della verità (in italiano “azione diretta nonviolenta”, e Sarvodaya, e cioè benessere di tutti (che abbiamo definito “progetto costruttivo”). Questo corrisponde notevolmente a quanto detto da Jakopovich sulla impostazione gramsciana, e cioè sulle due forme di pressione, il potere (la forza) e l’impegno della coscienza (con la ricerca di forme consensuali). Interessante anche la conclusione della replica di Gandhi ai pacifisti occidentali: : “I resistenti alla guerra in Occidente partecipano alla guerra anche in tempo di pace, in quanto pagano per i preparativi bellici, ed anche in altri modi sostengono i governi, la cui occupazione principale consiste in tali preparativi. Per di più, tutte le attività per prevenire la guerra si mostreranno inutili, finché non si comprenderanno le cause della guerra e non saranno radicalmente affrontate. La prima causa delle guerre moderne non è la gara disumana per lo sfruttamento delle cosiddette razze più deboli della Terra?”, ibid., p.,128.
65 Si vedano, di G. Sharp, Come abbattere un regime: Manuale di liberazione nonviolenta, Ediz. Chiare Lettere, Milano, 2011, ed anche: G. Sharp., J. Raqib, Liberatevi! Azioni e strategie per sconfiggere le dittature, add ediz.Torino, 2011.
66 Il saggio si trova nel Blog di Lerner del 30 aprile 2013.
67 <www.gadlerner.it/2013/04/30/il-compromesso-storico-ovvero-la-sinistra-convinta-di-non-poter-governare > p. 1.
68 Ibid. p. 1
69 Durante il periodo del compromesso storico, nel 1976, il PCI ha raggiunto il suo picco elettorale del 34,4% dei voti, ma visti i risultati abbastanza magri di questa collaborazione, questo partito (anche se ha avuto validi risultati alle elezioni amministrative, ed anche alle elezioni europee del 1984 -33,39% dei voti contro il 32,97 della DC) ha visto scemare progressivamente la sua forza elettorale, pur cambiando nome e simbolo, anche a causa del frazionamento elettorale di tutti i partiti della cosiddetta sinistra.
70 Si veda l’importanza, per questa politica, del pensiero di Popper che rifiuta ogni tipo di programmazione e che considera l’attuale modello di sviluppo come il migliore possibile, e ritiene compito della politica affrontare i singoli problemi cercando di risolverli uno alla volta. Questa è diventata l’impostazione prevalente di molti governi occidentali, anche sedicentemente di sinistra, che Popper ‘ha definito del “mutamento incrementale”, ma sarebbe più giusto chiamarla “delle rappezzature” (su questo si veda K. Popper,Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, in particolare il saggio: “Utopia e violenza”, vol. II, pp.601-615). Questa impostazione è del tutto in contrasto con una politica che cerchi di dar vita ad un socialismo dal volto umano (nella dizione di Dubč ek) richiesta e promossa da Lelio Basso. Si veda, di L. Basso, Socialismo e Rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1980.
71 Abbiamo già visto l’assurdità e le contraddizioni dell’acquisto degli F-35. Risulta inoltre che le alte spese per questi aerei hanno limitato i finanziamenti per gli Eurofighter, dei quali invece che semplici fornitori, eravamo “protagonisti tecnologici e con ampie ricadute occupazionali e ingegneristiche” (Il Sole 24 Ore, Radiocor, citato) con un risultato, in complesso, “che il saldo occupazionale nel settore aerospaziale -in particolare nella difesa – è negativo” (ibid.)
72 Vedi Sun-tzu, L’Arte della Guerra, BUR, Milano, 1997, decima edizione, 2002. E’ scritto a pagina 25: “Non bisogna dimenticare che l’esercito è soltanto una voce del bilancio statale da non anteporre alle altre. Ragionando diversamente, la sconfitta sarà inevitabile”
73 Si veda la bella relazione di Gianni Alioti, il sindacalista della CISL, al convegno di Pax Christi a Bologna, già citato. In questa Alioti, presentando dati a livello mondiale, mostra come una delle cause non secondarie della crisi economica attuale sono anche le altissime spese militari che sono correlate agli alti livelli dell’indebitamento di molti paesi del mondo (compreso il nostro). Alioti mostra anche come i dati delle spese militari del nostro paese siano completamente falsati dal fatto che queste sono divise tra molti ministeri, contrariamente a quelle di altri paesi, e come questa manipolazione delle spese militari sia servita a vari nostri governi a sostenere che spendiamo molto meno degli altri paesi, per non toccarle (tagliando invece le spese sociali, sanitarie e culturali), come invece hanno fatto altri paesi d’Europa, ad esempio la Germania, che, pur spendendo molto meno di noi in questo settore, a causa della crisi le ha ulteriormente diminuite.
74 Questo collegamento tra gruppi che usano la disobbedienza civile e l’obiezione di coscienza, oppure che si organizzano dal basso per ottenere leggi contro il commercio delle armi e contro la mafia (tutte forme di lotta che fanno parte dell’azione diretta nonviolenta)– che, come abbiamo potuto dimostrare, sono stati più importanti per il progresso legislativo del nostro paese del semplice cambiamento elettorale (si veda <https://www.inchiestaonline.it/ movimenti/alberto-labate-larte-della-pace>), e quelli invece che lavorano per una economia alternativa, come i Gas ed altri (che fanno parte del progetto costruttivo) non è così scontato. Sia in Italia che in India i secondi sono molto più numerosi dei primi, e spesso questi diversi gruppi non hanno alcuna collaborazione reciproca. Ma un collegamento, sia pur nascosto, c’è. Infatti gli Stati, mentre si accaniscono contro i primi – mettendoli talvolta anche in carcere – accettano più volentieri i secondi che, ad esempio, se si occupano di educazione o di assistenza agli anziani ed alle persone disabili, tolgono spese allo Stato, che si sente libero di aumentare invece le spese militari. Per questo è importante che tutti questi gruppi, pur operando in modo diverso, si sentano attori comuni per la costruzione di uno Stato meno militarizzato e guerrafondaio, e più solidale e basato sui beni comuni, e non sul mercato.
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