Cinzia Nalin: Pagine eccentriche 4. Morselli, un’ ucronia dimenticata

| 25 Novembre 2021 | Comments (0)

 

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Nel 1973 in una solitaria villa nei pressi di Varese, finisce di essere scritta un’opera dal titolo criptico: Dissipatio HG. Un anno dopo l’autore si uccide sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Stiamo parlando di Guido Morselli e aveva chiamato la pistola con la quale si sparò, “la ragazza dell’occhio nero”. Forse l’unica fedele compagna di una vita dolorosa. L’autore, nato a Bologna nel 1912 vive la sua vita a Milano e nei dintorni. Solo un anno dopo la sua morte la casa editrice Adelphi decise la pubblicazione dei suoi libri.

Morselli fu uno scrittore schivo e chiuso, anima tormentata soprattutto dalle vicende familiari dell’infanzia e adolescenza, non trovò mai un editore disposto a pubblicare le sue opere. La forma ucronica di due delle sue opere scritte negli anni sessanta sono in questa forma letteraria. Con questa modalità di res gestae che vogliono dimostrare di essere res gerendae, Morselli veicola una forma innovativa di scrittura che agglomera analisi teoriche e brani narrativi, anche paradossali, trattando temi di attualità che all’epoca erano scottanti. Le tematiche tra le più dibattute della metà degli anni sessanta vengono dall’autore fatte slittare nello stile utopico con inserzioni filosofiche e teologiche. Ciò che ne risultava era di lettura complessa e l’editoria in quegli anni non comprese il difficile svolgersi della prosa del pensiero morselliano. Il pastiche delle sue produzioni risulta oggi molto moderno e la sua ucronia perfettamente centrata nel gusto degli ultimi anni della seconda decade degli anni duemila.

Le res gerendae che si narrano sono quella ucronia che alterando o cambiando le conclusioni della storia parlano di un’ipotesi di fatti che rispecchia e getta uno sguardo critico ai fatti del suo tempo. L’originale forma ucronica è una modalità usata oramai di frequente, anche nelle modalità di racconto nuove quali la grafic novel e la storytelling delle serie televisive. In Morselli trova però un surplus di motivazione che si incardina sulla sua percezione del disagio di ciò che lo scrittore percepisce come persecutoria: l’incomprensione da parte del modo dell’editoria e della critica.

I due romanzi Roma senza Papa edito nel 1975 e Contro-passato prossimo anch’esso uscito postumo nel 1974 hanno infatti la forma fantascientifica di un immaginare come potrebbero essersi svolti gli eventi che il finale fosse stato diverso da come in realtà fu. Il tentativo a livello letterario riesce e risulta interessante e sorprendente. Quello che qui si cerca di sottolineare è un tentativo inconscio dell’autore di alterare i fatti storici a livello di complessità sociale, con la finalità interiore di trovare un possibile finale altro ai fatti e alle esistenze: probabilmente anche la sua.

Ciò che emergeva dai manoscritti che arrivarono sotto gli occhi dei collegi di lettura degli editori, fu una apparente percezione di mancata relazione plausibile tra lo svolgimento dei fatti e una logica narrativa che li giustificasse. Inoltre lo stile dei romanzi morselliani probabilmente appariva poco sciolto, leggibile; uno stile ibrido tra la narrazione e i lunghi inserti politici, filosofici, letterario-esistenziali che ne complicano la leggibilità. Il dato che appare notevole è che gli scritti non furono evidentemente capiti nelle finalità di cui l’autore li caricò. Morselli continuò a inviare i suoi dattiloscritti e questi continuarono a venir ignorati o rifiutati.

In quegli anni egli risultava incomprensibile, anche per critici del calibro di Italo Calvino e Vittorio Sereni che non lo scelsero, la scrittura intrecciata e ampia che svaria e “fora il sacco narrativo” risulta oggi efficace e moderna ma tra la fine degli anni cinquanta e i settanta risultò drasticamente limitante.

L’autore rimase sconosciuto fino al suicidio: restò uno scrittore senza palcoscenico, un destinatore senza destinatario che alla fine risulta un non-scrittore. Questa fu la durezza della sua situazione rispetto alla sua opera, una tragica incomprensione che Morselli introiettò e trasformò in quella ossessione persecutoria che lo porterà al suicidio. Come spesso succede la mancata corrispondenza da parte del mondo commerciale editoriale non decreta tout court la non validità intrinseca di un’opera, ma la può significare per un autore una devastante mancata comprensione di essa. Questo però si traduce, in un determinato periodo storico, in un ostacolo per la pubblicazione. In altri termini il fallimento percepito da Guido Morselli non era una realtà oggettiva ma soggettivamente percepita sia dai critici che dallo scrittore, purtroppo ingigantita ossessivamente.

Guido Morselli scriveva in uno stile spezzato, sincopato, lasciando spazio tra parti di narrazione ad ampie voragini riempite di osservazioni sociologiche, filosofiche, psicologiche che poi riprendono un complesso filo narrativo. Forse ad un filo di scrittura che segue più osservazioni e rimbombi interiori dolorosi, sempre sul margine stretto dell’auto annullamento. Valentino Bompiani lo definì “ambizioso” in una conversazione con Maria Bruna Bassi amica e amante di quello che fu definito anche l’uomo delle Gauloises: Morselli era sostanzialmente un solitario e refrattario a rapporti umani troppo intrusivi. E l’editore voleva sostenere come una scrittura frutto di un flusso di pensieri che si sviluppano in osservazioni sulla società e la sua filosofia, troppo spesso facciano fatica ad entrare in una prosa esageratamente formale da risultare di una lettura complessa, specie per i tempi in cui fu scritta.

E’ così che nasce la sua ultima opera forse più distopica che ucronica: sicuramente visionaria quanto drammaticamente reale: Dissipatio HG. Morselli scrive questa sua ultima opera e la finisce poco prima di morire. La particolarità è quel HG : dissipatio humani generis. Il protagonista del libro, in un tentativo di uccidersi, si immerge in una profonda gola nel ventre della terra. Il tentativo non riesce ed egli torna alla casa dove vive. Essendo isolata dal centro cittadino, utopisticamente chiamato La Città d’Oro, il personaggio narrante, narrativamente omodiegetico, non si accorge subito di ciò che è successo durante il suo tentativo di morire. Quando, andando in città, si rende conto che tutto è nel solito ordine, tutto è a posto come sempre, solo gli esseri umani sono “spariti”. Non morti ma evaporati, annichiliti come un’antimateria. Di loro rimangono i vestiti, le scarpe in buon ordine e persino l’impronta dei loro corpi nel materasso e sul cuscino ma l’umanità non ha lasciato traccia di sé. Semplicemente non c’è più. Il protagonista ora è solo con oggetti, macchine, attrezzi, manichini, resti di un’archeologia umana muta e indifferente, assieme ad una natura leopardianamente lontana.

E’ solo. “Relitti fonico visivi mi tengono compagnia e sono ciò che di più diretto mi rimanga di “loro”, questo incipit è probabilmente ciò che Morselli oramai desiderava o temeva: la solitudine che nell’opera di fa sempre più insopportabile con il silenzio antropologico che era anche la dimensione dell’ultimo periodo di questo scrittore anomalo. Ancora “Prima erano gli incidenti stradali a togliere la vita: in quel momento fu il togliersi della vita (il suo sottrarsi, svanire) a produrre l’incidente.” Ecco, Morselli fa rimanere in vita i macchinari che gli uomini hanno inventato, che hanno però inglobato l’interiorità umana intesa anche come procedimenti mentali e pulsionali rendendoli automatici e privi di empatia come le registrazioni delle segreterie telefoniche (uniche a lenire il vuoto del protagonista). Per questo la conseguenza non può essere che l’annichilimento dell’uomo pre-industriale. O meglio, questa è la percezione che lo scrittore aveva del profondo silenzio in cui il resto dell’umanità lo aveva lasciato: frutto folle del silenzio editoriale sulla sua opera. Il romanzo è interessante e cattura l’interesse al punto di coinvolgere il lettore nella speranza che sostiene il personaggio narrante: quella che alla fine qualcuno sia rimasto al mondo o che sia tutto un sogno. Anche le profonde analisi che alternano il racconto sono funzionali e si integrano nello stile moderno e problematico, spezzato, della sua scrittura.

L’ultima aporia che a mio parere si incardina nell’ucronia morselliana come un tentativo di riscrivere il finale della sua storia personale è legata al rapporto con il senso del mercato editoriale. Dopo la tragica scomparsa di Guido, Roberto Calasso, direttore editoriale di Adelphi, visionò i manoscritti dell’autore, e li trovò molto importanti tanto da indurlo a pianificare la stampa di tutte le opere. Guido Morselli conobbe post mortem il grande successo di pubblico e di critica che meritava, ma la domanda che si vuole mettere in luce e proporre in questi tempi di sovraproduzione letteraria è una: è forse l’editoria a decretare la fortuna editoriale e soprattutto di critica e quindi a far avvicinare il pubblico all’opera o è l’opera stessa, quando è valida, ad attrarre fatalmente l’attenzione dell’editoria?

Questa domanda Morselli non se la pose, la visse sulla sua pelle e probabilmente ne morì lentamente; sicuramente le sue opere oggi oramai nuovamente cadute nell’oblio dovrebbero essere riproposte come terreno di discussione su tematiche diverse, soprattutto per le profonde riflessioni che contengono sull’uomo e sulla storia. Dopo la rilettura di questo interessante autore rimasto ec-centrico, si potrebbe provare a rispondere al quesito interessante che lega l’arte al mercato con le sue leggi. 

Category: altro, Libri e librerie, Osservatorio internazionale, Storia della scienza e filosofia

About Cinzia Nalin: Nasce e vive a Venezia, si diploma al Liceo Classico e si laurea col massimo dei voti in Lettere Moderne a Ca’ Foscari. Si specializza nello studio critico dell’ Otto-Novecento italiano e francese. Segue il metodo critico psicanalitico di Francesco Orlando, che fu colui che la spinse all’applicazione della psicanalisi alla letteratura. Ha scritto saggi critici su Pasolini, Parise e Nievo. Studiosa di Pasolini e di autori che provengono dal nord est e dal confine con l’Austria e la Slovenia, si interessa di cinema e fa parte del collegio di lettura del Festival del Cinema di Trieste “Mattador”. Studiosa anche di Storia e Filosofia, intreccia nei suoi saggi ed articoli una visione trasversale della letteratura che non prescinde da ciò che crea il totale dell’animo umano nella produzione artistica. Ha presentato i suoi saggi in sedi quali l’Ateneo Veneto. Ha gestito a Venezia la libreria Serenissima. Ora gestisce una libreria indipendente a Bologna, La Luce Verde in Piazza Aldovrandi, e agisce da operatrice culturale.

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