Domenico Maddaloni: Il modello mediterraneo di welfare

| 19 Novembre 2012 | Comments (0)

 

 


 

 

Il saggio riprende, con alcune modifiche, il paper presentato in occasione della Giornata di studi in onore di Enrico Pugliese dal titolo Mezzogiorno, Lavoro, Società, tenutasi il 1 ottobre 2012 presso la Biblioteca del Polo delle Scienze Umane dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”. Il saggio ha come sottotitolo: Il contributo di Enrico Pugliese allo Stato sociale

 

Nel campo dell’analisi dei sistemi di welfare un contributo importante è venuto dalle riflessioni e dalle indagini di quanti hanno definito i contorni del modello sudeuropeo o mediterraneo di protezione sociale. Tra coloro che maggiormente si sono impegnati in questa direzione un ruolo di rilievo è stato svolto da Enrico Pugliese. Sociologo delle classi sociali, del lavoro, dei movimenti migratori, di recente anche della condizione anziana, Pugliese si è infatti dedicato a più riprese anche alla ricerca sui sistemi di welfare. Obiettivo di questo lavoro è delineare il percorso compiuto da Pugliese in quanto analista dei sistemi di welfare, in maniera da meglio far risaltare i caratteri peculiari del modello in questione. Nelle conclusioni, inoltre, cercheremo di evidenziare i connotati della prospettiva metateorica sottostante all’analisi del welfare italiano e del modello mediterraneo compiuta da Pugliese e dai suoi collaboratori. Dietro l’utilità euristica e politica del concetto di modello mediterraneo di welfare c’è, infatti, a nostro avviso, la validità euristica e politica della prospettiva della political economy.

 

1. Modi di riproduzione e forme di regolazione

Cominciamo con il collocare – anche elaborando alcune considerazioni autobiografiche proposte di recente dallo stesso Pugliese (2010) – l’incontro tra questi e il campo degli studi e delle ricerche sul welfare nel contesto sociale e culturale più appropriato. Quest’ultimo, a nostro avviso, è innanzitutto rappresentato dal movimento di una generazione di ricercatori, di intellettuali, di militanti politici che, tra gli anni ’60 e gli anni ’70, ha scoperto che “il personale è politico”, che le diseguaglianze di classe, di status e di potere svolgono un ruolo anche nella vita quotidiana e nella riproduzione biologica e sociale degli individui, e che a partire da una simile premessa si è dedicata con grande impegno allo sviluppo di una sociologia italiana della famiglia, dei rapporti tra i generi e le generazioni, delle strategie di coping, della riproduzione. Il riferimento al lavoro di Laura Balbo (1976; Balbo, Bianchi, a cura di, 1982), di Vittorio Capecchi e Adele Pesce (1983) e, in seguito, di Chiara Saraceno (1986) qui ci sembra obbligato.

Ma rispetto a questo ordine di studi, un’influenza ancora più marcata sullo sviluppo del percorso intellettuale e scientifico di Enrico Pugliese in materia di welfare l’ha avuta, tuttavia, la scuola di Ancona più interessata ad approfondire il tema dei rapporti tra economia e politica, tra le sfere della produzione e della regolazione sociale e politica del sistema capitalistico. Fin dagli anni ’70, Paolo Calza Bini, Ugo Ascoli (a cura di, 1984) e soprattutto Massimo Paci (1982, 1992), si sforzano di connettere in un quadro macrosociologico l’analisi delle diseguaglianze e in particolare delle classi sociali, per un verso con l’indagine sulle strutture e le dinamiche della produzione, per un altro con la ricerca sulle strutture e le dinamiche della regolazione sociale del capitalismo in un Paese diseguale e dualistico, quale l’Italia era allora, ed è ancora oggi.

Infine, nel ricostruire il quadro delle influenze che hanno svolto un ruolo nell’azione di Pugliese quale analista dei sistemi di welfare non è possibile non ricordare anche che il nostro è stato certamente tra i primi sociologi italiani della sua generazione a trovarsi inserito a pieno titolo in network internazionali di ricerca. Per la precisione, in network internazionali nei quali la ricerca sociale era fortemente associata ad un impegno militante a favore del movimento operaio e socialista. Il riferimento qui, prima ancora che agli economisti della scuola della regolazione, è a studiosi del calibro di James O’Connor (1977) e di Ian Gough, cui in effetti si deve l’esordio di Pugliese (in solido con Enrica Morlicchio) quale studioso del welfare. Ma c’è anche l’influenza di studiosi quali Klaus Offe (1977; Offe, Lenhardt, 1979) e degli economisti nordamericani dell’Urpe (Union for Radical Political Economics)

Il testo al quale ci riferiamo è l’Introduzione al volume di Gough L’economia politica del Welfare State, apparso in inglese nel 1979 e pubblicato in italiano da Loffredo nel 1986 – un testo che eserciterà una duratura influenza sul pensiero di Pugliese, al punto da essere chiamato a riferimento anche nel suo scritto forse più recente in materia di welfare (Pugliese, 2010). Il lavoro di Gough costituisce un esempio di analisi (neo)marxista del sistema britannico di protezione sociale, del quale si evidenzia, in continuità con l’approccio di O’Connor, il ruolo quale garante della riproduzione della forza lavoro e della sussistenza della popolazione non lavorativa nelle società capitaliste. Ciò mediante due processi, il primo dei quali è l’erogazione di “spese sociali” – i trasferimenti di reddito – e di “consumi collettivi” – la fornitura di prestazioni e servizi –; il secondo processo è invece la regolazione istituzionale delle attività che interferiscono con la sussistenza e la riproduzione medesime, dalla legislazione sull’ambiente a quella sui consumi. Come evidenziato dai due autori nell’Introduzione, l’approccio di Gough – e, possiamo aggiungere, di O’Connor e di Offe – si presentava allora come innovativo in rapporto ad una tradizione di analisi che individuava nello Stato soltanto il “comitato d’affari” della classe dominante, per approfondire invece la problematica, cara al marxismo occidentale da Gramsci a Poulantzas, dell’”autonomia relativa” della sfera politica in rapporto alle esigenze di accumulazione del capitale. Accanto a queste ultime, gli studiosi in parola collocavano infatti il problema dell’egemonia della classe capitalistica, dunque della sua legittimazione ad esistere e ad operare “per il benessere generale” e pertanto ad assicurare la riproduzione del sistema capitalistico, in un rapporto di cooperazione conflittuale con le classi inferiori e in particolare con la classe operaia. Lo Stato, dunque, quale arena e quale attore (con funzioni di mediazione mai peraltro imparziale) nel conflitto tra le classi: un conflitto che verte non soltanto sulla ripartizione del prodotto sociale, ma anche sulle condizioni più generali di vita e sull’accesso alle opportunità di inclusione e di mobilità sociale e culturale. In questa maniera il filone di ricerca, nel quale il lavoro di Gough si colloca, si sforzava di individuare successi e contraddizioni dei sistemi di protezione sociale nel mondo capitalistico: evidenziandone, in modo particolare, il ruolo di fonte di demercificazione dei processi di sussistenza e di riproduzione biologica e sociale della classe operaia nei Paesi a capitalismo avanzato1. Al tempo stesso Gough evidenzia le difficoltà derivanti dalla crescente incompatibilità, negli anni ’70, tra la fornitura di un ampio sostegno pubblico alla protezione sociale quale diritto politico generale e il sostegno dello Stato all’espansione ed all’approfondimento del processo di valorizzazione del capitale.

In questa prospettiva Morlicchio e Pugliese scelgono di accentuare, in rapporto alle problematiche dibattute nel volume di Gough, gli aspetti che più si prestano a sviluppare un’interpretazione originale della situazione italiana. Il primo è il confronto con la teoria sociale di ispirazione cattolica, che a giudizio degli autori oblitera in maniera sostanziale il ruolo delle relazioni tra economia e politica nella dinamica dei sistemi di welfare – ovvero delle dialettiche tra proletarizzazione e deproletarizzazione nella sfera della produzione, e tra mercificazione e demercificazione in quella della riproduzione – per ridurre, tendenzialmente, il campo delle indagini sul welfare a quello della ricerca sulla povertà. In sintesi, nella visione della sociologia cattolica, e in particolare di Donati (1984, 1993), il sistema di welfare non è più considerato come riproduzione (a livello microsociale) e regolazione (a livello societario), ma piuttosto nei termini di un insieme di interventi di assistenza nei confronti di chi si trovi in una condizione di bisogno o di disagio2. Posizione, quest’ultima, contrastata da Morlicchio e Pugliese, che evidenziano le differenze profonde tra la categoria storiografica e sociologica del povero e quelle del lavoratore dipendente, dell’operaio, del proletario, proprie della political economy che si ispira al materialismo storico. Il dibattito su povertà e proletarizzazione, che a nostro avviso è anche confronto tra un approccio deduttivo e astratto ed uno, invece, storico e strutturale all’analisi dei processi e delle istituzioni sociali (Pugliese, 2010), sembra trovare qui, insomma, un importante momento di esplicitazione, che anticipa in parte il confronto degli anni ’90 sulle direzioni da far intraprendere al processo di riforma del welfare italiano.

L’altro aspetto da porre in rilievo, in questo lavoro, è la sottolineatura delle connotazioni peculiari del sistema italiano di welfare in rapporto agli esempi più dibattuti nella letteratura di quel periodo, e cioè i casi della Gran Bretagna, della Germania, della Svezia, non casualmente assunti a modelli ispiratori delle più celebri tipologie di sistemi nazionali di welfare, da quella di Titmuss (1986) a quella successivamente proposta da Esping-Andersen (1990, 2000). Notano a questo riguardo i due autori che:

“La trasformazione del Welfare State italiano in senso egualitario-universalistico, oltre a dover fare i conti con i problemi di finanziamento della spesa sociale presenti ormai in tutti i sistemi di welfare, troverebbe sulla sua strada due grossi ostacoli inerenti alle specificità del caso italiano. Il primo, ricordato anche da Paci, consiste nell’incapacità del nostro sistema politico di reggere alle pressioni provenienti da particolari gruppi d’interesse o categorie sociali. Il secondo ostacolo ha carattere strutturale, perché riguarda il modo in cui operano le già citate funzioni dello Stato capitalistico (accumulazione, legittimazione, riproduzione) e le caratteristiche del mercato del lavoro italiano (Morlicchio, Pugliese, 1986, p. 21)”.

Con riferimento, in particolare, a quest’ultimo punto Morlicchio e Pugliese osservano che:

“Gli studi sui trasferimenti monetari alle famiglie hanno messo in luce come nel Mezzogiorno si concentri la più alta quota di pensioni di invalidità e di indennità di disoccupazione, entrambe destinate principalmente alla popolazione rurale delle aree interne. Questo processo di welfarizzazione della popolazione agricola meridionale è ben noto ed è ciò che comunemente si designa come assistenzialismo. Ciò che è meno noto è che il flusso di sussidi, tenendo conto della sua distribuzione geografica, è un compenso sociale per l’esclusione da un ruolo sociale attivo, per la mancanza di un reddito da lavoro (ivi, pp. 21-22)”.

A nostro avviso questo passo illustra bene i pregi di un’analisi, come si è detto, storica e strutturale in merito ai processi ed alle istituzioni sociali, e segnatamente riguardo alla protezione sociale. Il sistema di osservazione adottato dagli autori non è mai limitato a questa serie di attività, ma si estende a considerarla nelle sue interdipendenze sistemiche con il contesto societario a diversi livelli (nazionale, regionale) e in rapporto ad altre serie di attività (economia, politica) ed agli interessi materiali ed ideali che ne scaturiscono. In questa maniera è possibile comprendere meglio perché, ad esempio, il problema del welfare backlash non sia identificabile tanto con la protesta delle famiglie di orientamento religioso nei confronti di alcuni dei servizi e delle prestazioni offerte dal settore pubblico – per esempio, verso un’istruzione “laica” –, quanto con quella delle classi superiori e delle regioni più avanzate che intendono mantenere la propria condizione di vantaggio in un’epoca di declino della crescita economica. È in un simile contesto che emerge, a partire dagli anni ‘70 il consenso delle classi superiori nei confronti del grande balzo all’indietro (Halimi, 2006) che, all’insegna del neoliberismo, sta conducendo il modello sociale europeo dallo stadio della recalibration (cfr. ad esempio Ferrera, a cura di, 2005) a quello del retrenchment e del declino delle condizioni di lavoro e di vita delle classi lavoratrici e dei ceti medi (cfr. anche Harvey, 2007; Gallino, 2011, 2012). Ma è anche possibile comprendere meglio da dove provengano i connotati del sistema di welfare italiano e perché una riforma dei suoi istituti e dei suoi programmi in senso universalistico sia tanto difficile. Emerge in particolare, nella disamina di Morlicchio e Pugliese, una questione su cui non si rifletterà forse mai a sufficienza, quella del legame profondo tra squilibri e distorsioni del sistema italiano di protezione sociale e carattere dualistico della formazione economico sociale italiana.

 

2. Il sistema italiano di welfare tra squilibri e politiche di riduzione

Nella carriera intellettuale e scientifica di Pugliese, la metà degli anni ’80 costituisce uno spartiacque. Prima di allora la direttrice principale del suo percorso di ricerca si riferiva all’analisi delle classi sociali, del mercato del lavoro e del processo di riproduzione delle classi subalterne con riferimento soprattutto alle regioni del Mezzogiorno (cfr., a titolo di esempio, Mottura, Pugliese 1975 e Graziani, Pugliese, a cura di, 1979). In seguito l’attenzione di Pugliese, pur restando fortemente ancorata alla ricerca sul mercato del lavoro e la disoccupazione (Pugliese, 1993; Pugliese, Rebeggiani, 1995; Pugliese, a cura di, 1996) si rivolgerà innanzitutto all’indagine sui movimenti migratori e in particolare sull’immigrazione straniera nel nostro Paese. Lungo questo nuovo percorso Pugliese intreccerà o rinnoverà altri rapporti professionali – in particolare quelli con Franco Calvanese (Calvanese, Pugliese, 1990) e con Maria Immacolata Macioti (Macioti, Pugliese, 1991) – e soprattutto, dal punto di vista degli obiettivi conoscitivi che qui ci poniamo, lascerà le questioni sollevate nell’Introduzione al libro di Gough sullo sfondo dell’analisi. Ma dal nostro punto di vista il periodo al quale ci riferiamo si segnala perché in esso si rafforza l’interesse per i lavori di Massimo Paci e la collaborazione con Enzo Mingione. Entrambi questi autori infatti, per quanto in forme in parte diverse, condividono l’interesse di Pugliese per un approccio storico e strutturale all’analisi della formazione sociale italiana, del suo modello di sviluppo, del dualismo che la contraddistingue, e delle forme in cui avviene la riproduzione sociale delle classi subalterne3. Che è poi il tema a partire dal quale un percorso di analisi tipico della sociologia economica diviene indagine sui sistemi di welfare (Pugliese, 2010). Più problematico invece l’atteggiamento di Pugliese nei confronti dei lavori di un altro grande studioso italiano di welfare, ovvero Maurizio Ferrera. Le differenze di appartenenza disciplinare, di collocazione universitaria e, non ultima, di convinzioni politiche si traducono in divergenze di opinione riguardo alla natura dei mutamenti strutturali in corso, con Ferrera schierato con l’ipotesi della recalibration, e Pugliese (con Mingione: cfr. al riguardo Mingione, 1998, 2002) sul versante del retrenchement. Ciò tuttavia non significa che le analisi di Ferrera non abbiano esercitato un’influenza sulla ricerca di Pugliese e collaboratori in merito al sistema italiano di welfare.

Il riferimento, in particolare, è al concetto di modello sudeuropeo di welfare, sviluppato da Ferrera in un saggio del 1996 e ripreso da Pugliese, sempre in collaborazione con Enrica Morlicchio, in un lavoro successivo sui connotati del sistema italiano di welfare (Morlicchio, Pugliese, 2000). Non casualmente il saggio esordisce con una citazione del lavoro precedente di Ferrera e riconosce che il modello mediterraneo di protezione sociale si fonda su una serie di tratti comuni a tutti i Paesi dell’Europa del Sud:

“in primo luogo un elevato grado di frammentazione, con differenti sistemi di sostegno per differenti segmenti della popolazione e un dualismo tra beneficiari “forti” e “deboli”, soprattutto per ciò che riguarda il sistema di sicurezza sociale; in secondo luogo una tradizionale prevalenza di trasferimenti monetari alle persone rispetto alla fornitura diretta di servizi sociali; in terzo luogo l’istituzione relativamente recente di servizi sanitari nazionali (basati sul principio della protezione universalistica e standardizzata con benefici uniformi nell’intero Paese); infine […] un ruolo centrale della famiglia nel compensare le carenze del welfare state o nello svolgere funzioni che in altri paesi sviluppati sono proprie del welfare state (Morlicchio, Pugliese, 2000, p. 53)”.

Tuttavia, rispetto a Ferrera, l’analisi di questi connotati, che occupa una parte rilevante del saggio, è ricondotta meno a variabili di ordine politico e più invece, d’accordo con il già citato lavoro di Gough, al conflitto emergente dal sistema delle diseguaglianze, o – per essere più espliciti – alla lotta di classe. Vale a dire che questi connotati si rivelano come l’esito ultimo del complesso gioco di “pressioni dal basso” e di “riforme dall’alto” che hanno plasmato il modello mediterraneo, e in particolare il sistema italiano di welfare, e che a propria volta traggono origine dai caratteri specifici del modello di sviluppo capitalistico che si è realizzato nel nostro Paese e segnatamente dal suo dualismo. Non manca, perciò, nella ricostruzione del processo di sviluppo istituzionale che ha condotto all’odierno sistema di welfare, il riconoscimento del suo carattere categoriale e dell’ideologia lavorista che è stata sottesa, prima ancora che ai provvedimenti legislativi, al comportamento degli attori collettivi. Il riferimento di Morlicchio e Pugliese è in primo luogo ai sindacati, sospesi tra la volontà dichiarata di separare la previdenza diritto del lavoratore dall’assistenza obbligo nazionale nei confronti di chi è in condizioni di bisogno, e la tendenza ricorrente a risarcire sacche, spesso territorialmente molto definite, di emarginazione lavorativa per mezzo di un accesso improprio ad alcune misure previdenziali. Queste ultime vengono identificate nelle pensioni di invalidità civile e lavorativa, nelle indennità di disoccupazione agricola e, per un altro verso, nelle prestazioni previdenziali e sanitarie garantite ai lavoratori autonomi in carenza di copertura finanziaria. Da ciò il giudizio netto e alquanto severo che Morlicchio e Pugliese forniscono in merito al sistema italiano di welfare al suo zenit:

“Tutto questo esprime la tendenza del sistema di welfare italiano a privilegiare, soprattutto nelle regioni più povere, il versamento di trasferimenti monetari anziché servizi in natura. Come conseguenza di tutto ciò nelle regioni più povere (il Mezzogiorno), a fronte di una elevata spesa pensionistica, si è sempre avuto una carenza dei servizi di welfare; e la priorità accordata storicamente alle pensioni di anzianità e di vecchiaia ha finito per privilegiare i lavoratori anziani, a scapito dei lavoratori giovani soprattutto dei giovani in cerca di prima occupazione. In conclusione per quel che riguarda l’effettiva individuazione dei soggetti maggiormente beneficiari del sistema italiano di welfare, nell’epoca della sua espansione, si può dire che esso va sicuramente individuato nei ceti medi, siano essi artigiani, commercianti e soprattutto contadini, siano essi lavoratori dipendenti (impiegati statali). Nel Mezzogiorno, inoltre, la spesa a carattere previdenziale e in generale le politiche di welfare hanno finito per rappresentare una specie di indennizzo per la mancanza di sviluppo economico e di alternative occupazionali. (2000, pp. 60-61)”.

A questo punto i due autori ampliano il proprio sistema di osservazione, e dunque il modello causale da essi proposto, introducendo due dimensioni che ritengono di grande impatto per l’analisi dei processi sociali. La prima di queste dimensioni è la demografia. Il processo societario che produce lo sviluppo del welfare “all’italiana” è in realtà legato ad una situazione demografica che subisce un profondo cambiamento già a partire dagli anni ’70, il che si traduce in nuove emergenze e in nuove domande sociali, cui il sistema non è in grado di rispondere. Dall’elevata disoccupazione femminile e giovanile nelle regioni del Mezzogiorno, alla nuova povertà degli anziani e dei migranti, la comparsa dei nuovi fattori di rischio si traduce in un ventaglio di richieste che, non intercettate dal sistema pubblico di protezione sociale, si riversano sulle famiglie che acquistano ciò che potremmo definire una nuova centralità da stress. In questa prospettiva la crescita, allora recente, della spesa sociale si verifica in presenza di distorsioni – in termini di distanza dai valori medi dei Paesi ad elevato livello di sviluppo – che appaiono ancora molto rilevanti. Il che giustifica ampiamente il titolo attribuito dagli Autori a questo lavoro, L’Italia, un welfare di stile mediterraneo che mal distingue tra beneficiari forti e deboli.

La seconda dimensione è costituita dal sistema del capitalismo globale, la cui ripresa a partire dagli anni ’70 avviene all’insegna di ciò che Gallino ha di recente definito “la lotta di classe dopo la lotta di classe”, e cioè della deregolamentazione delle produzioni e dei mercati, della globalizzazione finanziaria e produttiva, dell’ideologia neoliberista (Gallino, 2012). È in questo contesto che gli Autori qualificano, contro Ferrera e il mainstream della sociologia italiana del welfare, le tendenze recenti di riforma nei termini di un “processo di trasformazione-riduzione del welfare”, che viene ricostruito mediante l’analisi di alcuni specifici comparti del sistema, dall’assistenza sanitaria alla politica per la famiglia. Di questo processo, particolarmente contraddittorio nel nostro Paese per essere portato avanti soprattutto – ma siamo negli anni ’90 – da governi di centrosinistra, Morlicchio e Pugliese intravedono tuttavia chiaramente l’esito: un esito verso il quale – possiamo aggiungere – ci si è diretti con crescente rapidità nel decennio successivo:

Il processo di “targeting” e l’attenzione a particolari settori svantaggiati della popolazione e l’introduzione di misure rivolte ai soli poveri sono dunque alcune delle innovazioni del sistema italiano di welfare che presentano aspetti al contempo positivi e negativi. L’effetto complessivo in questa fase rischia di essere un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, che sperimenta una riduzione nella stabilità del lavoro e del reddito derivante dalla crisi del modello fordista e al tempo stesso una riduzione delle misure di welfare rivolte a combattere la precarietà. Questo effetto può essere colto nell’aumento (o comunque nella stabilizzazione) della povertà e nella sua progressiva concentrazione nelle regioni meridionali (2000, p. 70).

A questa fase della carriera di Enrico Pugliese appartiene anche il lavoro più ampio, scritto oltre che con Enrica Morlicchio anche con Elena Spinelli, dall’assai significativo titolo Diminishing Welfare: The Case of Italy, pubblicato nel volume a cura di Gertrude Schaffner Goldberg e Marguerite G. Rosenthal, Diminishing Welfare. A Cross-National Study of Social Provision (Schaffner Goldberg, Rosenthal, eds., 2002). Proprio questo contributo rappresenta nella maniera più elegante la logica dell’analisi proposta da Pugliese e collaboratori in merito all’evoluzione, ai problemi ed alle prospettive del sistema italiano di welfare negli anni 2000.

Il sistema di osservazione cui si attengono gli autori rimane definito dalla priorità accordata, nell’approccio di political economy cui Pugliese e collaboratori si ispirano, alla dinamica della popolazione ed a quella dell’economia. La stagnazione demografica con l’aumento della presenza straniera in Italia e della popolazione in età anziana, da una parte, e la stagnazione economica con livelli elevati di disoccupazione e di povertà, concentrati in particolare nelle regioni del Mezzogiorno e tra i giovani e le donne, dall’altra, si rivelano pertanto i fattori che condizionano il processo di riforma. Si evidenzia pertanto l’emersione di bisogni e di domande sociali che rimangono insoddisfatte, in quanto lo sviluppo del sistema italiano di protezione sociale – uno sviluppo che viene di nuovo ricostruito nei suoi momenti essenziali e nell’ammontare e composizione dei suoi impegni di spesa – si rivela squilibrato e dualistico quanto il modello di crescita economica e di modernizzazione sociale realizzato nel nostro Paese nel periodo dei “trenta gloriosi” (1945-1975). A livello politico, il processo di riforma è comunque segnato dalla profonda contraddizione tra l’aspirazione, tipica dei governi di centrosinistra, a completare lo sviluppo del sistema di protezione sociale in un senso più egualitario ed universalistico, e la spinta a “tagliare” servizi e prestazioni sociali, emergente dalla combinazione tra l’agenda neoliberale dell’Unione Europea e i vincoli stringenti imposti al bilancio pubblico dall’accumularsi del deficit (cfr. anche Mingione, 1998, 2002). Ciò che alla fine degli anni ‘90 il mainstream politico, accademico e intellettuale, vicino ai partiti di centrosinistra, continuava a definire “riforma del modello italiano di welfare” è dunque, secondo i nostri tre autori, un processo molto più contraddittorio e dagli effetti assai più problematici. Non casualmente, nel concludere il lavoro Morlicchio, Pugliese e Spinelli notano infatti che In Italia si assiste sia ad una modifica che una riduzione del sistema di welfare, e la riduzione mette a repentaglio i risultati della riforma. L’evoluzione del sistema di welfare italiano ha creato un dualismo: alcuni gruppi esclusi, altri invece iperprotetti. Con la riforma del welfare, l’estensione delle prestazioni a quelli a suo tempo esclusi non può essere data per scontata, ma la riduzione dei privilegi del settore iperprotetto è certa. Alcuni gruppi perderanno posizioni, in particolare nel comparto delle pensioni, ma è dubbio che le persone svantaggiate saranno raggiunte dai nuovi programmi. Questo perché la riforma non è motivata o promossa da intenti di giustizia sociale, ma da restrizioni di bilancio. Pertanto, nuovi interventi mirati non saranno supportati che in misura alquanto ridotta (Morlicchio, Pugliese, Spinelli, 2002, p. 264).

 

3. Dall’analisi del sistema italiano a quella del modello mediterraneo

È con questo bagaglio di strumenti teorici e di esperienze e risultati di ricerca che Pugliese assume, sempre nel 2002, la direzione dell’IRPPS, l’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali emerso dalla fusione tra l’IRP di Roma e l’IRiDiSS di Penta di Fisciano nell’ambito di uno dei tanti processi di riforma condotti a partire dagli anni ’90 nel sistema italiano dell’università e della ricerca. L’IRP era un centro di ricerca orientato agli studi di demografia ed aveva raggiunto, in particolare con la direzione di Giuseppe Gesano, un livello elevato di visibilità e di inserimento nei network di ricerca anche internazionali. Più travagliata invece la vicenda dell’IRiDiSS, che tuttavia aveva già da tempo avviato, con Enzo Bartocci, e continuato, con Giuseppe Ponzini e Paolo Calza Bini, l’esperienza dei Rapporti sullo Stato sociale in Italia, un punto di riferimento di un certo rilievo nel dibattito italiano sul welfare (cfr. in maniera particolare Bartocci, a cura di, 1995; Autori Vari, 1998; 2000). Al personale proveniente da questi centri di ricerca – essenzialmente demografi e sociologi – si aggiungeva poi un gruppo che proveniva invece dall’Istituto di Studi sulla Documentazione e la Ricerca Scientifica, ed al quale apparteneva anche l’attuale (dall’ottobre 2009) direttore dell’IRPPS, Sveva Avveduto.

In questo contesto, prima ancora che avviare o proseguire iniziative di ricerca, era necessaria un’opera di organizzazione dell’Istituto, che mirasse a far dialogare le sue diverse componenti nella prospettiva di una crescente interpenetrazione tra queste. Va ricordato, al riguardo, che la direzione di Pugliese si è distinta da subito per il tentativo di creare delle sinergie tra le risorse e le competenze presenti nel nuovo Istituto. Ciò anche attraverso la partecipazione attiva a processi di ricerca in apparenza più lontani dai suoi interessi consolidati4. Naturalmente, poiché il dare comporta pressoché inevitabilmente un ricevere, ne è derivato – a giudizio di alcuni colleghi dell’IRPPS – un incremento della sensibilità di Pugliese nei confronti dei campi d’indagine presenti nel dominio organizzativo dell’Istituto.

Per quanto riguarda l’analisi dei sistemi di protezione sociale, risultato diretto dell’impegno di Pugliese nella direzione dell’IRPPS è la redazione dei Rapporti sullo Stato sociale in Italia. Partendo da un’ipotesi di lavoro unitaria, i tre volumi delineano un percorso di ricerca articolato in tre momenti strettamente intrecciati. Il primo di questi, i cui risultati vengono raccolti in un volume che significativamente si intitola Un decennio di riforme (Pugliese, a cura di, 2004), è un’indagine sulle riforme istituzionali realizzate nel sistema italiano di welfare a partire dagli anni ’90, riforme di cui si pongono in evidenza non soltanto i, pur limitati, successi – il riferimento, in particolare, è al riordino dell’assistenza –, ma anche le contraddizioni. Il secondo di questi momenti dà luogo al volume su Nord e Sud (Pugliese, a cura di, 2006), nel quale l’attenzione si sposta sui connotati dualistici del sistema italiano di protezione sociale, e dunque su una descrizione dettagliata degli squilibri che si determinano nella soddisfazione di bisogni e nel riconoscimento di diritti assicurati in linea teorica a tutti i cittadini del nostro Paese. Il terzo momento, che dà luogo ad un’estensione del campo di osservazione in prospettiva europea, è la definizione del modello mediterraneo di welfare: da ciò il titolo del volume che raccoglie i risultati di questa parte del processo, Un sistema di welfare mediterraneo (Ponzini, Pugliese, a cura di, 2008), sistema di welfare i cui connotati vengono sistematicamente descritti con riferimento a ciascuno degli ambiti principali della protezione sociale. A giudizio dei colleghi, Pugliese ha contribuito in modo decisivo sia alla definizione che alla realizzazione di questo processo di ricerca, concretizzando, nella funzione di curatore dei risultati dei diversi momenti di questo percorso, il suo ruolo di direttore scientifico dell’Istituto5.

Ma che cos’è di preciso il modello mediterraneo di protezione sociale? A questa domanda è possibile fornire una risposta guardando a due scritti più recenti, l’Introduzione di Ponzini e Pugliese al Rapporto IRPPS-CNR su Un sistema di welfare mediterraneo (Ponzini, Pugliese, 2008) e la relazione presentata dal nostro al convegno ESPANET di Napoli su Senza Welfare? Federalismo e diritti di cittadinanza nel modello mediterraneo, ed intitolata Modello mediterraneo di welfare e modello mediterraneo delle migrazioni internazionali (Pugliese, 2010). La strategia di analisi di Pugliese consiste nel rivendicare innanzitutto l’utilità del concetto di “modello” per delineare i connotati comuni ai sistemi di protezione sociale dei Paesi dell’Europa del Sud (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia). Ciò in particolare perché parlare di modello mediterraneo per un fenomeno come il sistema di welfare significa individuare aspetti del sistema che troviamo in tutti i Paesi e che sono propri di quei Paesi senza significative variazioni nel tempo che non vadano nella stessa direzione. In concreto si tratta di individuare in che cosa le politiche sociali che riguardano i Paesi del Sud d’Europa si distinguono dalle politiche sociali di altri Paesi per contenuti prevalenti, soggetti ai quali si indirizzano, modo in cui esse vengono praticate, origine delle risorse loro destinate (Pugliese, 2010, pp. 7-8).

Questi connotati comuni si possono essenzialmente riassumere ne: (1) la prevalenza, ed anzi la preponderanza, dei trasferimenti diretti di reddito in rapporto alla fornitura di servizi sociali; (2) il peso più che proporzionale delle prestazioni previdenziali in rapporto alle altre forme di beneficio; (3) il ruolo fondamentale che viene riconosciuto, più ancora che alla famiglia, alla retorica della famiglia e, più di recente, a quella della sua crisi, che comporta una crescente attenzione per le “solidarietà secondarie”; (4) la tardiva torsione in senso universalistico di alcuni comparti del sistema di welfare, in particolare la sanità (Ponzini, Pugliese, 2008, pp. XI-XIII). Ancora una volta ciò viene ricondotto ai connotati specifici della struttura e della dinamica economica e demografica, che soprattutto a partire dagli anni ’90 finiscono per intrecciare i caratteri del sistema di welfare con quelli propri dei movimenti migratori che interessano i Paesi in questione in maniera sempre più notevole – e qui è facile richiamare il fenomeno delle badanti per rendere esplicito un simile intreccio anche a chi non sia specialista di welfare o di migrazioni.

L’assistenza agli anziani è sempre più frequentemente fornita da lavoratrici straniere, la cui forza lavoro è acquistata sul mercato. Ma la spesa effettuata dalle famiglie in effetti è in parte, più o meno larga, ricompensata dallo Stato attraverso i versamenti per pensioni e sussidi (invalidità, accompagnamento) agli anziani. Questo complesso intreccio sostituisce forme forse meno costose di fornitura di servizi diretti da parte dello Stato (assistenza domiciliare e altro) come in altri Paesi sviluppati (Pugliese, 2010, p. 13).

Ma oltre a ciò va detto che in quest’ultimo scritto Pugliese evidenzia chiaramente il ruolo dell’eredità politica ed istituzionale comune a questi Paesi nel processo di sviluppo dei sistemi nazionali di welfare, un’eredità identificata peraltro in misura sostanziale nel recente passato autoritario (Pugliese, 2010, p. 8). In realtà ci sembra che l’avere riconosciuto l’importanza di fattori che attengono propriamente alla sfera politica segni un’ulteriore complicazione del sistema di osservazione, e dunque del modello causale che Pugliese colloca alla base dell’analisi dei processi sociali sotto indagine.

 

Note conclusive

Non ci è dato sapere quali sviluppi ulteriori riserverà il percorso intellettuale e scientifico di Pugliese. Ma non ci sembra dubbio che, anche in relazione ad un ambito di indagine relativamente periferico rispetto ai suoi interessi prevalenti di ricerca, Pugliese ha svolto un ruolo ed esercitato un’influenza positiva. Questo ruolo e questa influenza non si sostanziano soltanto nell’emergere e nel consolidarsi della presenza dell’IRPPS quale centro di ricerca importante, tra l’altro anche nel campo d’indagine delle politiche sociali. Ma anche in un contributo sostantivo all’analisi del sistema italiano e mediterraneo di welfare. Merito, questo, che Pugliese condivide con coloro i quali più hanno condiviso il suo approccio teorico ed i suoi metodi di lavoro in questo ambito, a partire dalla sua dichiarata predilezione per la ricerca del dato, per l’avvicinarsi il più possibile ad una realtà sociale da indagare con tanto più rigore quanto più era, ed è, oggetto di impegno politico e civile. Ci riferiamo qui soprattutto a Massimo Paci, ad Enzo Mingione e in maniera particolare ad Enrica Morlicchio.

In questa prospettiva, uno dei possibili modi di rendere esplicito il contributo di Pugliese allo sviluppo della ricerca sul welfare può consistere nell’esaminare il sistema di osservazione (schema metateorico) proposto per l’analisi in questione. Il punto di partenza è il modello dello Stato “comitato d’affari”, che appare proprio del marxismo tradizionale:

economia→interessi classe dominante→politica,

e che da sempre, e con giusta ragione, è accusato di riduzionismo economico – di “pensiero della semplicità”, per dirla con Morin: per quanto sia da riconoscere che il modello in questione è, paradossalmente, “più vero” oggi, di fronte all’offensiva neoliberista che rischia di smantellare il sistema europeo di welfare, di quanto non lo sia stato in un recente passato.

Rispetto a questo modello, il sistema di osservazione proposto negli anni ’70 da Gough e ripreso negli anni ’80 da Pugliese, oltre agli autori suindicati, si presenta già più articolato:

economia→sistema diseguaglianze→conflitto sociale→politica,

evidenziando come gli attori sociali che non appartengono all’élite non svolgano un ruolo puramente passivo nel processo che conduce alla definizione delle politiche, ma al contrario intervengano sviluppando “pressioni dal basso” che contrastano, modificano o addirittura innovano rispetto alle “riforme dall’alto”.

In rapporto a questo sistema di osservazione, le grandi scoperte degli anni ’90 – su cui Pugliese e collaboratori, non a caso, si soffermano a lungo – consistono innanzitutto nell’evidenziare il ruolo della struttura e della dinamica demografica nel condizionare i processi che intervengono a definire il mutamento dei sistemi di welfare. In secondo luogo, gli studiosi che condividono l’approccio in questione acquistano coscienza del fatto che il sistema a cui si riferisce il modello suindicato non è chiuso, non si arresta cioè ai confini politici dello Stato “nazionale”, ma è aperto all’influenza del contesto internazionale:

(demografia→economia→sistema diseguaglianze→conflitto sociale→politica)(i→n) ,

dove i simboli posti in apice indicano l’interazione tra i livelli internazionale e nazionale della dinamica descritta.

In questa maniera Pugliese, e quanti con lui condividono l’approccio in questione, risultano in grado non soltanto di descrivere, ma anche di spiegare il processo che conduce allo sviluppo, ed in seguito alla crisi, del modello mediterraneo di protezione sociale. Il percorso che abbiamo compiuto ci induce tuttavia a chiederci, in conclusione, se sia possibile complicare ulteriormente il modello in questione. Rispetto a ciò, una prima mossa è stata compiuta proprio di Pugliese allorché, nel suo scritto più recente, accenna al ruolo dell’eredità politica e istituzionale nel condizionare il processo di sviluppo dei sistemi di welfare. Abbiamo sopra notato che, per la prospettiva neomarxista occidentale che si ritrova da ultimo nell’approccio della regolazione sociale e politica dell’economia, lo Stato costituisce “sia un’arena che un attore” del conflitto sociale. In realtà il riconoscimento compiuto da Pugliese induce ad osservare che la politica è stata considerata, da questa prospettiva, molto più come un’arena che come un attore. Gli studiosi di welfare che muovono dall’appartenenza disciplinare della scienza politica, a partire da Ferrera, hanno compiuto numerosi passi addizionali in questa seconda, importante direzione. Ma forse ancora altro resta da fare, ad esempio – ma questa è soltanto una nostra opinione – nel qualificare gli interessi della classe politica e delle istituzioni religiose nel processo di “mutamento con riduzione” del welfare. Forse Stephen Liebfried (1992) o Giulio Sapelli (1996) non hanno tutti i torti nell’evidenziare il ruolo di questi fattori nel mutamento delle società dell’Europa mediterranea6.

In conclusione, muovendo “dalla semplicità alla complessità”, sempre per dirla con Edgar Morin, la prospettiva metateorica della political economy sembra avere ancora molto da dare quale contesto generale per analisi di fenomeni o di istituzioni sociali che siano dotate di un’impostazione materialistica, di una profondità storica e di un’estensione comparativa. Come è stato, del resto, per gran parte della scienza sociale classica. In questa prospettiva, il concetto di modello mediterraneo di welfare – alla cui definizione Pugliese ha tanto contribuito – emerge quale un risultato di riflessione e di ricerca destinato ad orientare ancora a lungo il lavoro di generazioni di studiosi.

 

 

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1 Da ciò l’etichetta di welfare capitalism, coniata appunto da Gough per inquadrare teoricamente le nuove condizioni sociali prodottesi dallo sviluppo della legislazione e degli interventi di protezione sociale, e che verrà poi ripresa da Gosta Esping-Andersen nel suo fecondo tentativo di fondere il percorso di ricerca neomarxista con quello tipologico rivolto ai modelli nazionali di welfare (Esping-Andersen, 1990, 2000).

2 Un insieme nell’analisi del quale il ruolo dello Stato è presentato – in accordo con una peculiare ricezione della teoria di Habermas sulla colonizzazione dei mondi vitali (Pugliese, 2010) – in termini tendenzialmente più negativi rispetto a quello svolto dai reticoli di solidarietà primari e secondari. In questi ultimi si fa ricadere anche l’operato delle istituzioni religiose e delle agenzie di beneficenza tradizionali.

3 Mingione, in particolare, si dedica a sviluppare un approccio all’analisi delle formazioni sociali del capitalismo maturo nel quale si ricerca, da una parte, la connessione tra il globale e il locale – tra lo sviluppo del capitalismo globale e quello dei singoli Paesi –, dall’altra l’interdipendenza tra i momenti della produzione, della riproduzione, della regolazione sociale del capitalismo (Mingione, 1998).

4 Sveva Avveduto ci segnala, ad esempio, la partecipazione di Pugliese al panel di discussione del convegno dell’OCSE su Fostering the Development of Human Resources for Science and Technology, tenutosi a Roma nel 2003 e da lei organizzato; e il suo intervento quale relatore al Workshop di un gruppo di lavoro OCSE, sempre da lei presieduto e tenutosi a Parigi nel 2005, su Changing Supply and Demand for Science and Technology Professionals in a Globalized Economy.

5 Il ruolo di Pugliese nella Sezione di analisi delle politiche sociali dell’IRPPS è evidente anche nella scelta del tema del successivo Rapporto sullo Stato sociale in Italia, dedicato all’immigrazione (Ponzini, a cura di, 2012). A quest’opera il nostro, che è rimasto associato all’Istituto anche dopo il termine del suo mandato quale direttore, ha dato un contributo con un saggio sul lavoro dei migranti in agricoltura (Pugliese, 2012).

6 Un’altra direttrice di sviluppo può consistere, a nostro avviso, nel prendere in esame il ruolo del contesto ecologico nell’influenzare alcune delle variabili sopra indicate. Ad esempio, nel suo libro più recente Gallino (2012) menziona il tempo, la fatica e il costo della mobilità territoriale per motivi di lavoro quale fattore significativo nel produrre ineguaglianza, e dunque conflitto, tra le classi. In un contesto storico sociale distinto da diffusi processi di conurbazione e di suburbanizzazione, ciò potrebbe costituire il substrato di un’analisi orientata a cogliere i nessi tra simili problematiche, la riproduzione sociale dei ceti medi e delle classi lavoratrici e i programmi di welfare, un’analisi che invece ci sembra carente. Per non parlare, poi, delle diseguaglianze – e quindi dei bisogni sociali e delle domande politiche – che nascono intorno alla questione dell’inquinamento ambientale, un tema tra l’altro che appare di grande rilievo proprio nelle regioni del Sud.

 

 

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