Cristina Biondi: 25 Nuovo dizionario delle parole italiane. Da “Le donne, i giorni, i fini e i mezzi” a “Chiusura”

| 24 Marzo 2020 | Comments (0)

LE DONNE, I GIORNI, I FINI E I MEZZI

Un tempo venivamo al mondo per la maternità, vezzeggiate o ignorate dal padre e introdotte alle oscure complicazioni del nostro ruolo da madri che dalla notte dei tempi avevano vissuto all’ombra del mondo maschile. Allora il giorno del matrimonio era un gran giorno, la dote era fatta di un’infinità di lenzuola (se la famiglia ne aveva i mezzi), parenti, amici e conoscenti regalavano piatti e tazzine (i servizi da tè da dodici si conservavano intonsi sino all’estrema vecchiaia). I giorni del parto venivano ricordati in quanto compleanni dei figli, dal momento che una sola nascita restava nel ricordo collettivo per quello che era stata, conservando un’aura di mistero, miracolosamente preservata dal pessimismo insito nella storia del mondo (il presepe veniva allestito e smontato nel giro di un mese). I giorni del vivere quotidiano erano modesti e operosi (se la famiglia aveva i mezzi ci si avvaleva di figure ancora più modeste per le mansioni ripetitive e umili) e noi ricamavamo per ingannare la noia.

A volte con discrezione provvedevamo a innestare in modo imprevisto l’albero genealogico della nostra famiglia, che da allora avrebbe dato frutti su quel tipo di ramificazioni secondarie definite nel linguaggio triviale “corna”.

Poi ci siamo documentate sui giorni fertili e quelli no (forse no) e, se la famiglia ne aveva i mezzi, abbiamo studiato. Abbiamo affrontato i giorni lavorativi: all’inizio le nostre ambizioni erano ambizioni da maestrine, poi le infinite complicazioni incontrate fuori casa ci hanno fatto desiderare il potere, ancor prima di sapere che sapore avesse. Tutti i gusti sono gusti e tra noi c’è chi ha fatto carriera perché la famiglia l’aveva dotata di larghi mezzi e chi si è assicurata i mezzi sufficienti a distruggere la propria famiglia, prima che la famiglia distruggesse lei.

 

ALLATTAMENTO AL SENO

È innegabile che nel latte materno ci siano sostanze psicotrope. Per tanti piccoletti il latte è poco digeribile perché veicola i mediatori chimici di situazioni esistenziali ingarbugliate che fanno male al pancino. C’è di che strillare per ore, l’alternativa è ciucciare avidamente sino a ridursi in coma, abbandonandosi a un sonno profondo.

Meno male che hanno inventato il latte artificiale, addizionato di vitamine ed enzimi digestivi, non c’è da meravigliarsi poi della diffusione degli psicofarmaci e di qualsiasi alternativa al cibo naturale, addizionata di questo e anche di quest’altro.

Il latte migliore è quello di donne giovani e ingenue, di mamme dai seni rosei e dai pensieri gentili.

È buonissimo anche quello delle pluripare, professioniste della maternità, assomiglia abbastanza al latte di mucca, sa evitare le contaminazioni con inquinanti ambientali derivati dall’attività maschile, tanto nel campo della chimica, quanto nel campo dell’industria bellica.

Le vere novità vengono dalla formazione professionale delle donne e la situazione è troppo complessa per venir inquadrata secondo i criteri della scienza. Quale indagine potrà mai cogliere le differenze sostanziali tra il latte di un’avvocatessa (che per di più si presenta come avvocato), di una dottoressa (che si presenta come medico), di una commercialista (anche i suoi colleghi si definiscono commercialista, commercialisti al plurale), di una giornalista (anche gli uomini si presentano come giornalista, giornalisti al plurale)? C’è una scarsa propensione degli adulti ad assaggiarlo, quindi qualsiasi variazione di sapore verrà ignorata dai ricercatori. Un tempo non si conosceva il sistema immunitario, quindi non veniva valorizzato il contenuto di anticorpi del latte materno, e, se oggi l’attenzione è focalizzata sulla prevenzione delle malattie infettive, in futuro verrà preso in considerazione il trasferimento di esperienze esistenziali complesse. Così complicate che sarà necessario studiare perché tanti neonati non si attacchino al seno e pretendano di venir nutriti sin dai primi giorni col biberon.

 

RAZZA E DINTORNI

Oggi sostenere che esistano le razze umane non è politicamente corretto, non è nemmeno plausibile secondo le evidenze della genetica; in ogni caso i colori esistono ed esistono anche le diversità. Non vorrei che si scivolasse in uno stucchevole buonismo, che venissero disconosciuti i cortigiani, vil razza dannata, o che venisse punito penalmente chi apostrofa “Razza di idiota!” l’autore di un grosso guaio. Purtroppo le razze umane sono esistite a lungo come concetto indubitabile, sono state oggetto di teorizzazioni, sono comparse su montagne di carta, sono state introdotte in leggi, proclami, teorie, hanno inquinato conversazioni e lezioni scolastiche e sono state persino oggetto di spiegazioni date a creature innocenti come i bambini ai loro primi passi.

Purtroppo certi concetti, pregiudizi, discriminazioni sono duri a morire, che siano nati è evidente a tutti, come effetto collaterale delle gravidanze plurime della mamma dei cretini (e il papà? che geni ha trasmesso il padre a queste creature portatrici d’infelicità?). Sicuramente tutti gli umani sono della stessa specie, essendo in grado di accoppiarsi tra loro e produrre prole fertile (oggi poco incline alla riproduzione, ma pur sempre fertile), mentre l’esistenza della razza è una fake news, indice solo della propensione degli appartenenti alle sedicenti razze ad accopparsi tra loro.

 

I GIOVANI DI UN ALTRO PIANETA

La differenza tra umani e alieni è sempre più evidente: crolla il Pil, il morbo infuria e anche se il pane non ci manca, qualsiasi politico, virologo, padre di famiglia, giornalista e infermiere si rivolge alla macchina fotografica per comunicare: manifesta qualcosa, dalla calma alla preoccupazione, dall’attivismo alla dedizione. Appartiene al nostro pianeta ed è espressivo, mentre quando girate la pagina della rivista lo sguardo si sposta sugli alieni: belli, inespressivi, carnagione cerea, occhi ai quali un trucco sapiente dà una parvenza di profondità, mentre lo sguardo è vitreo.

Fanno da sfondo barche a vela, sete e broccati, cavalli, marmi, statue, scogli in mezzo al mare.

Se vi vestirete come loro, se userete gli stessi profumi sarete ammessi sulle astronavi (un tempo jet set) per condividere il loro mondo. L’unico problema è che il carburante delle loro navette stellari è sotto il controllo delle sette sorelle: io le ho sempre immaginate tutte vestite di nero, come donne saudite, ma con barba e baffi (una è bionda, ma pur non avendo una capigliatura naturale, non ha l’algida grazia delle creature aliene).

 

ARRESTI DOMICILIARI

Arrestarsi: forma riflessiva del verbo (quindi: provvedimento preso a seguito di riflessione). Non è necessario fare mea culpa, è sufficiente considerarla una decisione che non abbia nulla a che fare con un provvedimento punitivo: arrestarsi significa smettere di andare avanti, così come fermarsi non rimanda necessariamente al fermo di polizia.

Restrizione della libertà senza colpa: momento di riconoscimento dell’umana fragilità, possibilità di negarsi agli altri senza egoismo: sono un’anziana a rischio, per me la pericolosità di virus e batteri non è una novità, potrei soccombere anche a un banale (ma non tanto) streptococco, a un pneumococco e persino all’influenza. In veneziano si direbbe: “con un supion va in rebalton” (basta un soffio per rovesciarsi).

In laguna il fondale è basso è più facile incagliarsi in una secca che essere rovesciati da un’onda, ma ci fu un tornado, l’11 settembre (giorno sfortunato per antonomasia) 1970, che capovolse un battello grande e grosso, imperversando prima e dopo su tutto ciò che incontrò sulla sua strada.

È difficile capire se per un grande anziano o per un malato il desiderio di sopravvivere, ancora e ancora, sia accompagnato da egoismo oppure no, di certo nessuno sa rispondere alla domanda, così frequente da essere, prima o poi, formulata da tutti: “ma io cosa ci sto ancora a fare?”

 

A CASA

Certo, stiamo a casa, come è prudente, logico e necessario. Stare a casa è bello, tra gli sponsor della vita in pantofole ci sono gli attori che ci stanno più simpatici: i massimi rappresentanti delle forze del Bene. Ci parlano dal telefonino, deve essere evidente che davanti a loro non c’è una troupe di decine di persone tra cameramen, truccatori e registi. C’è chi ha sulle ginocchia un libro, delle dimensioni di un volume illustrato, un tomo abbastanza ponderoso, ma non troppo da spaventare chi di solito non legge. Il mantra “state a casa” compare ovunque, col rischio che venga recepito come fosse l’ennesima pubblicità dell’ennesimo materasso che nessuno acquista.

Stare a casa non sarebbe poi così difficile se a casa non ci fossero i nostri familiari, possibili fonti di contagio e contagiabili a loro volta. Certo le madri sino ad ora, lavorando, non hanno avuto la possibilità di aiutare i figli a fare i compiti, i padri hanno finalmente il tempo per fare un paio di piccole riparazioni e soprattutto c’è l’occasione per stare insieme, parlarsi; solo i novantenni riescono a stare dodici ore al giorno davanti alla televisione: cos’è l’ennesima pubblicità dell’ennesimo materasso di fronte all’eternità? L’epidemia ha reso la famiglia un nucleo momentaneamente indissolubile, ma nessuno ci vieta di fare progetti più rosei per il futuro.

La nostra società potrebbe reggere all’urto recuperando una mentalità religiosa e rassegnandosi all’indissolubilità (momentanea) dei vincoli familiari. In futuro ci aiuterà a vivere uno stuolo di nuovi santi: i medici, tutti martiri come la legione Tebana, gran parte delle insegnanti, per la grande abnegazione dimostrata nel dare i voti, e anche un buon numero d’idraulici, scelti tra quelli non troppo esosi.

 

PREPARIAMOCI

Il premier inglese ha esortato: “Preparatevi a veder morire i vostri cari”. Dopo aver fatto il gesto apotropaico che preferisco, inizio un dialogo mentale con un essere che ai miei occhi è più vicino a un alieno che al nostro primo ministro. Certo che mi preparo, ma mi preparo a morire: sopra i 65 anni, affetta da un paio di patologie croniche, non penso ai miei cari ma a me stessa (vi sembra egoismo questo?), tutto il resto forse mi troverà impreparata, senza che ci sia una gran differenza tra le due situazioni, ammettere la propria fragilità comporta anche la previsione di trovarsi indifesi davanti al peggio. Non dico che prima del coronavirus mi sentissi già pronta a defungere alla spicciolata, per conto mio, ma col tempo la prospettiva era quella, per i forti come per i deboli.

Non accetto però che sin da ora qualcuno si rivolga solo ai futuri sopravvissuti, che i politici siano già pronti a posare corone ai piedi dei monumenti ai caduti, a partecipare a riti religiosi, vestiti di nero, in giacca e cravatta. Gli ipocriti, come gli impresari delle pompe funebri, chiamano i nostri parenti “i vostri cari”, cioè buonanime, e intanto si limitano ad augurarsi che sopravviva la parte sana del paese.

 

CHIUSURA

Tra i nostri familiari c’è chi è chiuso dentro e chi è chiuso fuori. Quelli chiusi fuori sono i nostri cari, con quelli chiusi dentro con noi c’è da giocare una partita un pochino complicata. È finalmente arrivato il momento di parlarsi, di aprirsi, di cercare una confidenza impossibile in un mondo dominato dalla fretta? Ragioniamo: non è forse per prudenza che siamo chiusi in casa? È opportuno essere prudenti anche all’interno delle mura domestiche e tenere la bocca chiusa: quando le famiglie erano patriarcali e si conviveva con suoceri e suocere, cognati e cognate e decine di ragazzini e pargoli di ogni età le donne stavano molto zitte, i bimbi non fiatavano, gli uomini non si occupavano dei sentimenti (argomento ai quei tempi metafisico) e l’unico vero problema era se c’era da mangiare per tutti.

Non è detto che si debba essere retrogradi: abbiamo a disposizione tutto lo scibile umano per decidere se essere freudiani e uccidere il padre per sposare la madre (ai tempi di Edipo le donne partorivano giovanissime, oggi un adolescente freudiano rischia di rivolgere il suo desiderio a una sessantenne che potrebbe essere sua nonna, mentre il parricidio è allettante esattamente come un tempo) o se essere confuciani, rispettando le gerarchie, onorando i fratelli maggiori, il padre, il nonno, il funzionari del distretto, i dirigenti del distretto, della provincia, della regione, del partito e l’imperatore. Il coronavirus è stato affrontato in Cina enfatizzando il ruolo positivo del capo dello stato, mentre Edipo è finito in disgrazia proprio per il suo desiderio di capirci qualcosa della pestilenza a Tebe, quindi io opterei per una pace domestica basata sul rispetto delle gerarchie, evitando ogni insubordinazione, ogni confidenza pericolosa, tacendo quelle verità che rischiano di creare una crisi nella crisi.

Category: Donne, lavoro, femminismi, Libri e librerie, Osservatorio internazionale, Welfare e Salute

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