Sabrina Ardizzoni, Maria Omodeo: L’istruzione dei sinodiscendenti nelle scuole italiane. Tracce e percorsi

| 22 Ottobre 2022 | Comments (0)

*

Pubblichiamo da Sinosfere  ( www.sinosfere.com ) del 16 ottobre 2022, con la gentile autorizzazione della rivista e delle autrici.

1. Tracce

Come sappiamo da numerose ricerche, presentate anche in questo numero di Sinosfere, la migrazione cinese in Italia ha compiuto ormai più di cento anni. Più “giovane” rispetto ad altri paesi europei, si tratta comunque di un’immigrazione che è oggi alla quarta/quinta generazione. Ogni fase presenta delle caratteristiche precise, e in questo contributo individueremo alcune tappe importanti nell’analisi del fenomeno immigratorio e della presenza nelle scuole italiane di alunne e alunni di origine cinese, che, in realtà, è un fenomeno relativamente recente.

Attraverso la nostra esperienza di mediatrici, educatrici, formatrici e insegnanti nelle scuole, abbiamo individuato alcuni nodi problematici che a nostro avviso hanno caratterizzato – e in parte caratterizzano ancora oggi – dei punti cardine nell’inserimento scolastico degli alunni e alunne di tale provenienza e delle loro famiglie. Di questi ripercorreremo alcune tappe storiche, che prendono in considerazione, sia pure in modo sintetico, come e quanto il fenomeno migratorio dalla Cina abbia inciso nelle pratiche della scuola italiana nel suo complesso.

La prima tappa che prendiamo in considerazione è il 1990, anno in cui in Italia è entrata in vigore la cosiddetta Legge Martelli, che attraverso il ricongiungimento famigliare ha consentito ai lavoratori già presenti sul territorio di chiamare con sé i propri figli.

In questa fase, a partire dal 1991, il gruppo nazionale cinese ha cominciato a essere inserito nelle statistiche tra le prime dieci comunità straniere in Italia. Data l’universalità della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, approvata dalle Nazioni Unite nel novembre 1989 e ratificata anche dall’Italia nel maggio del 1991, i bambini e le bambine che arrivavano dai rispettivi paesi d’origine venivano subito iscritti a scuola, indipendentemente dal loro status giuridico, ossia indipendentemente dal fatto che la loro presenza e quella dei loro genitori fosse o meno regolare nel territorio italiano. Questi primi arrivi, che all’epoca sembrarono “massicci” anche se coinvolgevano ancora solo pochi territori, spinsero tante scuole a sperimentare strategie d’inclusione scolastica e di insegnamento dell’italiano, spesso anche estremamente innovative, esperienze che in generale hanno lasciato un’impronta basata su un approccio interculturale anziché meramente assimilazionista, come andava invece affermandosi in altri paesi europei.

Qualche anno dopo, la legge Turco-Napolitano (40/1998) ribadì il diritto non solo al ricongiungimento famigliare e alla salute, ma anche all’istruzione dei minorenni in età di obbligo scolastico provenienti da paesi extraeuropei, ancora una volta indipendentemente dal loro status giuridico.

La seconda tappa è stata la prima di una serie di sanatorie, le più consistenti delle quali sono state quella del 2002 e del 2009, all’interno della cosiddetta Legge Bossi-Fini. Queste sanatorie, insieme alle procedure previste dal decreto flussi per l’assunzione annuale di colf e badanti del 2006, e successivamente del 2012, riproposta poi anche in anni successivi, nel tempo hanno permesso di regolarizzare la posizione lavorativa e famigliare di oltre un milione e mezzo di persone in Italia. Nel 2019, i cittadini di nazionalità cinese regolarmente residenti in Italia sono passati dai 12.998 del 1991 a 216.036, e nella statistica della popolazione straniera occupano il terzo posto.

A fronte di queste ondate migratorie, la scuola, via via coinvolta nell’accoglienza di un gran numero di alunni e famiglie portatori di altre lingue e varietà culturali, ha messo in campo risorse d’ogni sorta, cercando collaborazioni col territorio, per poter adempiere al meglio al nuovo compito di formare nuovi cittadini con nuove ricchezze culturali.

La già citata Legge Turco-Napolitano richiedeva alle scuole di individuare delle prassi, delle abitudini, dei protocolli da diffondere nelle scuole in tutta Italia, e ha anche allocato delle risorse di sostegno per azioni di accoglienza tra scuole e territori. Le scuole, nel nome dell’autonomia scolastica entrata in vigore nel 2000 e con l’introduzione del POF (Piano dell’Offerta Formativa) hanno potuto gestire queste risorse a seconda delle proprie situazioni specifiche e sperimentare diverse forme di accoglienza. Nel testo della Legge varata nel 2002 dal Ministero dell’Istruzione e Ricerca (MIUR), fra gli altri elementi si rileva che sempre più alunni di diversa lingua madre e provenienza geografica vanno via via iscrivendosi anche alle scuole secondarie di secondo grado, a dimostrazione del diffondersi di pratiche positive.

Nel 2006 il MIUR emana le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (CM 1 Marzo 2006), fornendo direttive e suggerimenti per l’accoglienza dei bambini con cittadinanza straniera, per la valorizzazione delle competenze pregresse, per la valutazione formativa e sommativa degli apprendimenti, ma soprattutto mettendo in evidenza la rilevanza di un’educazione interculturale, non solo per i bambini figli di famiglie di diversa provenienza geografica, ma per tutti, autoctoni compresi.

Bisognerà però aspettare le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del 2014 per trovare statistiche in cui il MIUR possa evidenziare che accanto alla sempre crescente varietà che caratterizza le presenze degli alunni e delle alunne con cittadinanza non italiana o con cittadinanza italiana ma d’origine straniera (seconde generazioni, figli di coppie di diversa origine geografica o linguistica, ad esempio), iniziano finalmente a esserci anche iscrizioni a livello universitario di studenti originari di altri paesi ma cresciuti in Italia (si deve qui però sottolineare che per gli studenti e le studentesse sinofoni si tratta ancora di numeri ancora molto limitati).

La situazione nelle scuole sopra delineata si è sviluppata a macchia di leopardo nel territorio italiano, determinata da una parte dalla presenza di minori con cittadinanza straniera (qui ci riferiamo agli alunni e alunne provenienti dalla Cina o – benché nati in Italia – con cittadinanza cinese), concentrata in particolare in alcuni territori. Tra le prime a essere interessate dal fenomeno di una consistente presenza di alunne e alunni sinofoni, sono state le scuole della Toscana, della Lombardia, del Piemonte, e poi Veneto, Emilia-Romagna e Lazio, ma presto sono state coinvolte anche altre regioni, come la Campania e la Sicilia.

All’interno delle regioni, alcune città e alcuni quartieri sono stati interessati più di altri dal fenomeno, per cui hanno avuto la possibilità di sperimentare e fissare delle strategie ad hoc che sono state poi trasferite ad altre, a livello sia nazionale che europeo, mentre altre ancora sono rimaste negli anni sempre in fase di sperimentazione. Quando nel 2014 il legislatore sente la necessità di emanare le ulteriori Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri sopra citate, nelle quali ribadiva il diritto allo studio dei bambini e delle bambine di origine straniera, l’avviamento di percorsi integrati tra scuola e territorio, la necessità di riconoscimento di titoli di studio pregressi, veniva riaffermato che l’inserimento scolastico dei nuovi arrivati deve avvenire sulla base dell’età e non del percorso scolastico precedente l’ingresso in Italia.

Come accade spesso in diversi settori, quindi, il legislatore in termini di inserimento, accoglienza ed educazione di bambini di origine straniera e di educazione interculturale, si presenta con delle linee teoriche molto avanzate, alle quali si affiancano però delle realtà molto diversificate.

Oggi circa il 40 % degli alunni con nazionalità cinese è nato in Italia ed entra nel mondo dell’istruzione già nel primo anno della primaria o nella scuola dell’infanzia; eppure, ritardi scolastici, insuccessi e abbandoni appena fuori dall’obbligo scolastico o appena compiuti i 18 anni sono fenomeni percentualmente ancora ricorrenti nella scuola italiana, anche se in diminuzione. Si tratta di aspetti che portano la scuola a dover affrontare una riflessione profonda: quali supporti specifici vanno forniti al bambino sinofono in fase di primo ingresso; di cosa si deve tenere conto nella fase della valutazione formativa e sommativa; in quale modo si possono creare momenti di dialogo e interazione con le famiglie, nel rispetto degli obiettivi e delle prospettive della famiglia e della conciliazione di queste con gli obiettivi e le aspettative dello studente, a volte non coincidenti; quali strumenti vanno attivati per favorire l’accesso agli studi universitari fra coloro che completano con successo il percorso della secondaria superiore.

Pare utile ripercorrere qui alcune riflessioni che ci descrivono lo stato attuale delle conoscenze.

2. Un difficile superamento degli stereotipi e l’individuazione dei problemi

Durante gli anni precedenti agli ’80, la visione stereotipata della persona proveniente dalla Cina era dominante nell’immaginario degli italiani. “Cinesino” era l’appellativo che veniva attribuito anche ai cinesi di prima generazione “e mezza”, ossia i figli di coloro che erano arrivati in Italia poco prima – o poco dopo – la Seconda Guerra Mondiale. Ancora oggi, tra di loro resta vivo il ricordo di come venissero chiamati con questo epiteto, per il loro aspetto fisico, anche se la loro origine era, di fatto, mista, avendo spesso la mamma italiana.1)

“Cinesino” però, secondo il vocabolario italiano, oltre a essere diminutivo di “cinese” è anche il “nome dato alle colonnine gialle, sormontate da una lampada, accesa nelle ore notturne, che delimitano le piste negli aeroporti …”.2) Questo indica come la referenza del termine oscilli tra la descrizione delle caratteristiche fisiche e il vezzeggio, in un termine fortemente discriminatorio e, in una logica di sociolinguistica, marcatore di interazione asimmetrica.

Nella scuola, tuttavia, questa definizione, a detta dei “cinesini” di quella generazione, portava anche qualche vantaggio, in quanto il termine aveva indiscutibilmente dei risvolti vezzeggiativi, in certa misura positivi.

Quando sono arrivati i bambini dalla Cina, a ondate, nel decennio 1990-2000, con ingressi numericamente importanti e in qualsiasi momento dell’anno, nei loro confronti esisteva una serie di stereotipi positivi, a differenza di quanto avveniva spesso nei confronti di bambini provenienti da altre parti del mondo extraeuropeo o europeo. Anche le esperienze positive di scolarizzazione di bambini di origine cinese in altre parti del mondo erano segnali incoraggianti per le scuole italiane: sia in paesi anglofoni, come l’Inghilterra, il Canada, gli Stati Uniti, sia in paesi di altre lingue, ma con più lunga esperienza di accoglienza di bambini migranti dalla Cina, come Francia e Germania, l’alunno cinese era sempre visto come diligente, educato, ma anche tenace, con un termine oggi di moda potremmo dire “resiliente”. Inoltre, in molti casi, a livello internazionale venivano, e vengono tutt’oggi, presentati i successi di studenti di origine cinese in campi specifici, come la matematica o altri ambiti scientifici, con uno stereotipo “positivo”, non sempre realista.

Insomma, il “cinesino” faceva tenerezza, ma trovava anche degli spazi propri, di sicuro successo.

Nella realtà italiana, però si presentano situazioni molto diverse. Ben presto, all’interno delle pareti scolastiche, sono emersi i primi nodi, per cui il “cinesino” ha cominciato a risvegliare delle problematiche a cui la scuola italiana, e nemmeno il mondo della sinologia, aveva mai attribuito troppa importanza. Prima fra tutte, quella della comunicazione scuola-famiglia.

Data la distanza tipologica tra la lingua italiana e la lingua cinese, e data la scarsa famigliarità che il personale scolastico aveva con le lingue non indoeuropee, e, in particolare, con la cultura di provenienza delle famiglie cinesi, l’accoglienza, il coinvolgimento dei bambini nella realtà scolastica e il loro inserimento nella comunità di apprendimento, finanche alla comunicazione scuola-famiglia hanno richiesto fin da subito il coinvolgimento di mediatori linguistici e culturali. Chi dovevano essere i mediatori? Membri della comunità cinese, oppure italiani che per questioni biografiche avevano le competenze linguistiche e di conoscenze che permettevano loro di fungere da ponte? In entrambi i casi il timore era che i messaggi veicolati non fossero sufficientemente equilibrati. La sfida era proprio quella di individuare dei mediatori, capendo quali dovessero essere le loro caratteristiche, le loro competenze, le loro posizioni all’interno della scuola o della comunità. Il mediatore, infatti, doveva essere una persona che, occupando posizioni di equa distanza tra la comunità accogliente e quella migrante, fosse in grado di trasmettere agli uni e agli altri i bisogni, le aspettative, e anche le tecnicalità dell’interlocutore. E raccogliere la fiducia da entrambe le parti. La scuola, infatti, e il mediatore, di riflesso, viene chiamata sovente ad affrontare questioni famigliari o sociali che esulano dall’ambito scolastico, ma coinvolgono il minore, come diatribe famigliari, fughe, rifiuti, successi e insuccessi del gruppo famigliare. I mediatori, per le famiglie, ma anche per le scuole, si trovano spesso a raccogliere richieste (non sempre realistiche) o lamentele e a doverle redistribuire, ricalibrare in una dimensione razionale.

Alcune richieste da parte delle scuole erano di difficile realizzazione da parte delle famiglie cinesi, data anche la realtà sociale di precarietà che vivevano e che al mondo della scuola era spesso sconosciuto, salvo le poche – non sempre positive – notizie che trapelavano dalla cronaca. Le dinamiche sociali della comunità migrante cinese, in quegli anni, hanno cominciato a essere fotografate da alcuni lavori di inchiesta da parte di sinologi, sociologi e attivisti di sindacati, ONG e organizzazioni di volontariato.3) Tali dinamiche, in atto nella comunità degli adulti, trovano poi un preciso riflesso nelle relazioni tra i bambini nelle classi. Pensiamo, ad esempio, all’utilizzo dei bambini e delle bambine precedentemente inseriti a scuola, e quindi più competenti in italiano, come mediatori/traduttori per i bambini e le bambine neo-arrivati, o addirittura come interpreti tra gli insegnanti e le famiglie. Una pratica, questa, che, pur essendo stata denunciata come negativa sia da numerosi studi sia dagli “ex-bambini” a distanza di anni, non è stata abbandonata del tutto nemmeno oggi. In alcuni casi si trovano bambini provenienti da famiglie che possono presentare delle problematiche diverse, anche di relazione tra di loro o tra gli adulti dello stesso contesto comunitario, costretti in un’interazione mediata, senza la garanzia che i due punti cardine della mediazione siano rispettati: la certezza che il traduttore stia veicolando i messaggi correttamente e una fiducia reciproca delle parti in termini di privacy.

Oltre al nodo del bambino-mediatore, una problematica – che oggi appare in via di soluzione – è il fatto che, nonostante la citata direttiva del 1998, l’inserimento scolastico dei neo-arrivati viene ancora oggi effettuata con un ritardo rispetto all’età. In Cina, prima del 2014, nelle campagne l’età di inizio della prima classe era prevista a 7 anni; in taluni casi, date le condizioni oggettive della famiglia, alcuni bambini erano inseriti anche a 8 anni. Per molte bambine e bambini, i percorsi migratori irregolari, spezzati in diversi trasferimenti a volte anche in paesi diversi, avevano fatto sì che molti alunni arrivassero con una scolarità irregolare e una preparazione non adeguata al livello della classe di inserimento. Sulla base di tali ricorrenti situazioni, fino al 2015 circa, erano frequenti gli inserimenti di bambini di 8 anni alla primaria nella classe prima, anziché, come indicato già dalla normativa del decennio precedente, nella classe corrispondente all’età o al massimo un anno indietro. In modo simile, anche gli alunni più grandi d’età si sono spesso ritrovati in classi di vari anni indietro, con compagni con i quali era difficile socializzare anche per questa ragione.

Dall’inserimento tardivo derivano altri nodi problematici di cui si vedono le conseguenze sul lungo termine: il ritardo e l’abbandono del percorso scolastico. L’inserimento ritardato, spesso accompagnato anche da bocciature, si manifesta nei frequenti abbandoni da parte di studenti e studentesse di origine cinese. In tutto il territorio italiano è evidente la scarsa presenza di studenti negli ordini di scuola superiore, anche nelle aree in cui c’è una loro presenza consistente negli ordini di scuola inferiore. Questo non è un problema che colpisce solo la popolazione scolastica di origine cinese, ma anche altre comunità straniere. Le scuole, infatti, benché si attrezzino con l’estensione dell’istruzione linguistica degli studenti di origine straniera non solo nelle prime fasi di arrivo, per lo sviluppo della lingua della comunicazione, della socialità (A1, A2, o BICS Basic Interpersonal Communicative Strategies), ma anche per un’educazione linguistica permanente, di supporto a studenti con un livello di italiano superiore (B1, B2, C1, C2), per lo sviluppo delle competenze linguistiche necessarie allo studio delle materie scolastiche (CALP Cognitive Academic Linguistic Processing – spesso chiamate “italstudio”), raggiungono anche qui risultati molto diversificati. Il ritardo scolastico e l’ostacolo linguistico, oltre ad altri fattori, contribuiscono all’aumento della probabilità di abbandono da parte di adolescenti sinofoni.

Vale la pena qui fare una considerazione di tipo culturale.

Le famiglie cinesi, per tradizione culturale, attribuiscono grande importanza all’istruzione e ritengono che il successo scolastico di un membro della famiglia fornisca una chiave importante verso il successo economico e la rivalsa sociale di tutta la famiglia. Quando un bambino o una bambina dimostrano buona volontà e grazie al loro impegno raggiungono buoni risultati, riconosciuti dalla scuola, tutta la famiglia, indipendentemente dalle condizioni economiche, contribuisce al sostegno del suo percorso scolastico. Frequenti sono i casi in cui le capacità e la volontà di bambini o bambine provenienti da famiglie poco scolarizzate, di immigrazione recente, anche in condizioni di svantaggio sociale, sono riconosciuti sia dalla scuola, che mette in atto tutte le strategie e le risorse possibili per sostenerli, sia dalla famiglia, che, nonostante le difficoltà economiche e logistiche valorizza il loro proseguimento gli studi. Il successo scolastico di questi studenti ha poi effettivamente portato a un risollevamento dell’intero nucleo famigliare.

In altri casi, studenti o studentesse che non si sono dimostrati particolarmente diligenti, e i cui insegnanti non hanno calibrato con equilibrio gli obiettivi didattici e le valutazioni, avendo incontrato frequenti insuccessi nella carriera scolastica, sono stati esclusi dalla scuola e inseriti nel mondo professionale, sempre con l’aiuto della famiglia e della comunità. In questo aspetto possiamo sottolineare una certa rilevanza nella differenza di genere. Si tratta infatti più spesso di giovani donne che presentano un rendimento scolastico migliore di quello dei colleghi maschi, e che raggiungono i livelli più alti di scolarizzazione.

3. Percorsi: il valore del bilinguismo e buone prassi

Molti genitori d’origine cinese lamentano il fatto che la scuola, già a partire dal livello della materna, si pone degli obiettivi troppo limitati per i loro figli: educatori edinsegnanti, per la preoccupazione di non essere capiti dai loro alunni di famiglia sinofona o spinti dal desiderio di non umiliarne gli sforzi, nella maggior parte dei casi non stimolano i bambini a mettersi seriamente in gioco per acquisire un uso dell’italiano adeguato, sia per la socializzazione, sia per lo studio. Una maestra che si trova di fronte un bambino, anche di appena tre anni, dagli evidenti tratti somatici estremo-orientali, tende a rallentare il ritmo dei propri enunciati, a semplificare la frase e a diminuire il numero delle parole, pensando così di aiutarlo. Tale comportamento, che può aver luogo perfino se il bambino o la bambina ha già frequentato il nido e parla in italiano come un coetaneo autoctono, nell’insegnante è senz’altro determinato da buone intenzioni, ma finisce per far percepire al bambino non solo di essere diverso, ma anche che le aspettative nei suoi confronti sono diverse, e a queste aspettative è spinto ad adeguarsi.

La lingua familiare e quella della scuola e della società vengono sovente percepite dagli insegnanti come fossero in concorrenza fra loro; in un paese tanto tendenzialmente monolingue quale è l’Italia, è timore diffuso che la precoce esposizione di un bambino al bilinguismo possa comprometterne la futura padronanza della lingua italiana. Alle famiglie e ai diretti interessati vengono quindi spesso dati messaggi contraddittori: ai genitori viene chiesto di parlare in italiano a casa (anche quando la padronanza dell’italiano non è impeccabile) e ai bambini viene implicitamente evidenziato che esiste una scala gerarchica di potere delle lingue, quando ad esempio si vieta loro di parlare a scuola la lingua d’origine con fratelli, cugini, amici della stessa L1, perfino nei momenti più informali come quello della ricreazione.

Certo, per gli insegnanti è estremamente complesso bilanciare gli input linguistici per non porre l’alunno di diversa L1 in una frustrante situazione di eccessive difficoltà, né in una demotivante situazione di ripetitiva fraseologia mirata a incentivare solo una socializzazione con compagne e compagni autoctoni, bloccata proprio dalla mancanza di parole per esprimere comuni interessi e attivare un dialogo fra pari.

D’altronde, la maggior parte delle famiglie di lingua cinese aspirano a far imparare ai propri figli e alle proprie figlie anche il putonghua, parlato, letto e scritto; dopo le prime esperienze empiriche dei primi anni condotte da tante scuole pubbliche in collaborazione con l’associazionismo e le ONG sopra citate, sono via via nati corsi e intere scuole di lingua cinese per sinodiscendenti, di cui è qui particolarmente interessante ricordare la ‘Scuola di cinese di Firenze’, che proprio quest’anno compie 20 anni, che opera in stretta e positiva collaborazione con le scuole pubbliche del quartiere 5 di Firenze e di San Donnino (Comune di Campi Bisenzio – FI), che ne ospitano i corsi. Tale scuola, i cui corsi si tengono con cadenza quotidiana, per un’ora e mezza in orario extrascolastico, vede un corpo docente altamente specializzato, distaccato annualmente da scuole, università e istituzioni del Zhejiang (a cui più recentemente si è aggiunta la Normal University di Shanghai) e condivide con i docenti delle scuole pubbliche italiane frequentate dai suoi alunni le osservazioni sulla frequenza, le eventuali difficoltà anche in lingua cinese, l’atteggiamento nei confronti dello studio, ecc. di bambini e ragazzi, con una reciproca positiva influenza nel motivarli nello studio (alla prima elementare di tale scuola si può accedere a 7 anni, dopo che una prima alfabetizzazione in lingua italiana ha già avuto luogo e il percorso intero ha una durata di 7 anni complessivamente). Intervistati in varie occasioni, gli alunni e le alunne più grandi hanno riportato che da quando affrontano il cinese anche come lingua di studio, è migliorato anche il loro italiano, confermando con la loro esperienza quanto già affermano da anni i linguisti sulla positiva influenza che la buona padronanza della propria lingua madre ha anche sull’acquisizione della seconda lingua.4)

Naturalmente, l’impegno degli studenti sinofoni e il sostegno delle loro famiglie è condizione indispensabile ma non sufficiente per migliorare le percentuali di successo scolastico: recenti studi sulla percezione degli accenti stranieri da parte degli insegnanti di scuole italiane nei confronti dei loro studenti e di loro reazioni involontarie, evidenziano un ulteriore elemento che determina spesso una discriminazione inconsapevole nei confronti dei figli di famiglie immigrate: la ricerca dall’esplicito titolo ‘Fregati dall’accento’ sulla discriminazione negli ambienti scolastici, descrive i risultati di diverse inchieste sul campo compiute in alcuni istituti scolastici toscani nel periodo 2018-20.5) L’indagine, che rappresenta un segmento di due progetti di ricerca più ampi focalizzati sull’accento straniero, pone al centro il corpo docente e le sue aspettative relative al successo scolastico degli alunni sinofoni e sugli stereotipi etnici: ne emerge che da un lato il giudizio dei docenti nei confronti degli studenti è correlato allo status sociale, al sesso e alla presenza/assenza di un passato migratorio; dall’altro lato, gli studenti con passato migratorio alimentano aspettative diverse, a seconda della provenienza: le etnie con una storia migratoria meno recente ed “europea” (in particolare albanesi e rumeni) ottengono valutazioni più positive rispetto a quelle con una storia migratoria più recente, quale quella cinese.6)

Infine, vale la pena sottolineare un ulteriore nodo problematico: un anello debole nella catena della scolarità di alunni cinesi (e di qualsiasi altra provenienza nazionale) è quello dell’assenza quasi totale nella scuola italiana di insegnanti di origine straniera.

Nelle sopra citate esperienze di paesi anglofoni come Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, la presenza di insegnanti che portano un bagaglio di conoscenze, sia linguistiche sia di esperienze sia di diversità somatica e di atteggiamenti è del tutto consistente. In Italia, il numero di studenti di origine cinese, ormai di terza, o quarta generazione, è molto alto, ma la presenza nelle scuole di insegnanti di tale origine, o comunque non caucasici, è molto bassa, si limita a poche unità, e spesso si tratta di personale scolastico precario.

Anche se in possesso della cittadinanza italiana, infatti, il “cinesino” che ha un buon successo scolastico, laureato, colto, non entra nelle fila del personale docente della scuola italiana, e finché questo non avverrà, non si potrà parlare di una scuola veramente interculturale, veramente mondiale.

La fragilità del rapporto fra la scuola italiana e le famiglie sinodiscendenti è stata messa a dura prova dall’esperienza di didattica emergenziale a distanza degli ultimi due anni.7) In tutta Italia si sono verificati numerosi casi in cui le famiglie hanno scelto di tenere a casa i figli, schiacciati dalle pressioni esercitate da genitori e nonni in Cina che ricevevano allarmanti messaggi dai media sulla situazione della pandemia in Italia. Molti hanno scelto poi di non far seguire ai loro figli le lezioni online organizzati dalle scuole italiane – di difficile accesso per via del sistema dei registri elettronici in uso – ma di rivolgersi alle offerte formative a distanza che la comunità sinofona mondiale ha messo in pratica: insegnanti cinesi fisicamente collocati in ogni paese del mondo, che hanno offerto lezioni online a pagamento, in linea con i programmi delle scuole cinesi, possibilmente anche riconosciuti dalle scuole dei paesi di inserimento. Il rapporto di fiducia tra la scuola italiana e le comunità cinesi sembra ancora una volta avere preso un brutto colpo, anche se non mancano esperienze virtuose e rientri a scuola in massa, che stanno dando ottimi risultati. Si tratta, ancora una volta, di mettersi in ascolto e di fare tesoro delle esperienze dei giovani sinodiscendenti, ora adulti, e dei loro insegnanti.

…………………………………..

Maria Omodeo si è laureata a Cà Foscari e insegna Letteratura e Civiltà Cinese all’Università di Siena, unendo da sempre il proprio interesse per la cultura e la lingua cinese a un impegno per la trasformazione in chiave interculturale della società. In Cina opera in programmi di cooperazione con l’associazionismo delle donne delle minoranze etniche, in Italia collabora con la comunità educante per la promozione del plurilinguismo, con particolare riguardo alle nuove generazioni di sinodiscendenti. Fra i due paesi, opera per scambi fra scuole di ogni ordine e grado, attività che l’ha portata ad essere fra i fondatori del Centro Ricerche Interculturali e Documentazione Didattica Italia Cina (CRIC) e della neonata Sede Italiana della Zhejiang Normal University.

Sabrina Ardizzoni si è laureata a Bologna e ha conseguito il dottorato presso l’Università di Lubiana. Insegna Lingua e Cultura cinese e didattica dell’italiano a sinofoni all’Università di Bologna. Per molti anni ha lavorato nelle scuole italiane per l’accoglienza dei bambini e famiglie cinesi, insegnando italiano come L2 ai neoarrivati, collaborando con gli insegnanti e le classi per l’organizzazione della didattica mirata alla costruzione di una società interculturale. In Cina ha svolto ricerche sull’istruzione dei mingong nelle città e dei bambini e adulti nelle campagne. Dal 2015 ha pubblicato diversi articoli sulla cultura Hakka ed è autrice di Hakka Women in Tulou Villages-Social and Cultural Constructs of Hakka Identity in Modern and Contemporary Fujian, China, Brill, 2022.

References
1 Sabrina Ardizzoni, “The Chinese Community and Education in Bologna: Small Town, Working Class Occupations, High Hopes”, in F. Guardiani, G. Zhang, S. Bancheri (a cura di), Italy and China: Centuries of Dialogue, (Firenze: Franco Cesati, 2017), 445-463. Sabrina Ardizzoni, Scritti di mediazione, cultura e lingua cinese – Conversazioni tra Italia e Cina, (Bologna: Bonomo, 2012).
2 https://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/cinesino/
3 Rimandiamo ai lavori di Antonella C‪eccagno (a cura di), Il caso delle comunità cinesi. Comunicazione interculturale ed istituzioni, (Roma: Armando Editore, 1997); Antonella C‪eccagno, Cinesi d’Italia, storie in bilico tra due culture, (Roma: Manifestolibri, 1998); Daniele Cologna, “L’inserimento degli immigrati cinesi nella società milanese”, in Palidda Salvatore (a cura di), Socialità e inserimento degli immigrati a Milano. Una ricerca per il Comune di Milano, (Milano: Franco Angeli, 2000); Maria Omodeo, La scuola multiculturale, (Roma: Carocci, 2002); Maria Omodeo, Marco Marigo, Heini Huang, Diecimila caratteri. Il sistema scolastico in Cina, (Imola: Nuova Grafica, 2009); Rossella Cecchini, Lanterne amiche. Immigrazione cinese e mediazione interculturale a Reggio Emilia, (Reggio Emilia: Diabasi, 2009); Giuseppina Merchionne (a cura di), Ponti di bambù, (Milano: Egea, 2007); Omodeo Maria, Marigo Marco, Kappler Daniela, Scambiando s’impara, documentazione del partenariato didattico tra scuole e istituzioni toscane e della provincia cinese Zhejiang, (Bagno a Ripoli: Editore Idest, 2010), e altri. Molti lavori di ricerca sul campo effettuati da questi e altri autori sono entrati in materiali “grigi” per la formazione di insegnanti, educatori, operatori, o commissionati da enti di formazione o associazioni di categoria, e molti non sono stati pubblicati, anche se in molti casi sono stati raccolti in biblioteche di centri interculturali.
4 Si veda in particolare Jim Cummins, “Rethinking Monolingual Instructional Strategies in Multilingual Classrooms”, in Canadian Journal of Applied Linguistics / Revue Canadienne de Linguistique Appliquée, 10, 2, 2007, 221-240.
5 Silvia Calamai, Rosalba Nodari e Vincenzo Galatà, “Fregati dall’accento!”. Lo stereotipo etnico e linguistico nei contesti scolastici”, in Italiano LinguaDue, 12 ,1, 2020, 430-458. https://doi.org/10.13130/2037-3597/13865
6 Rosalba Nodari, Vincenzo Galatà, Silvia Calamai, “Italian School Teachers’ Attitudes towards Students’ Accented Speech. A Case Study in Tuscany”, Italiano LinguaDue, 2021, 1, 72-102.
7 Sabrina Ardizzoni, Ivana Bolognesi, Marta Salinaro e Mariangela Scarpini, “Didattica a distanza con le famiglie: l’esperienza di insegnanti e genitori, in Italia e in Cina”, in Alessandra Gigli (a cura di), Oltre l’emergenza – Sguardi pedagogici su infanzia, famiglie, servizi educativi e scolastici nel Covid-19 durante l’emergenza sanitaria 2020 (Bergamo: Junior, 2021), 169-184.

Category: Scuola e Università

About Sabrina Ardizzoni: Docente di cinese in Unibo dal 2005, dopo dieci anni di lavoro come interprete e mediatrice linguistico-culturale, ha iniziato lo studio della lingua cinese presso l'Università di Bologna nel 1986, con un periodo di studio in Cina presso l'Istituto di Lingue e Culture di Pechino e presso l'Università Normale dell'Anhui (1992-1995). Il lavoro di mediazione linguistico-culturale, dal 1998, si è svolto nelle scuole, negli enti locali e ONG. Dal 1995 lavora come interprete e traduttrice in ambito sociale, medico e aziendale. I suoi interessi si concentrano nelle nuove tecniche glottodidattiche, nelle indagini dei cambiamenti sociali in corso nella Cina rurale, con particolare riferimento ai movimenti migratori interni e internazionali e alle questioni di genere. Ha compiuto diverse spedizioni di inchiesta in Cina, soprattutto nelle aree rurali, dove, grazie anche alla collaborazione con istituzioni educative e culturali del Fujian e Jiangxi, sta sviluppando l'ambito di ricerca sulle donne nelle comunità di Hakka, in Cina e nella diaspora.

Leave a Reply




If you want a picture to show with your comment, go get a Gravatar.