Cala il sipario sulla riforma Gelmini dell’università

| 16 Giugno 2011 | Comments (0)

Una inchiesta sulla riforma Gelmini divenuta legge dello Stato. Come può avvenire per chi fa ricerca il passaggio dalla disponibilità a tutto alla indisponibilità attiva.

La riforma Gelmini dell’università è divenuta legge dello Stato, dopo due anni di lunga e sofferta gestazione. Si tratta dell’intervento più controverso nella storia delle riforme del sistema universitario degli ultimi cinquanta anni. Lo testimonia, al di là della cronaca massmediatica sulla ‘violenza’ esplosa nelle piazze proprio nei giorni in cui la riforma era in corso di approvazione in Parlamento, una recente indagine condotta dall’Osservatorio sul capitale sociale. I dati raccolti registrano una larghissima condivisione della protesta tra gli studenti, liceali e universitari, e la percezione, da parte di questi e delle loro famiglie, di un profondo declino del sistema scolastico e universitario nell’ultimo decennio, in particolare per ciò che riguarda il collegamento con il mondo del lavoro. “La scuola e l’università – commenta Ilvo Diamanti – che dovrebbero prefigurare il futuro professionale dei giovani non sono più in grado di svolgere questi compiti. Da tempo. E sempre meno. Abbandonate a se stesse. In particolare quelle pubbliche […]. Anche se solo una piccola quota di italiani vorrebbe privatizzarle maggiormente, c’è questo ri-sentimento alla base della protesta e del dissenso profondo verso le politiche del governo nei confronti della scuola e dell’università”[1].

Di fronte alla condizione fotografata dall’indagine, sorge spontaneo chiedersi perché la mobilitazione dell’università contro il DDL Gelmini non sia valsa a bloccarne l’iter parlamentare. Le argomentazioni più frequenti rimandano al complice black out dei media sulle tante e variegate forme di protesta, che da più tempo investono la scuola e l’università, e che vedono coinvolti a vario titolo docenti precari della scuola, ricercatori e studenti; oppure alla sordità del governo alle istanze sociali e al malessere prodotto dalla crisi economica globale e, di correlato, alla tiepidezza con cui l’opposizione parlamentare ha affrontato in questi mesi il dibattito sulla riforma. Ma l’aspetto singolare di tale processo non è tanto il disegno governativo di accentramento delle strutture di potere all’interno degli atenei, quanto la peculiarità del suo iter legislativo. Il DDL è stato adattato all’interno di diversi atenei in maniera differenziale, sottoposto, prima ancora che alla mediazione parlamentare, alla contrattazione neocorporativa e informale con le parti più forti, e al contempo più docili, del corpo accademico.

Cala il sipario” è la conclusione di una lunga e sofferta conversazione all’interno di una mailing list di ricercatori universitari[2] mobilitati contro la riforma Gelmini, pochi giorni prima che essa fosse promulgata legge dal capo dello stato, e all’indomani della rivolta studentesca del 14 dicembre 2010 a Roma. L’espressione rinvia a molteplici significati: cala il sipario sul diritto allo studio; cala il sipario sulla ricerca e i ricercatori; cala il sipario su un anno di mobilitazione che pretendeva di emendare la legge e di avviare una “riforma dal basso” dell’università pubblica.

Da quest’espressione sintomatica vorrei partire per proporre una narrazione del movimento dei ricercatori, collocandola nella problematica più generale del rapporto tra governance e soggettività nella crisi dell’università, o specularmente, nell’università della crisi. Una crisi aperta ormai da un decennio – e non solo nel 2008 come prosaicamente si sostiene – dal processo continentale di razionalizzazione e controllo della ricerca scientifica e della formazione, stigmatizzato come “guerra contro l’intelligenza”[3] e da quello concomitante di inferiorizzazione della forza lavoro post-fordista (Fiat docet).

A tale duplice processo possono essere ricondotti gli attacchi rivolti all’università pubblica e di massa, portati a compimento dal combinato disposto Tremonti-Gelmini, e celebrato come riforma epocale che “finalmente chiude col finto egalitarismo del Sessantotto, sostituendolo con una vera meritocrazia”. Ciò che al ministro sembra sfuggire tuttavia, è che il dispositivo meritocratico è il presupposto e non il risultato della sua vittoria.

La meritocrazia funge non solo da espediente retorico ma anche da dispositivo di potere-sapere nella logica governamentale innescata col processo di Bologna e improntata al modello del new public management, rendendo concreti per il sistema universitario pubblico gli effetti di “dispossession” (Harvey) del processo di privatizzazione, finanziarizzazione e manipolazione delle crisi connesso al paradigma neoliberale di smantellamento del welfare state.

A un primo livello, sistemico, la meritocrazia funziona come dispositivo finanziario che impernia la logica distributiva delle risorse. Un logica fondata sul calcolo economico, espresso dal costo unitario standard dello studente e delle aspettative di redditività dell’investimento in formazione, assunti quali criteri per l’accreditamento, il monitoraggio e la valutazione ex post dei risultati, e sintetizzati da indici statistici di performance e balanced scorecard[4].

A un secondo livello, quello dell’autonomia didattica, organizzativa e gestionale attribuita costituzionalmente agli atenei, il dispositivo meritocratico prolunga localmente l’efficacia del dispositivo finanziario del sotto finanziamento a monte, e della razionalizzazione dei costi a valle. A ciascun ateneo sono demandate procedure e decisioni di razionalizzazione che scatenano una lotta competitiva per l’accaparramento delle risorse, giustificata sempre attraverso il merito e veicolata da meccanismi comparativi quali il benchmarking[5]. Nel caso italiano, la produzione politica della “scarsità”, attraverso la drastica riduzione degli investimenti pubblici all’università e il blocco del turnover nella docenza, e la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato (legge 133/2008) hanno permesso peraltro che un gruppo di pressione composto da atenei “virtuosi” (Aquis) contribuisse alla campagna di stampa contro tutto il sistema universitario, a partire dalle “immani” storture degli atenei non virtuosi.

Il risultato di questo processo di managerializzazione è, da una parte, il declassamento del processo formativo ad attività di servizio agli studenti-clienti mediante la contrattualizzazione del rapporto; dall’altra, l’adattamento dei percorsi formativi agli ordini di priorità fissati dai codici aziendali (che equivalgono a veri e propri codici morali), incoraggiando superficialità e ritualismo sia sul lato dei docenti-ricercatori che su quello degli studenti, indotti a riprodurre opportunisticamente l’equivalenza tra moduli di insegnamento e crediti erogati.

C’è infine, un ultimo livello di analisi, che potremmo definire interstiziale. Riguarda l’operatività del dispositivo sui processi di produzione della soggettività, che è centrale nell’analisi di questo lavoro. Nella logica ricompositiva della governance, il dispositivo meritocratico ha funzionato da meccanismo di individualizzazione e verticalizzazione non solo delle attività di docenza e di ricerca ma anche delle pratiche conflittuali, stuzzicando talvolta sentimenti di rivalsa dei settori dequalificati del mercato del lavoro nei confronti  di quelli della cultura e dell’accademia, accusati di detenere “rendite di posizione”.

Il “bisogno di giustizia sociale” ha teso a trasformare una prassi conflittuale potenzialmente trasversale in una gerarchia verticale di battaglie settoriali per il riconoscimento dello status negato, fomentando così la retorica della divisione: da una parte i docenti, considerati detentori di uno status privilegiato, dall’altra i precari vittimizzati, dall’altra ancora gli studenti incapaci di mettere a frutto il capitale umano acquisito adattandosi alle richieste del mercato del lavoro.

L’effetto cumulativo del dispositivo meritocratico (passando dal livello sistemico a quello interstiziale) ha definito il campo materiale e strategico del movimento dei ricercatori contro la riforma ed anche i suoi limiti. In assenza di una rottura con la logica inclusiva e pacificante della governance, le esigenze sistemiche di riproduzione degli apparati a fronte della crisi, hanno finito per sovra-determinare i bisogni soggettivi e delimitare gli orizzonti di possibilità aperte dal conflitto.

“Cala il sipario”, l’espressione con cui ho scelto di avviare questa riflessione, è soltanto una provocazione. È animata dal desiderio di ricongiungere, al di là di ogni visione fenomenologia degli eventi o esistenzialista della soggettività, i punti apparentemente dispersi di una lotta; di “dotare di mani” il pensiero, per tentare di trovare i presupposti mediante cui un’azione collettiva possa diventare portatrice di un progetto politico di lungo periodo.

“Cala definitivamente il sipario sulla mia partecipazione alla protesta dei ricercatori, con molto dispiacere per ciò che poteva essere e invece purtroppo non è stato (e ormai non sarà più), ma senza la minima possibilità di ripensamento [… ]. Dopo quanto è successo a Roma, e in particolare dopo l’arresto di un ricercatore, diventa per me impossibile anche soltanto mantenere aperta una finestra di discussione con un’organizzazione che ha tradito non solo i miei ideali, ma anche i suoi – o almeno quelli che diceva essere tali […]. È stato più di un crimine: è stato un errore. A quelli che questo errore fatale hanno commesso ho da dire soltanto che siete antidemocratici, sprovveduti, irresponsabili  […].  Nel frattempo, e fin quando la protesta non ritornerà sui giusti binari (se pure mai lo farà), è chiaro che ritirerò la mia indisponibilità all’insegnamento” (Ricercatore, Varese, 20 dicembre 2010).

L’importanza del j’accuse non sta nel giudizio morale tra buone e cattive condotte, ma nella condizione soggettiva – quindi politica e collettiva – che lo presuppone e lo genera nell’esercizio quotidiano dei rapporti di potere. Quel diventare soggetto, che il gruppo rappresenta non è un’esplosione di libertà improvvisa e senza radici, un evento eccezionale fondamentalmente irragionevole. È invece la fase diurna di un processo perennemente in corso, le cui radici sotterranee stanno “in quella complicità a proprio dispetto” (Sartre) che all’individuo è richiesta nella dimensione del pratico-inerte, riconducibile all’atomizzazione degli individui in una determinata struttura materiale.

La crisi ha reso esplicita la contraddizione tra l’azione omogeneizzante e normativizzante della disciplina e la logica includente e risarcitoria della governance. Quest’ultima tende, sul piano strutturale – ovvero nella logica distributiva dei rapporti di produzione – a sussumere i processi di soggettivazione conflittuale mediante l’inclusione differenziale dei soggetti attribuendo loro identità e posizioni differenziate ed operando come criterio disgiuntivo delle lotte. Sul piano della gestione quotidiana dei rapporti di potere, tende a recuperare la potenza trasformativa delle resistenze individuali e di gruppo, orientando i comportamenti verso la logica operativa e procedurale del problem solving. Il metodo della risoluzione dei problemi consiste nell’attivazione manageriale delle “risorse umane” per la ricerca di soluzioni in rapporto a situazioni problematiche (criticità di sistema), attingendo alle risorse materiali (strumentali ed economiche) disponibili in un dato ambito organizzativo.

L’operatività di questa strategia governamentale può essere colta, nel lungo periodo, nell’uso flessibile del ruolo e delle funzioni del ricercatore universitario nel processo di adattamento strutturale del sistema universitario pubblico al Bologna Process. Nel breve periodo, nello stato di emergenza permanente innescato dalla riforma Gelmini, laddove i ricercatori mobilitati sono stati responsabilizzati dalle istituzioni accademiche di appartenenza a cercare soluzioni per evitare l’affossamento definitivo del sistema.

La contraddizione tra l’azione passivizzante delle discipline e il controllo includente  della governance si è tradotta sul piano individuale in una lacerazione tra il bisogno di ripiegarsi nella culla rassicurante del sistema – bisogno materialmente negato dalla condizione emergenziale indotta dalla crisi – e la presa d’atto che “niente è più come prima” dentro un movimento reale che parte dall’università e coinvolge, innervandosi nei suoi legami con la soggettività, una condizione (non solo generazionale) di precarietà.

Parzialità ed apertura costituiscono gli assunti metodologici di questo lavoro di inchiesta, mosso dal bisogno di definire, attraverso la narrazione di un’esperienza politica vissuta direttamente e rielaborata attraverso la memoria, un possibile terreno di sperimentazione della soggettività

Il ricercatore tra passato e presente

Per analizzare gli effetti del dispositivo meritocratico e finanziario sulla dinamica di mobilitazione dei ricercatori, è utile partire dalla definizione e trasformazione dello status giuridico del ricercatore a tempo indeterminato[6]. Questa figura, istituita nel 1980 con la legge 382, che ne definiva anche i compiti e le funzioni, avrebbe dovuto costituire un cardine dell’innovazione del sistema universitario. La legge 382/1980 si ispirava infatti ad un sistema di governo dell’università ampiamente partecipativo e, attraverso le logiche dell’autogestione e della partecipazione democratica, prendeva atto della nuova condizione dell’università italiana, ad accesso libero e di massa. Intervenendo sull’intera configurazione della vita e della carriera accademica, instituiva tre fasce di docenza (ordinari, associati e ricercatori); fissava gli obblighi e l’organizzazione interna degli organi accademici; istituiva, in via sperimentale e facoltativa, i dipartimenti e il dottorato di ricerca; prevedeva dei piani di sviluppo per le università italiane; e, infine, attraverso norme transitorie, inquadrava entro nuove posizioni il personale già in servizio negli atenei[7].

Al ricercatore si chiedeva di contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica universitaria assolvendo a compiti didattici integrativi dei corsi di insegnamento ufficiali. L’attività didattica era limitata alle integrazioni dei corsi curriculari, alle esercitazioni e alla sperimentazione di nuove modalità di insegnamento; alla partecipazione agli esami di profitto solo come cultore della materia; alla assistenza all’elaborazione delle tesi di laurea, senza tuttavia poterne essere relatore.

Il ricercatore era dunque immaginato come una figura ibrida in cui formazione e lavoro potevano convergere. Sul piano della docenza era un apprendista; sul piano della ricerca, invece, gli veniva attribuita una relativa autonomia (anche budgetaria, grazie all’assegnazione di fondi ad hoc) e una libertà di percorso. Dalla fine degli anni ’80, tuttavia, un insieme di interventi legislativi hanno talmente modificato le mansioni e lo schema retributivo di questa figura da conferirle caratteristiche giuridiche e funzionali non molto diverse da quelle dei professori.

A distanza di dieci anni dalla legge 382 il ruolo fu leggermente ridefinito dalla riforma Mattarella (Legge 341/1990, art. 12) che permetteva ai ricercatori confermati, ma solo con il loro consenso, di ottenere in affidamento supplenze di corsi e moduli, che tuttavia non avrebbero dovuto dare diritto ad alcuna riserva di posti a concorso; di essere componenti delle commissioni di esame di profitto e relatori di tesi di laurea al pari degli ordinari e degli associati.

Il coinvolgimento nell’attività didattica aumentò ulteriormente con la riforma Berlinguer (Legge 210/1998) che sanciva la suddivisione del vecchio corso di laurea in un corso di base di primo livello e in un corso specialistico di secondo livello (il cosiddetto 3 + 2). L’ampliamento dell’offerta formativa, incentivata a livello europeo dalla strategia di Lisbona, determinò l’apertura di nuovi corsi di laurea, con il risultato di un quasi totale ‘utilizzo’ dei ricercatori nelle attività didattiche, portando lentamente alla ‘scomparsa’ della figura definita dalla legge del 1980. Successivamente, con la Legge 4/1999, le mansioni didattiche furono estese anche ai ricercatori non confermati e fu abolita la precedenza di ordinari e associati rispetto ai ricercatori nell’assegnazione delle supplenze. Diverse sigle sindacali e associazioni di categoria nel 1999 richiesero l’istituzione della terza fascia docente, e un progetto di legge in tal senso, approvato dal Senato, non completò mai l’iter parlamentare.

Una Circolare Ministeriale del 17 marzo 1997 a firma del Ministro Berlinguer riconobbe la “facoltà per le Università di procedere ad assunzioni a tempo determinato. E l’opportunità di valersi della medesima facoltà per favorire l’accesso dei giovani alle attività della ricerca”. Questa disposizione, giustificata con la necessità di ovviare al problema dell’età media elevata dei ricercatori di ruolo in servizio, introduceva la figura del ricercatore a tempo determinato, sovrapponibile, per compiti assegnati e trattamento retributivo, a quella del ricercatore di ruolo non confermato, anticipando in maniera silenziosa uno scenario portato avanti nel 2005 dalla riforma Moratti. Quest’ultima – di cui però non sono mai stati emanati i regolamenti attuativi – ha sostituito il ricercatore a tempo determinato a quello a tempo indeterminato, messo ad esaurimento, auspicandone il passaggio a professore associato tramite giudizio di idoneità nazionale.  A tutti i ricercatori che con il loro consenso ottenevano dalle facoltà l’affidamento di corsi e moduli curriculari, era inoltre attribuito il titolo di professore aggregato, fermo restando l’inquadramento e il trattamento giuridico ed economico.

Il 2005 vide la nascita di un movimento embrionale di ricercatori, che contestò la riforma Moratti con lezioni in piazza ed astensione dalla didattica frontale e dagli esami. Quella protesta finì per richiudersi su se stessa.  Innescandosi come battaglia per il riconoscimento di uno status negato, non riuscì a superare le accuse di corporativismo mosse da una vivace campagna stampa filogovernativa. Inoltre per effetto della pressione interna, esercitata da rettori e presidi ed anche dagli studenti disciplinati alla logica produttivistica del 3 + 2, si pretese ben presto che i “professori” ricominciassero a garantire sessioni di esami e sedute di laurea[8].

La successiva riforma Mussi del 2007 non intervenne direttamente sui ricercatori, ma sancì definitivamente l’equiparazione dei ricercatori ai docenti di I e II fascia.  Per raggiungere l’obiettivo di riformare le classi di laurea triennale e magistrale, di ridurre il numero degli esami e di bloccare la proliferazione dei corsi di laurea, rese obbligatoria la copertura degli insegnamenti con almeno il 50 per cento dei docenti. Lo stratagemma adottato per evitare la chiusura di un numero cospicuo di corsi di laurea fu di conteggiare anche i ricercatori come docenti a tutti gli effetti per i requisiti minimi richiesti per l’attivazione dei Corsi di Studio. Si trattò di un’ennesima contraddizione. In base allo stato giuridico i ricercatori potevano limitarsi solo alle attività didattiche integrative; quasi tutti, però, vennero indotti ad accettare in affidamento insegnamenti curriculari; e in molte facoltà senza un’accettazione formale da parte degli interessati.

Nel 2009, la presentazione del disegno di legge 1905 del ministro Gelmini, avallando il vecchio progetto della riforma Moratti di messa in esaurimento del ruolo del ricercatore entro il 2013, ha riacceso la scintilla della contestazione. Secondo la riforma le università possono stabilire due tipologie di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato per attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti (la cosiddetta tenure track all’italiana).  Alla prima appartengono i contratti di durata triennale, prorogabili per due anni una sola volta, previa valutazione positiva delle attività svolte, stipulabile con lo stesso soggetto anche in sedi diverse (3+2). La seconda consiste in contratti triennali a tempo pieno non rinnovabili, con obbligo di 350 ore annue di docenza, riservati ai candidati che abbiano usufruito dei contratti del primo tipo, o di assegni di ricerca per tre anni anche non consecutivi, o di borse di post-dottorato, o di borse o contratti presso atenei stranieri (3+2+3).  Se alla fine del triennio il giudizio dell’ateneo sarà positivo e se nel frattempo avrà acquisito l’abilitazione nazionale, il ricercatore verrà  inquadrato come associato.

Queste modalità di reclutamento si inquadrano in un impianto generale di applicazione all’università pubblica di forme ambigue di contaminazione pubblico-privato all’insegna del new public management. Marrucci – docente di fisica all’università Federico II di Napoli e vivace sostenitore del processo di modernizzazione europea del sistema universitario secondo i principi del New Public Management[9] – sgombra il campo da qualsiasi ambiguità. “L’uso tecnico del termine governance forse non chiarisce efficacemente l’importanza della questione: stiamo parlando di processi interni agli atenei, ossia, con parole ancora più semplici, di stabilire chi ‘comanda’ negli atenei e quali siano le sue vere intenzioni e incentivi. Nel discutere di governance stiamo di fatto parlando di come creare le condizioni per una vera meritocrazia”[10].

Questo modello di governance non rappresentativa, è incentrato sul ruolo del consiglio di amministrazione, espressione dell’incrocio tra interessi dei blocchi di potere interni ed esterni agli atenei, e interessi generali, rappresentati con indici di performance e competitività nel mercato della conoscenza a basso costo. Dati il cronico sottofinanziamento dell’università pubblica al quale si sono aggiunti i tagli delle finanziarie degli ultimi tre anni, e la prospettiva della sostituzione delle borse di studio con prestiti d’onore per studenti e contratti di apprendistato per dottorandi, realizza di fatto un’autonomia “per abbandono”[11].

“In questo modo l’università diviene non solo uno strumento attivo di educazione sinergica alle priorità del mercato, ma un luogo su cui risparmiare, tagliare, privatizzare e precarizzare, a partire esattamente da quei percorsi formativi considerati ‘inutili’ rispetto al modello economico dominante: le discipline umanistiche, le scienze di base ed i settori economicamente più onerosi, ovvero gli stessi che sarebbero fondamentali per aprire spazi di innovazione alternativi rispetto alla crisi attuale”[12].

È questo il perverso filo conduttore degli innumerevoli attacchi rivolti all’università di massa e, più in generale, all’intera articolazione del mondo della formazione e della ricerca, stigmatizzato nella sua colpevole distanza dal mercato del lavoro.

La “guerra contro l’intelligenza” consiste in buona sostanza – spiega Bascetta[13] – nel negare l’esistenza stessa di un fattore ‘intellettuale’ (e cooperativo), non riconducibile ai ‘meriti’ dei singoli, nella produzione, se non quello più immediatamente inerente alle applicazioni tecnologiche e alla necessaria dimestichezza con queste ultime. […] Se la distruzione della soggettività operaia, attuata attraverso la parcellizzazione e la dequalificazione, non comprometteva, anzi incrementava, la sua oggettività produttiva, la soggettività del lavoro cognitivo, compresi gli elementi insofferenti a ogni controllo che gli sono propri, coincide pienamente con il suo valore oggettivo. Il principio cardine dell’anti-intellettualismo contemporaneo consiste essenzialmente nel negare i caratteri cooperativi e il valore sociale del lavoro cognitivo e nel ricondurre il sapere a un puro e semplice possesso individuale (il cosiddetto capitale umano), a un investimento cioè i cui costi, così come i presunti benefici, non dovrebbero che ricadere sul singolo che lo ha intrapreso, senza oneri per lo Stato né per il sistema produttivo che lo metterà al lavoro”.

La cooptazione

Le leggi di riforma che si sono succedute in trent’anni hanno profondamente modificato le funzioni dei ricercatori strutturati, a tempo indeterminato, impegnandoli nella quasi generalità in attività didattiche. Il reclutamento ha continuato a presupporre la cooptazione, ed i concorsi formalmente pubblici hanno per lo più sancito questa modalità.

La cooptazione è per definizione un sistema di selezione ‘non democratico’, adottato per garantire la particolare indipendenza di un organo, che potrebbe essere menomata dalla nomina dei membri da parte di un soggetto esterno. Per essere efficace richiede una serie di pre-requisiti: che il sistema sia eticamente solido, che ci sia un’assunzione di responsabilità da parte dei cooptanti; che vigano meccanismi di sanzione, giuridica e/o informale sociale, all’interno del sistema.

Nel caso dei ricercatori, la commistione fra ricerca e didattica pone il problema del rapporto tra corresponsabilizzazione da una parte e valutazione dall’altra. Se da un lato i ricercatori sono corresponsabilizzati al pari degli associati e degli ordinari nella gestione dei corsi di studio e sono coinvolti nei processi istruttori delle commissioni allestite ad hoc per affrontare i problemi didattici, dall’altra sono sottoposti al processo di valutazione per la progressione di carriera all’interno di settori scientifico-disciplinari, costituti da un corpo di professori associati e ordinari che si rappresentano in una data disciplina. Gli stessi che gestiscono a livello locale, nei corsi di studio e nelle facoltà, la programmazione didattica.

I settori scientifico-disciplinari, per quanto posti formalmente a garanzia della specializzazione disciplinare di ciascun ricercatore, costituiscono gli ambiti entro cui si esercita concretamente il cosiddetto potere baronale, soprattutto in un contesto in cui il giudizio sulla qualità della ricerca non è scevro dal giudizio sul contributo quantitativo e qualitativo alla didattica dei corsi di studio e alle attività amministrative dei Corsi di Laurea. Con l’autonomia didattica e finanziaria dell’università, al peso determinante della cooptazione si affianca l’ulteriore elemento di potere derivante dalla possibilità delle strutture didattiche degli atenei di effettuare i bandi per l’assunzione in ruolo dei ricercatori e dei professori. Chi decide sono sempre coloro che, nel bene e nel male responsabili dell’immissione in ruolo dei ricercatori, poi li valutano per ciò che sono stati in grado di dare.

La dignità offesa: nascita del movimento dei ricercatori

Se si dovesse individuare un elemento genealogico nella costituzione di un movimento sociale – un punto di non ritorno nelle singolarità che lo compongono – nel caso dei ricercatori coinciderebbe con la parola “dignità”, o meglio, potrebbe essere colto nell’intermezzo sottile e apparentemente impercettibile che unisce la parola al verbo: la dignità all’indignarsi, l’affermazione solitaria, triste e lamentosa del proprio valore morale al moto collettivo di sdegno contro l’ingiustizia e di vergogna contro l’indecenza.  Indignarsi è di per sé una forma di condivisione, un sapere che quel che accade ad un altro accade a noi. Per indignarsi occorre sapere, guardarsi attorno, fare comparazioni, stabilire nessi, cause, relazioni. La presa di parola ha dischiuso questo nuovo campo di possibilità:

Il DDL Gelmini offende la mia dignità, anzi la nostra dignità di ricercatori. Abbiamo dato tutto a quest’università, sosteniamo quanto gli associati e gli ordinari, il peso della didattica…  Lavoro e dignità sono due parole che in un paese civile dovrebbero coincidere. Da noi ormai la dignità coincide solo con la disperazione. “Mo’ basta! Dobbiamo dirglielo a questo ministro. Non ci possono trattare come lavoratori di serie B. .. E’ un insulto al nostro lavoro e a noi stessi come persone.  (CNR)

Nel momento in cui l’indignazione, l’uscire di sé, diviene il punto di rottura collettiva della sopportazione, ciascuno è posto a confrontarsi con un processo in cui le determinazioni vanno continuamente ricostruite, di volta in volta modificate, sulla base della memoria stessa delle lotte:

Sicuramente qualcuno si ricorderà della mobilitazione del 2005 contro la Moratti. Anche allora ci siamo astenuti dalla didattica… All’inizio si era insieme ma poi siamo rimasti isolati, con gli studenti incazzati perché volevano i corsi e gli esami, da una parte, e i rettori e i giornalisti dall’altra, a rimproverarci il fatto che la nostra battaglia era corporativa… Alle lezioni in piazza, ai cortei, ai flash mobs, alle incursioni nei senati accademici, in una parola allo spontaneismo della lotta, ai gruppi di discussione in rete, non ha fatto seguito un radicamento della mobilitazione all’interno degli atenei ed un allargamento alla componente studentesca… Poi nel 2008 c’è stato il movimento dell’onda… Si sono visti cortei oceanici in questo ateneo… e io pensavo a quanto era cambiata la situazione rispetto al 2005. Sembrava che quel movimento avesse la capacità di trascinarsi tutto dentro, anche quegli studenti che qualche anno prima pretendevano il corso… E invece poco dopo di nuovo il vuoto pneumatico… di nuovo la solita storia di gente che in aula conta la pagina in più nella dispensa… Stavolta, se davvero ci sta a cuore la battaglia contro il ddl, dobbiamo essere cauti per non rimanere i soliti quattro gatti di sempre, dobbiamo costringere gli organi accademici a muoversi per primi… (Calabria)

Dalle prime discussioni assembleari, che si dibattono tra il bisogno di dare espressione immediata all’indignazione e la paura di rimanere isolati, si passa all’articolazione di una strategia, che vede nella “minaccia dell’indisponibilità alla didattica volontaria”, lo strumento più idoneo per imporre agli organi di governo degli atenei di prendere posizione in merito alla riforma, evidenziando le contraddizioni e le anomalie di un sistema universitario basato prevalentemente sull’apporto del ricercatore-docente alla didattica e a tutte le altre funzioni accademiche. I ricercatori sono 24.438 all’interno di un corpo docente costituito da 61.685 unità, e coprono più del 35 per cento dei corsi universitari. Si tratta anche di costringere facoltà e senati accademici a dichiarare al governo l’insostenibilità dell’offerta formativa a fronte dei tagli progressivi del fondo di finanziamento ordinario ed in assenza del contributo qualitativo e quantitativo dei ricercatori.

Caro direttore – scrive una ricercatrice dell’università di Cagliari al Corrriere della sera (27 luglio 2010) – I ricercatori, quelli almeno che hanno scelto di fare questo lavoro per passione, non chiedono assolutamente una ope legis. Sappiamo benissimo quanti sconquassi sono derivati dalla ope legis del 1980-81, quando di tutto è entrato in ruolo all’università saturandola e impedendo alle successive generazioni di accedere alla ricerca e, perché no, alla docenza. Noi (rete29aprile) chiediamo che venga riconosciuto quanto effettivamente svolto da molti per puro senso del dovere. L’Università ha sicuramente bisogno di una riforma ma non è tornando indietro di mezzo secolo e a costo zero che si risolvono i problemi attuali frutto dell’inerzia, della passività e del culto del particulare di molti dei professori ordinari, i quali hanno accettato ogni riforma praticamente senza colpo ferire. Tanto, loro, i figli possono sempre farli studiare all’estero. Noi vogliamo una Università pubblica, fondi per la ricerca assegnati effettivamente in base alla bontà dei progetti e non per inciuci tra gruppi di società scientifiche. Non temiamo la valutazione sulla nostra attività, per favore metteteci veramente in grado di lavorare senza perdere la dignità.

L’indisponibilità, quale forma di protesta che si diffonde a livello locale, interessa via via un numero sempre crescente di Atenei e coinvolge quasi il 50 per cento dei ricercatori strutturati[14]. Man mano che le discussioni intorno alla riforma si fanno più serrate, le posizioni dei ricercatori si divaricano su due fronti.

Il coordinatore del Consiglio Nazionale dei Ricercatori Universitari, Marco Merafina, accettando l’impianto generale della riforma, propone una ope legis mascherata, senza oneri per lo stato: inquadramento a richiesta nella seconda fascia docente per tutti quei ricercatori che fanno didattica certificata dalle facoltà e che mostrano di essere attivi nella ricerca, in cambio del mantenimento dello stipendio e della progressione economica da ricercatore.

Chi non vorrà potrà restare ricercatore in eventuale attesa di un concorso (quando ci sarà). Ovviamente al momento della richiesta si accetta tale progressione in attesa di una risistemazione delle curve retributive  di tutta la docenza e questo per evitare ricorsi volti a ottenere gli scatti da associato subito appena inquadrati. Questa soluzione porta ulteriori benefici. I soldi risparmiati potranno consentire una credibile attuazione del piano di reclutamento dei ricercatori a tempo determinato e conferirebbero credibilità alla tenure track, almeno dal punto di vista della compatibilità finanziaria (…). I ricercatori, così inquadrati in seconda fascia, non subiranno il pericolo di essere pre-pensionati, visto che la norma espressamente esclude dal provvedimento i professori universitari. Essi inoltre potranno finalmente ottenere di andare in pensione non più a 65 anni ma a 68-70. (Marco Merafina , L’Aquila, 3 dicembre 2009).

La posizione opposta è espressa dal movimento dei ricercatori, che, rifiutando la logica corporativistica e strumentale di una ope legis, convoca due assemblee nazionali, a Roma e a Milano, per avviare un coordinamento delle molteplici iniziative locali di lotta. Il 29 aprile 2010 ricercatori da oltre 35 sedi danno vita a Milano alla Rete 29 Aprile. Dopo un lungo lavoro, la Rete rilascia un documento, che viene consegnato a soggetti politici di tutti gli schieramenti, ai Rettori e al Ministro dell’Università. Il documento interviene su tre punti: il sistema di finanziamento dell’università pubblica, l’assetto della governance, e il sistema di reclutamento e regolazione del personale docente. Sul primo punto, si richiede l’abolizione dei tagli al finanziamento degli atenei, della ricerca e del diritto allo studio, e l’uso della valutazione delle strutture come metodo prevalente nella distribuzione delle risorse, con eventuali premialità aggiuntive. Rispetto alla governance, si richiede il mantenimento dell’autonomia e del carattere pubblico del sistema universitario, con presenza maggioritaria, su base elettiva, delle componenti universitarie rispetto a quelle esterne, e con partecipazione paritetica  in tutti gli organi di governo e gestione degli atenei. Rispetto al reclutamento, si richiede una riorganizzazione delle tre fasce attuali in un ruolo unico, articolato almeno su tre livelli, con adeguata retribuzione per gli oneri aggiuntivi rispetto alla normativa vigente; il finanziamento di un reclutamento straordinario finalizzato al raggiungimento della media europea nel rapporto docenti/studenti; la  previsione, con finanziamenti dedicati, di un numero adeguato di progressioni di carriera per gli attuali ricercatori a tempo indeterminato mediante valutazione nazionale; l’equiparazione con i professori universitari associati e ordinari in materia di  prepensionamento; e l’istituzione di un’unica figura pre-ruolo chiaramente legata a percorsi certi (tenure track), con l’allocazione delle risorse specifiche per la progressione di  carriera all’atto dell’assunzione.

Il coordinamento della Rete 29 Aprile è basato su due rappresentanti eletti da ciascuna sede: cento persone complessivamente. A giugno viene eletta una giunta di otto persone, che ha curato e coordinato la maggior parte dei contatti e dei rapporti con le organizzazioni sindacali e le forze politiche. Questa struttura organizzativa era finalizzata, in primo luogo a unificare e rendere visibili – attraverso la rete e il censimento delle indisponibilità – le molteplici forme di mobilitazione spontanea sorte in forma sparsa nei diversi atenei, in modo da socializzare il bagaglio di esperienze accumulate e di farne uno strumento di pressione presso le istituzioni accademiche locali. In secondo luogo, doveva servire a lanciare una campagna nazionale di sensibilizzazione per la difesa dell’università pubblica, a controbilanciare la campagna stampa mistificante e giustificazionista pro Gelmini; ed ad elaborare un corpo organico di emendamenti, espressione della volontà di una “riforma dal basso” dell’università.

Tuttavia la complicità di buona parte delle istituzioni accademiche – in primo luogo della conferenza dei rettori (CRUI) – con le linee di riforma espresse dal governo ha ben presto evidenziato i limiti e le difficoltà di questa azione strategica sia sul primo che sul secondo fronte.

Il dilemma dell’indisponibilità

L’indisponibilità alla didattica è stata la forma generalizzata di protesta. Il movimento dei ricercatori l’ha sostenuta nella prospettiva di costruire un soggetto collettivo capace di resistere produttivamente all’attacco contro l’università pubblica, non considerando invece che gli interessi dei ricercatori, sia come singoli che come movimento, erano del tutto divergenti da quelli dei rettori e delle strutture di governo dell’università, ormai disegnati secondo una logica accademico-aziendale: I presidi avendo la responsabilità dell’autonomia della didattica sono stati soggetti a pressione da parte dei rettori, ed hanno fatto pressione sui singoli docenti attraverso una linea gerarchica verticale, sostenuta praticamente e discorsivamente dalla paura di rimanere isolati.

Questi diversi livelli di condizionamento hanno avuto un impatto considerevole nel modo in cui si è strutturata la mobilitazione. Ha fatto emergere contraddizioni che hanno inciso sulle strategie e le forme di lotta, e sulla loro efficacia nel dipanarsi concreto del processo di mobilitazione nelle sedi locali. L’efficacia dell’indisponibilità nell’esercizio quotidiano dei rapporti di potere interni agli atenei si è scontrata con molteplici condizionamenti: il sistema di cooptazione presupposto alla valutazione dell’attività, la corresponsabilizzazione nel processo di governance, la responsabilizzazione nei confronti degli studenti.

Piuttosto che arroccarvi in queste posizioni – ammoniva un professore ordinario – dovreste considerare il duro lavoro che abbiamo fatto ai fini del vostro reclutamento. Dovreste essere grati  a coloro che hanno lavorato giorno e notte, spendendosi in centinaia di ore di didattica per assicurarvi un futuro…

E un ricercatore scriveva:

Non sono del tutto d’accordo con questo Aventino [l’indisponibilità] – soprattutto perché in talune sedi ci sono i numeri sufficienti per rimpiazzare i ricercatori che lasciano le cadreghe. Ma è il solito dilemma fra cambiare da dentro o cambiare da fuori. Chi non ha alcuna cadrega, che farà? Io dico che servono iniziative più ampie e coinvolgenti per tutti i ricercatori e i precari (Varese).

Evidentemente in questo frangente non sono in gioco le gerarchie, ma le relazioni di potere che si configurano nei termini di protezione-gratitudine, dono-tributo. Sono presupposti alla struttura di corporate governance che rende ciascuno fungibile all’altro dentro una griglia di meriti che misura il rendimento e premia la “collaborazione”. Nel momento in cui c’è il ritiro dei crediti dalla didattica, il ricercatore esercita il diritto di sottrarsi alla didattica ma non può sottrarsi al giudizio. Questo è un primo vincolo per esaminare l’efficacia individualizzante del sistema di cooptazione sulla mobilitazione dei ricercatori.

Per molteplici motivi (tra cui l’intenzione di non assecondare un sistema che funziona male) quando si è trattato di dare conferma per inviare al ministero la programmazione ho deciso di rinunciare. A voce mi è stato detto che la facoltà si sarebbe ricordata del mio gesto, ma naturalmente non possono fare nulla ‘ufficialmente’ contro la mia posizione (Udine).

Un secondo vincolo attiene la logica inclusiva della governance, che corresponsabilizza i ricercatori nella gestione quotidiana del problem solving. Lo scorporamento delle facoltà in corsi di laurea li ha coinvolti nelle attività tecnico-gestionali di programmazione della didattica. L’autonomia didattica e gestionale degli atenei e la struttura dei crediti connessa al 3 + 2 ha ridefinito i compiti dei singoli docenti, chiamati ad associare alle classiche funzioni di ricerca e di docenza altre collaterali di carattere amministrativo e tecnico-gestionale, ponendoli vieppiù come risolutori di problemi. Data la prassi di delegare verso il basso i compiti aggiuntivi e collaterali, all’ambivalenza normativa della figura del ricercatore quale docente-apprendista si associa quella di problem solver, direttamente connessa alla pressione esercitata dagli organi di governo degli atenei.

Alla mia Facoltà di Lingue il rettore è venuto a dire già a settembre che avrebbe chiuso tutto se non fossimo rientrati; non so quanto è stato efficace, ma ciò che gli ho risposto è stato di ribaltare la minaccia in un punto di forza: ‘visto che i ricercatori hanno per un decennio dato prova di responsabilità nel tenere aperti i Corsi di Laurea, è arrivato il momento che il Rettore faccia qualcosa per noi appoggiando la nostra protesta’… Appena gli ho chiesto se sarebbe stato lui a comunicare ai media che, in un territorio a vocazione turistica, sarebbe stata chiusa la Facoltà di Lingue, il rettore si è rabbonito (Lecce)

I presidi e presidenti di Corsi di Laurea hanno appena messo a bando gratuito tutti gli insegnamenti dei ricercatori, dicendoci senza mezzi termini, che saremmo degli irresponsabili e sopratutto sleali a far andare vuoti i bandi tutto a danno degli studenti. (…) Io sono in sincero imbarazzo… Di fronte a colleghi che manifestano sui tetti, ci sono altri che come me si trovano a scontrarsi con il sistema che continua ad incalzare e quasi mi vergogno di dover sollevare questo problema in questi termini!!!! (Teramo)

Se i ricercatori di lingue non fossero andati in aula il rettore avrebbe chiuso la facoltà il giorno dopo, con il danno non marginale di lasciare un numeroso gruppo di precari senza più nessuna struttura di riferimento (come si ricicla un borsista di lingua araba? lo mandiamo a fare il mediatore culturale in una asl? (Genova)

Dopo l’iniziativa scritta dell’amministrazione contro l’indisponibilità alla didattica ufficiale (le 40 ore che il Senato accademico indica come obbligo didattico dei ricercatori), l’unica cosa che è successa è che nessun altro ha ancora dichiarato la sua indisponibilità… Iniziative formali (comunicati o altri atti ufficiali) a sostegno dei  ricercatori indisponibili non ce ne sono stati. Non se ne registrano  neppure da parte dei ricercatori mobilitati diversamente disponibili. Per ora non abbiamo avuto risposte né dal CUN né  dal MIUR. Mi è stato spiegato che questo cambierebbe la posizione dei colleghi. Insomma, ci sono difficoltà  a distinguere il dato politico da quello  amministrativo. (Bergamo).

Il terzo vincolo è relativo al rapporto docente-studente, un rapporto essenzialmente regolato dal valore di scambio tra gli studenti-stakeholders (“portatori di interessi”) e i docenti che forniscono un servizio in un’ottica di clientarizzazione. Con l’avvento dei nuovi ordinamenti, i contenuti specifici degli insegnamenti confluiscono nell’offerta al pubblico dei corsi (i manifesti degli studi). L’insegnamento è spesso percepito dagli studenti come un puro servizio finanziato mediante le loro tasse, pretendendo di conseguenza di avere potere decisionale in merito.

La mia rinuncia all’indisponibilità (…) non è dovuta a ricatti (il mio settore è cruciale – Economia politica – e in tutta la Facoltà siamo solo 3 ricercatori, nessun PA e nessun PO, certo non rischia di chiudere; quanto ai corsi di laurea, voglio vedere chi avrebbe il coraggio di chiuderli, non sono certo di nicchia!). Ho rinunciato perché i miei quasi 500 studenti non avrebbero capito (ho iniziato le lezioni il 27 settembre, troppo presto), e soprattutto perché molti miei colleghi di Facoltà stavano approfittando della situazione senza minimamente esporsi (se devo fare qualcosa per gli altri gratis, preferisco aiutare dei diciannovenni alla ricerca di una strada piuttosto che dei colleghi ricercatori supponenti che non hanno nemmeno avuto l’umiltà di provare a comprendere i danni del DDL). (Genova)

Infine c’è un tipo di condizionamento legato alla soggettività del ricercatore responsabile di un contenuto scientifico di cui si fa portatore mediante l’attività di docenza.  È l’ambito entro cui un ricercatore può diventare effettivamente visibile. Da una parte, infatti, il coinvolgimento nella didattica sottrae tempo alla ricerca, dall’altra però permette di socializzarne i risultati:

Confesso di avere dei forti dubbi a firmare [il ritiro della disponibilità] ciò che non so se riuscirei a mantenere. Nella mia materia ci sono pochi associati, gli ordinari sono tutti prossimi alla pensione, dopo di che la storia dell’Africa scomparirà dalle università italiane e data la mentalità occidentalocentrica, diffusa nella mia come in altre facoltà che ne vedrebbero volentieri la scomparsa o almeno la fagocitazione da parte di macrosettori non specializzati (called tuttifrutti)… è una responsabilità enorme e ne sento tutto il peso. Come già in precedenza, mi chiedo se una forma di pressione ‘di piazza’ non sarebbe molto più incisiva mettendo meno a rischio i soliti 4…. (Ateneo non indicato)

So che ‘posso’ rifiutare anche di fare questa didattica, ma non so  se ‘voglio’ e se lo ritengo la scelta più sensata. Trascurando per un attimo gli obblighi di legge, ho sempre ritenuto che un impegno didattico di questa portata sia soprattutto utile ad un ricercatore. A me lo è stato molto, ho imparato come si insegna quello che a me ormai sembrava una banalità. Giuro di non aver mai dovuto sacrificare la mia ricerca per questo. Da un lato a me piacerebbe continuare a protestare contro le situazioni oggettivamente ben più pesanti della mia, ma ho parecchi rimorsi. (Udine)

Questo è  il problema più  vecchio del mondo: che si fa dopo lo sciopero? Insomma, la prima protesta garantita dalla costituzione è lo sciopero, ma si può scioperare per sempre? Non saltatemi addosso, conosco bene i ‘distinguo’ fra la nostra protesta e lo sciopero. Ciò non toglie che l’indisponibilità a vita è scarsamente praticabile, così come lo sciopero ad oltranza. Anche perché a me per primo il rapporto con gli studenti inizia a mancare. Ho un po’  paura di chiudermi nel mio ufficio a fare ricerca senza mai alzare lo sguardo sulle nuove generazioni. (Siena)

È in questo clima che il rettore del politecnico di Torino, Profumo, lancia un monito ai ricercatori, definendo la loro una lotta tra poveri che rischia di sfavorire oltre misura le famiglie meno abbienti e quindi impossibilitate ad iscrivere i propri figli ad una scuola privata, e cercando di commuovere le coscienze, perché ritornino tra le cattedre usando come scudo la difficile situazione economica delle famiglie italiane di oggi.

L’effetto di questo insieme di strutture di contenimento è stato di svuotare dall’interno il significato e la posta in gioco di un movimento che ha fatto dell’indignazione non solo il momento costitutivo del conflitto, ma l’agenda stessa della propria soggettivazione, con il risultato che il disegno di legge è stato implementato prima ancora dell’approvazione in parlamento grazie alla complicità delle istituzioni di governo dell’università.

La CRUI, massima espressione della governance accademico-aziendale dell’università, si è posta come appendice operativa del governo nell’attacco al sistema universitario pubblico per difendere le posizioni corporative di chi lo mal governa. Il suo presidente, Decleva, rettore della Statale di Milano, non ha perso occasione per dichiarare agli organi di stampa nazionali l’auspicio che la riforma dell’università venisse approvata in fretta.

La proposta di legge del Ministro Gelmini approvata oggi dal Consiglio dei Ministri, per l’ampiezza del suo impianto e la valenza riformatrice degli interventi previsti, rappresenta un’occasione fondamentale e per molti versi irripetibile per chi ha davvero a cuore il recupero e il rilancio dell’università italiana […]. È indispensabile, e per più aspetti pregiudiziale, che all’avvio del processo riformatore, e a garanzia della sua credibilità, corrisponda una disponibilità adeguata di risorse[15].

Mentre il disegno di legge era ancora in via di definizione ed approvazione, in molti atenei si discuteva di chiusure e accorpamenti di corsi di laurea. Ecco il resoconto di una ricercatrice della Ca’ Foscari:

Vorrei provare a fare il punto di quanto è avvenuto nell’ateneo veneziano negli ultimi dieci giorni. L’ultima riunione con i colleghi storici ha decretato la fine del Dipartimento di Storia a Venezia. Il dipartimento di Studi Storici ha iniziato la propria attività nel gennaio 1984, ma quel mercoledì, in seguito all’ennesima riunione che vedeva all’ordine del giorno la ristrutturazione dei dipartimenti secondo le linee guida del DDL Gelmini, il dipartimento ha sostanzialmente chiuso i battenti, dopo aver perso la propria autonomia rispetto ad altri più grandi macro-dipartimenti sostenuti da una maggiore quantità di capitale e di afferenti. Sapevamo tutti che sarebbe accaduto, ma forse per ingenuità, o forse perché comunque continuavamo a pensare che non poteva essere vero, ci eravamo illusi che non sarebbe stato possibile gettare al vento trent’anni di lavoro di storici, antropologi e sociologi. Invece sì. Da un momento all’altro eravamo accademicamente senza tetto, e poiché la riforma prevede che i nuovi dipartimenti siano contraddistinti dall’unitarietà tra ricerca e didattica, quel mercoledì pomeriggio non solo docenti e ricercatori diventavano naufraghi dentro l’accademia, ma anche gli studenti, visto che un corso di laurea che non afferisce a nessun dipartimento tende gradualmente all’esaurimento[16].

Posta la scissione tra disposizioni etiche del movimento e opzioni strategiche, grazie all’efficacia disgiuntiva del dispositivo meritocratico-finanziario della governance multi-livello, l’azione di contrasto alla riforma si è trasformata in una prassi di problem solving agita a livello locale dai ricercatori indisponibili, costretti a inseguire soluzioni per neutralizzare l’azione contenitiva delle istituzioni di governo; e a livello nazionale dalla rete 29 aprile, impegnata in una serrata azione di lobbing nei confronti dei deputati di governo e opposizione nell’intento di bloccare la riforma. L’esito finale di questo processo, è l’occupazione dei tetti degli atenei e dei monumenti cittadini, come “ultimo drastico tentativo” per  ottenere l’attenzione del governo.

“Non mi basta di aver perso”

Un anno fa ero chiuso nel mio ufficio, mi occupavo delle mie ricerche, non sapevo come funzionava l’università in cui lavoravo e in fondo non mi interessava così tanto saperlo, non conoscevo gran parte dei colleghi al di fuori del mio dipartimento e in realtà ero convinto che le gerarchie esistenti e i rapporti di potere erano angoscianti, assurdi, sbagliati, anacronistici, ingiusti ma non capivo come sarebbero potuti mutare. Un anno fa i miei studenti erano studenti e basta, per i quali pensavo – e continuo a pensare – che fosse necessario un approccio critico alla mia disciplina ma di cui non mi ponevo il problema della loro condizione esistenziale, di generazione senza futuro. Un anno fa, anche per questo, mi sarei immediatamente dissociato dalla violenza non perché adesso invece mi assocerei (la violenza mi mette, per così dire, culturalmente, psicologicamente e fisicamente in difficoltà) ma perché un anno fa mi sarebbe bastato per salvarmi la coscienza e sentirmi dalla parte dei buoni. Un anno fa non sarei stato sconfitto perché non avrei combattuto. Un anno fa mi sentivo vecchio. Adesso è cambiato tutto? No, certo, non ho avuto attacchi di giovanilismo ma non mi basta aver perso.

Non mi basta perché so che quella che abbiamo creato è una comunità vera, fatta di testa e di pancia, che dà un senso al mio lavoro e al mio essere cittadino. Penso che la Rete [29 Aprile] debba ricominciare a fare quello che un anno fa e per molti mesi aveva sviluppato, e che poi l’emergenza (la lunga emergenza di questi mesi) non ha sotterrato ma ha reso obiettivamente più difficile, ossia costruire nel conflitto e nella differenza un’identità comune: un’identità politica e culturale la cui fluidità è misura della sua possibilità di non essere ingabbiata ma che per questo è anche sottoposta naturalmente alle torsioni e alle difficoltà che nascono dal dialogo continuo con altri soggetti che non si sovrappongono in modo meccanico ai nostri interessi e prospettive. Cosa lega la Rete agli operai della Fiat, ai cittadini che protestano per i rifiuti, ecc.: tanto e poco contemporaneamente ma non può essere deciso una volta per tutte. (Torino)

La dichiarazione di indisponibilità alla didattica, il cui valore iniziale era stato quello di mettere in discussione l’abitudine generalizzata all’assenso indiscusso e all’accondiscendenza interna all’accademia, si trasforma, nel dipanarsi concreto della lotta e nei processi di soggettivazione che innesca, nel riconoscimento di un limite ormai superato e nel desiderio di liberare l’intelligenza collettiva dalla gabbia della rassegnazione, della conformità, e dell’opportunismo. “Non mi basta di aver perso”, l’espressione emblematica del salto dalla “disponibilità a tutto all’indisponibilità attiva”, è alla base dell’esplosione di piazza del 14 e  del 22 dicembre. Quest’ultima accompagnata dalla slogan “Siamo gli stessi del 14 dicembre” e “Non abbiamo paura di voi”. Nelle lotte contro le politiche di austerità, in difesa del welfare State, dei diritti del lavoro e della conoscenza come beni comuni, si vanno definendo le tracce di una costruzione collettiva che cerca di difendere le garanzie acquisite, e di qualificare la conquista di nuovi diritti.

Non c’è uscita istituzionale al declino, la via d’uscita va costruita. In questi mesi si è innescato un processo. Sublime e complicato, che ha rivelato gli opportunismi antisociali che posseggono l’Italia e l’accademia, e ha rivelato anche il bisogno di liberare l’infinita capacità propositiva dell’intelligenza e della sensibilità collettiva. La scelta è tra la disponibilità a tutto e l’indisponibilità attiva. E comunque vada, il desiderio ha cominciato a sedurre l’obbedienza, e non a lungo si possono contenere le onde. (Ca’ Foscari[17]) .

Come ha scritto Foucault: Dire di no, costituisce la forma minimale di resistenza. Ma naturalmente, in certi momenti, è molto importante. Bisogna dire di no e fare di questo no una forma di resistenza decisiva”.

[Questa analisi è stata pubblicata in Inchiesta 172, 2011]


[1] Diamanti, I., “I giovani si sentono senza futuro. Ecco che cosa ha acceso la scintilla”, La Repubblica, 6 dicembre 2010.

[2] Lista di discussione “Ricercatori italiani a confronto”.

[3] Bascetta, M., “Filosofia della reazione”, Common, n. 0, settembre 2010. Il numero zero della rivista propone un’inchiesta sulla crisi dell’università nel capitalismo cognitivo, a partire dalle riflessioni ed esperienze maturate in seno al movimento dell’Onda.

[4] La scheda di valutazione bilanciata, in inglesebalanced scorecard”, è uno strumento di supporto nella gestione strategica dell’impresa che permette di tradurre la “sua missione” e la sua “strategia” in un insieme coerente di misure di performance, facilitandone la misurabilità. Cfr.: Kaplan, R.S., Norton, D.P.,“The balanced scorecard: Measures that drive performance”, Harward Business Review, gennaio-febbraio 1991

[5] Il “benchmarking” è “un processo continuo di misurazione di prodotti, servizi e prassi aziendali, mediante il confronto con i concorrenti più forti”, Camp, R. Benchmarking. Come analizzare le prassi delle aziende migliori per diventare i primi, Itaca, 1991

[6] Per una esauriente analisi, Longo, F. “Ricercatore universitario? No, professore a basso costo pre-pensionabile, 2010,  http://w3.uniroma1.it/cnru/wp-content/uploads/2010/02/longo.pdf

[7] CRUI, Scheda sulla legislazione in materia universitaria,  http://cnu.cineca.it/docum06/scheda_leggi_universita.pdf

[8] Per una documentata analisi del movimento dei ricercatori contro la riforma Moratti, “I ricercatori precari e il futuro dell’Università, Inchiesta, n. 150, 2005

[9] Il new public management è un modello di governance non rappresentativa fondato su due principi cardine: 1. Maggioranza di membri esterni nel consiglio di amministrazione; 2. Vertice esecutivo nominato dall’organo di governo con funzioni manageriali anziché di rappresentanza politico-accademica.

[10] Morrucci, L. “La riforma dell’università parte dalla governance”, www.Lavoce.info, 26 ottobre 2010.

[11] Azzariti, G., Burgio, A., Lucarelli, A., Mastropaolo, A.,“Scacco alla Gelmini in cinque mosse”, Il Manifesto, 5 gennaio 2011.

[12] Coin, F. “ Generazione indisponibile. Il desiderio sedurrà l’obbedienza”, Meno di Zero, n. 2, luglio-settembre 2010.

[13] Cit.

[14] A luglio 2010 51 atenei, 375 Facoltà, 9383 ricercatori su 19588 (dati censiti dalla rete 29 aprile).

[15] CRUI, “Approvazione DDL Gelmini. Dichiarazione di Enrico Decleva, presidente della CRUI”, www.crui.it, Roma 28 ottobre 2009.

[16] Coin, cit.

[17] Coin, F., “Università e mercato. Un movimento asincrono”, Il Manifesto, 23 novembre 2010.

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Category: Scuola e Università

About Giovanna Commisso: Ricercatrice nella Facoltà di economia dell'Università della Calabria, area "sociologia dei processi economici e del lavoro"

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