Maurizio Matteuzzi: I laureati sorpassano le matricole ma c’è poco da celebrare
Di recente è apparso su La repubblica del 3 gennaio 2014 un articolo senza dubbio non trascurabile di Sandro Intravaia dal titolo Sorpresa più laureati che matricole. L’Università celebra il sorpasso. Da esso si evince che, nota positiva, anzi, più che positiva a tutto favore dell’efficienza dei nostri atenei, i laureati sono per la prima volta di più dei nuovi immatricolati. Evviva.
Non so perché, ma la prima traccia mnestica che mi si attiva riguarda un celebre miracolo: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Miracolo, miracolo: noi immettiamo x matricole, e produciamo x+ n laureati. Che cosa significa? Come facciamo? Diamo due lauree a ciascuno? (in larga parte è così, dati i conti a vanvera dell’autore, come hanno già notato in diversi).
Ma al di là dei paradossi, e della sterile constatazione, che dobbiamo fare per l’ennesima volta, che i giornalisti, specializzati o generici che si vogliano etichettare, quando parlano di università dicono cose risibili e incommentabili, a cominciare dalla prorompente first lady, compagna del nostro amato presidente del consiglio (fortunatamente per adesso con la “a” minuscola), qui dobbiamo notare che l’intervento si accoppia, in modo apparentemente naturale, alla celebrazione della così detta riforma Berlinguer, la fatidica introduzione del 3+2, cioè della distinzione tra lauree triennali e biennali. E non a caso all’articolo citato fa da pendant una autocelebrazione fatta dal medesimo Berlinguer della sua “riforma”. E allora la questione reale, al di là dei maccheronici conti di Intravaia, si deve incentrare sul 3+2.
Che il livello degli studi superiori si sia notevolmente abbassato, men che licealizzato, con l’introduzione del 3+2, è opinione largamente condivisa dalla comunità scientifica, e direi è ovvietà su cui non serve spender parola.
Il punto fondamentale, su cui i numerosi critici del 3+2, tra i quali mi piace annoverare l’amico Piero Bevilacqua, che in più occasioni su questo punto si è espresso chiaramente, non mi pare si siano soffermati con sufficiente attenzione, è degno di analisi a tutt’ora non fatta. Alla introduzione di questa “riforma” molti colleghi ne individuarono indubbi benefici (per loro): un corso che finisce in un mese, e di cui ti liberi, ma non è un sogno? Sei ore alla settimana, un mese circa et voilat, hai finito.
Prima ancora dell’introduzione del 3+2, quando si cominciarono a introdurre i così allora detti “corsi intensivi”, il compianto collega Roberto Dionigi, e il sottoscritto, lanciarono ogni tipo di anatema su questo andazzo, proponendo petizioni e raccogliendo firme. E ben ricordo che vi fu un’adesione quasi plebiscitaria nell’ambito degli insegnanti di filosofia, a cui ci eravamo rivolti. Naturalmente tutto ciò ebbe effetti nulli. E allora cerchiamo di spiegare qui una volta di più le nostre perplessità. Un corso di, poniamo perché ne sono pratico, filosofia del linguaggio, o, a maggior ragione, di filosofia teoretica, si può svolgere in un mese? Dal punto di vista dell’insegnante certamente sì. Anzi, io potrei svolgere le mie trenta ore in una settimana, o anche in quattro giorni. Ma, come al solito, ci si pone dalla parte del docente. E il discente, e i suoi diritti, e la sua resa? Qui si prescinde completamente dal problema dei “tempi di assimilazione”. Io dico sempre ai miei studenti che va bene leggere, ma si dovrebbe anche “pensare”.
In altri tempi, io cominciavo il corso a novembre, e il corso finiva a maggio inoltrato. In altre parole, il discorso si sviluppava in circa sette mesi. Con due interruzioni, quella di Natale e quella di Pasqua, che davano occasione di fare il punto: alla ripresa era naturale sintetizzare il pregresso, ricostruire brevemente il cammino già fatto, chiarire il filo logico del discorso.
Oggi i corsi sono spesso dimezzati: prevalgono corsi di 30 ore, al posto delle canoniche e storiche 60; e qui non posso esimermi da un esempio che sistematicamente faceva Dionigi: saltare due volte un metro non è lo stesso che saltare due metri.
Ecco, che il cursus studiorum sia articolato in un triennio e un biennio, o in qualsiasi altro modo, non è di per sé il fatto essenziale, anche se si capisce che vi siano soluzioni più o meno opportune (e, mi sia concesso notare en passant, non necessariamente uguali per tutte le discipline). La vera tragedia è questa parcellizzazione esasperata in tanti minicorsi, che presentano due enormi difetti, sui quali è quanto mai opportuno riflettere.
Primo: lo spezzettare le varie discipline in unità troppo brevi comporta la parcellizzazione del sapere, il che lo porta inevitabilmente ad allontanarsi dal pensiero critico e al farsi sempre più puro agglomerato di nozioni; tanto è che ora dilagano gli esami scritti a quiz. Insomma, filosofia teoretica, tanto per fare il solito esempio, somiglia molto a “lascia o raddoppia”, o all’esame per la patente (con tutto il rispetto).
Secondo: un conto sono i tempi del dire, un altro quelli del capire. Penso che sia facile rendersene conto. La mente umana ha dei tempi di assimilazione, di comprensione, che non possono essere contratti più di tanto. Essi sono diversi da persona a persona, né hanno andamento monotono o deterministico. Ed è quindi fondamentale concederne una quantità adeguata ai discenti.
Oggi non è più così: bisogna fare il corso in fretta, memorizzare quanto si riesce, e subito dopo sostenere l’esame, prima che ogni traccia mnestica si sia fatta evanescente; pena perdere il ritmo, perché subito dopo cominciano altri corsi, altre pillole da ingoiare.
Credo che se si fosse voluto allontanare gli studenti dall’esercizio del pensiero critico, dalla riflessione e dalla comprensione, non si sarebbe potuto fare di meglio. Cui prodest?
Category: Scuola e Università