Francesco Casula: Perchè è importante diffondere la lingua sarda
Diffondiamo l’intervista fatta da Manuela Orru al prof Francesco Casuka pubblicata sa www.serramanna.it il 21 settembre 2015
La scorsa primavera si è tenuto nei locali di via Rosselli, organizzato dall’UNITRE di Serramanna, il corso gratuito “Imparai su sardu. In sardu”. Mentore del corso l’inossidabile ed entusiasta professor Francesco Casula da Ollolai. Interessato e curioso anche il discreto gruppo di allievi, tutti over 40, impazienti di imparare o anche solo migliorare la conoscenza della lingua sarda. Il professore, oltre alle regole di grammatica, sintassi e morfologia, ci porta a conoscenza di fatti storici spesso ignorati dai sardi, di libri e poesie scritti in limba che ci rivelano la ricchezza e la capacità espressiva della lingua dei nostri avi. Ed è durante una di queste lezioni che mi viene l’idea di una intervista al professore, il quale si dimostra subito disponibile e gentilissimo. Quella che oggi pubblichiamo è una prima parte, sette domande e risposte delle undici totali. Abbiamo pensato di dividerla perché le risposte, tutte interessanti, necessitano di una riflessione da parte di ogni sardo che si senta tale. Confesso che l’unico rammarico è che il tutto si sia svolto per via telematica, mentre avrei preferito un incontro frontale capace di far emergere emozioni e “sentidusu” che la distanza nasconde. Ma non è detto che ciò non accada in un futuro prossimo. Buona lettura a tutti e se ne nascerà un vivace dibattito, tutti avremo occasione di acquisire maggiore consapevolezza sull’essere abitanti di questa terra chiamata SarDegna.
Intervista Parte I
1) Quando e perché ha deciso che la divulgazione della lingua e della storia della Sardegna sarebbero diventate una sua attività?
Le radici sono da ricondurre alla mia attività di docente nei licei e nelle scuole superiori. Quando – nella scuola italiana in Sardegna – ho avuto modo di sperimentare una impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale, ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda. Che ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare attraverso la smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra le più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Ma c’è di più: una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le “grandi civiltà” avrebbero voluto irradiare verso le “civiltà inferiori”, ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli. Di tale appiattimento, una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.
Nasce da questo contesto e da questa temperie pedagogica-didattica la mia scelta prima di insegnare la lingua sarda e la storia locale a scuola e in seguito di divulgarle, come tutt’ora faccio, dovunque posso. Perché i Sardi, partendo da radici robuste, – che solo la nostra lingua e la conoscenza della nostra storia può crearci – possano dotarsi di ali, altrettanto robuste, per volare alti nel mondo.
2) Ha senso oggi parlare di identità sarda?
Oggi più di ieri ha senso parlare di Identità sarda. Partendo dalla convinzione e dalla consapevolezza che la standardizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.
3) Di cosa hanno bisogno i sardi per recuperare o, se vuole, per non dimenticare la loro identità?
Hanno soprattutto bisogno di conoscere la loro storia. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. La diversità ci salva dalla omologazione–standardizzazione
4) Per anni ci siamo vergognati del nostro accento, della nostra lingua, in una parola vergognati di essere sardi. Oggi è ancora così o qualcosa sta cambiando?
Sia pure in modo ancora insufficiente, qualcosa inizia a cambiare nelle coscienze e nell’immaginario collettivo dei Sardi. Il senso di “vergogna di sé” è ancora forte e presente ma inizia ad essere incrinato.
5) Lei si è occupato di politica, di sindacato, di insegnamento: ritiene che queste tre attività siano capaci di dare risposte e opportunità ai sardi?
Finora il ruolo della politica come quello del Sindacato e della Scuola è stato gravemente insufficiente. Per responsabilità anche della “base”, di noi cittadini che avremmo dovuto essere più attivi, più protagonisti: tallonando continuamente politici, sindacati e scuola. E’ invece prevalsa la logica della delega, della de-responsabilità. Per cui molto spesso la politica è diventata affarismo, il Sindacato ha abbandonato il ruolo di difensore degli interessi dei lavoratori e la Scuola – come sosteneva Pier Paolo Pasolini – trasmettitrice di “residui retorici” e non creatrice e divulgatrice di cultura critica.
6) Secondo lei perché l’indipendenza e l’autonomia ci fanno paura? E perché sono diventate per i sardi parole vuote di significato?
Non sono parole vuole ma rischiano di esserlo. Nella misura in cui non riusciamo a riempirle di contenuti, progetti, visioni. Ci fanno paura? Non direi. E se così fosse è perché siamo stati abituati all’assistenzialismo dello Stato, senza il quale pensiamo che non ce la possiamo fare. Siamo tutt’ora convinti di essere dei nani che “aspettano giganti che li portino sulle spalle” (Marcello Fois in Dura Madre, pagina 192). Ma i giganti non esistono. E caso mai li abbiamo avuti noi i Giganti! Non dobbiamo cercarli altrove.
7) Lei oggi vive a Cagliari: eppure i festival letterari, le iniziative culturali partono quasi sempre dai piccoli centri. La provincia, is biddas, tengono vivo l’humus culturale dell’isola?
Condivido. Sono soprattutto is biddas a tenere vivo l’humus culturale identitario della nostra Isola. Così peraltro è stato nella nostra millenaria storia: con nostri paesi che hanno prodotto non solo cultura materiale (soprattutto agro-pastorizia) ma anche cultura immateriale.
Ricordo quanto scrive Bachisio Bandinu, forse l’intellettuale sardo più acuto e prestigioso:”Il pastoralismo ha dato vita all’intellettualità sarda. Proviamo a unire gli spezzoni della Sardegna a caratterizzazione pastorale a partire da Emilio Lussu e i cosiddetti re pastori di Armungia per arrivare in Ogliastra, Barbagia, Mandrolisai, Marghine, Logudoro e non solo. Pensiamo a Peppino Mereu, Mossa, Cubeddu, Murenu, la poesia orale degli improvvisatori, Deledda, Cambosu, Sebastiano e Salvatore Satta, Nivola, Ballero, Ciusa, i grandi avvocati nuoresi, Mastino, Oggianu, Pinna per non parlare di Antonio Pigliaru, di Michelangelo Pira e Antonello Satta. In senso antropologico vengono tutti dal mondo pastorale, escludiamo questa gente e vediamo cosa resta”.
Intervista Parte II
8) I nostri figli come possono imparare la storia della loro terra, la lingua dei loro avi? La scuola in questo non aiuta né forse ha mai aiutato e la famiglia anche peggio…
L’Istituzione, il luogo deputato per l’apprendimento (quindi anche della storia e lingua sarda) è oramai la Scuola: essendo venuta meno, da decenni, la comunità e la famiglia come “scuola impropria” (Michelangelo Pira), ovvero come strumento di trasmissione della cultura e dei saperi. Il problema urgente che dunque abbiamo è – come già dicevo – l’inserimento organico, come materie curriculari, nelle scuole di ogni ordine e grado, della cultura, storia, lingua sarda.
Partendo dalla constatazione che fin’ora invece la scuola italiana in Sardegna è stata storicamente strumento di “memorizzazione” e di “potatura” della nostra storia e, se possibile, ancor più della nostra lingua. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo – che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra.
Nella scuola si studia qualche decina di Piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie; ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia di comunità nuragiche indipendenti e federate fra loro.
Si studia Napoleone, piccolo e magro, resistentissimo alla fatica, ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e fu sconfitto. Si studia insomma l’Italia dalle amate sponde e dell’elmo di Scipio, ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta De Logu, di Salvatore Satta e della lingua sarda. Una lingua sarda ancora tenuta fuori dalla scuola:per insipienza politica e per immani pregiudizi da ricondurre o alla mala fede o semplicemente all’ignoranza crassa.
Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente. Ma c’è di più : la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Antonella Sorace, che insegna Linguistica acquisizionale all’Università di Edimburgo, dove ha creato un centro di informazione, Bilingualism Matters,(con filiali in tutta Europa, una ha operato anche in Sardegna) e che diffonde gli esiti delle ricerche fra i non addetti ai lavori, ha scritto che : “Un bambino che parla più lingue ha la mente più flessibile. È più capace di gestire conflitti tra informazioni diverse e selezionare ciò che conta”. E continua: “Un bambino plurilingue è anche più capace di comprendere il punto di vista altrui. Dietro ogni lingua c’è un modo di pensare, un’intera cultura: i bambini plurilingui lo percepiscono,gli adulti spesso no. Ma ci sono aspetti sociali rilevanti. Un bimbo circondato da persone che svalutano una delle lingue, magari perché la credono inutile e superata, come accade in Sardegna, crescerà meno motivato a parlare”.
9) Cosa ne pensa delle nuove invasioni dei mori? Allora non ci conquistarono con le armi e oggi riusciranno con i petrodollari?
Non ci conquistarono con le armi ma per più di un millennio la Sardegna è stata funestata dalle loro incursioni: dal 703 fino al 1816. Le conseguenze sono state immani: in termini di costi economici e delle perdite umane prima di tutto. Per non parlare della “paura del mare” che si creò nella psiche sarda: l’immagine del mare infatti sarà sempre associata alle figure dei pirati, a sos moros. Di qui la tendenza delle popolazioni costiere a ritirarsi nelle zone interne. Di qui l’abbandono delle tradizioni marinare e dell’agricoltura nelle aree litoranee, l’impaludamento delle zone costiere, l’accentuarsi della diffusione della malaria che s’aggraverà viepiù.
Oggi i nuovi “Mori” sono ancor più pericolosi: comprano con i loro petrodollari il nostro territorio con le zone marine e ambientali più belle e suggestive. Di fatto sequestrandolo ed escludendo i Sardi dalla possibilità di goderne. Così siamo diventati stranieri in casa nostra.
10) La “decrescita felice” della Sardegna può essere incentivata, promossa, auspicata?
La mia risposta è sì: può essere e dobbiamo promuovere e incentivare la Decrescita felice. Chiarendo per intanto che gli avversari, ovvero i trombettieri delle magnifiche e progressive sorti del neoliberismo e della globalizzazione continuano a farne la caricatura, per poi poterla facilmente combattere. Chi sostiene la decrescita – secondo loro – vorrebbe tornare al passato, alla candela, al carro a buoi, a una vita senza comodità. In realtà chi sostiene la Decrescita parte dal presupposto che la correlazione tra crescita economica e benessere non sia necessariamente positiva, ma che esistano situazioni frequentissime in cui ad un aumento del Prodotto interno lordo (PIL) si riscontra una diminuzione della qualità della vita. Con la devastazione della natura, con i danni profondi agli ecosistemi (il buco dell’ozono, la fine delle foreste, il problema dell’acqua, dei rifiuti) e alla salute degli uomini (nuove malattie fisiche, estesi malesseri psichici): nell’ intero Pianeta. Sardegna compresa. Perché l’intera questione dello “sviluppo” insano e devastante ci riguarda da vicino. Come la Decrescita appunto. Per cui al dominio delle “linee di metropoli” dobbiamo opporre le “linee di villaggio” e del territorio,visto non più come mero supporto di attività economiche ma sistema complesso di identità geografiche, ambientali, storiche, culturali, linguistiche.
11) Professore, ci consigli un libro da leggere in sardo, una poesia da conoscere, un saggio che ci illumini.
Un libro? NURAI di Gianfranco Pintore. ( Ed. Papiros, Nuoro 2002) Un eccellente romanzo scritto in Limba sarda comuna (alla faccia di chi parla di una “lingua artificiale o di plastica) in cui si narra una storia di spie e omicidi, ambientata nella Sardegna degli ultimi anni. Pintore con Nurai continua la sua esperienza di autore di romanzi gialli in cui uscendo dai canoni tradizionali del folklore, analizza e approfondisce i codici di comportamento di un popolo, in cui l’autore ha voluto mostrare il contrasto fra le due leggi, quella italiana e quella sarda, e il travaglio esistenziale che ne deriva.
Una poesia da conoscere?CUADDEDDU CUADDEDDU di Benvenuto Lobina, in sardo-campidanese. Una straordinaria critica, tutta modulata sull’ironia e lo sdegno, dell’industrializzazione petrolchimica in Sardegna con cui hanno venas i arrius/alluau tottu impari/alluau anti su mari/e is tanas e is nius./Bidda’ mes’abbandonadas/a i’ beccius mesu bius/a su prant’ ’e is pippius/a pobiddas annugiadas./Oh, sa mellu gioventudi/sprazzinada in mesi mundu/scarescendu ballu tundu/scarescendu su chi fudi.
Un Saggio? Sono modesto: consiglio i due volumi della mia “Letteratura e civiltà della Sardegna “(Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova 2011-2013). Per conoscere la nostra civiltà e la nostra produzione letteraria, artistica e poetica.
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