Alberto Cini: Delle 4 nobili verità del Buddha a un educatore ne basta una
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Delle 4 nobili verità del Budda ad un educatore ne basta una
Molte verità più o meno nobili sono estremamente “ovvie”, un “ovvio” esaltativo e non squalificante. l’ovvietà però, nel suo termine etimologico non è immediatamente apprezzabile o semplicemente utilizzabile.
Ovvio significa: “ciò che ti sta davanti”, davanti così come è in sé!
Ma questo fenomeno tanto “oggettivo” impatta sul meno “ovvio” senso del soggettivo. La verità è ovvia ma non lo è l’individuo che la percepisce. Il problema nasce in questo preciso punto, rispetto a quelle analisi che antropologicamente chiamiamo “tratti culturali”.
Se trasferiamo la difficoltà soggettiva, esistenziale o psicologica, evasiva o evitante, razionalizzante o mistificatrice, del trovarsi di fronte ad una istanza che è talmente “ovvia” che disarma, allevia la colpa verso le proprie responsabilità, spoglia di ogni attenuante. Siamo soli ed indifesi di fronte all’ovvio incipiente e letale.
Di fronte all’ovvio oggettivo ci si sente annullati della propria soggettività, si può manifestare il vuoto dell’essere, il baratro dell’esistente, quel tratto culturale complesso che è il pensiero del buddhismo contemporaneo. Il buddhismo essenziale inneggia ad un nichilismo pragmatico diverso dal nichilismo filosofico. Il nichilismo spirituale che tutto comprende non è il nichilismo del pensiero che nulla accetta, poiché per accettare il “tutto” per conseguenza logica “ovvia” devi essere “nulla”, altrimenti qualcosa resterà sempre fuori, e non ci sarà un “fuori” in una dimensione priva di limiti.
L’esperienza evolutiva invita quindi ad immergersi e scoprire che si può sopravvivere dentro a questo pneuma misterioso, è una sfida alla continuità dell’essere. Cosa poi sopravviverà all’essere non è dato a sapere, non è comunicabile se non con un atto di mancata ovvietà, un rifacimento della verità oggettiva in forma soggettiva, quindi una rappresentazione. le verità dichiarate divengono rappresentazioni, un piccolo consolatorio risarcimento alla mente pensante.
Eppure come diceva il mio insegnante Baba Bedi XVI discendente del guru Baba Nanak, ognuno di noi è destinato a conoscere la totalità, la totalità oggettiva nel cuore del soggettivo, in altre parole, conoscere il tutto nel cuore del frammento. Pur capendo che non è immediato per l’intelletto concepire il concetto di “totalità”, che anche se definito come solo “concetto”, è ben lontano dalla possibilità dell’essere compreso. La comprensione è qualcosa di più vasto del capire, che com-prende appunto, quindi prende dentro a sé, costituendo quel nucleo fenomenico dell’unione delle esperienze sincronizzate, legate all’esperire, al conoscere, all’interiorizzare, al trasformare in azione, al ridefinire la propria posizione al già conosciuto precedente, al sentire nelle viscere una voce impalpabile dell’assoluto, e così via… ma anche in questo caso una profonda comprensione di qualcosa, inteso ancora come porzione del tutto, tende comunque, a mio avviso, a rendere l’io personale più rarefatto, per giungere nella contemplazione dell’interiorità, all’azzeramento del senso del Sé e quindi all’esperienza mistica.
Il problema nella ricerca evolutiva dell’essere umano, che per me è la base dell’educazione e quindi del anche mio mestiere, vede come una costruzione della nostra mente razionale cognitiva, tutta la complessità che quotidianamente intrecciamo per difenderci dalla semplice ovvietà del vivere, una funzionalità della mente così tanto utile per controllare e gestire la sopravvivenza, ma così condizionante la percezione degli stati trascendenti dell’esistenza. Cerchiamo indefessamente di complicare la visione e la percezione di questo vuoto oggettivo, per difenderci dalla paura dell’annullamento. Cerchiamo di riempirlo a qualsiasi costo di cose, azioni, senso. Si teme l’azzeramento esperienziale come la cancellazione del Sé anzichè la pura essenza dell’esserci.
Alla meglio si cerca di avvicinarsi ad un simulacro del sacro con simboli, riti, vesti e gestualità. Come i giocatori di calcio che fanno il gesto della loro religione prima di entrare in campo alla finale, ma poi dopo la rassicurazione c’è solo la partita, gara di un’altro mondo che con quel gesto rassicurante non ha niente a che fare.
l’esperienza è quella di sentirti precipitare da un albero altissimo, così cerchi di afferrare qualsiasi ramo per salvarti, poi quando cadi al suolo, aspetti l’impatto doloroso, ma ti accorgi che non c’era nessun corpo da salvare, nessuna persona fisica ma solo presenza percettiva. Una coscienza che esperisce visione senza materia. È un sogno che ho fatto spesso e mi ha aperto maglie di consapevolezza.
Un educatore sa che le regole sono importanti ma è anche importante infrangerle, per trovare in quella tolleranza una funzionalità più solida che altrimenti l’estrema rigidità farebbe frantumare. Le regole andrebbero sempre scritte in positivo togliendo in “non”. Una volta riscrissi i dieci comandamenti come lo farebbe un qualsiasi educatore. Anche quelli più originali già appartenenti alla cultura ebraica, che erano ben più di dieci. Ad esempio “Non uccidere”, “non rubare”,”non dire falsa testimonianza” che sarebbero diventati: “rispetta la vita, ciò di cui altri possiedono e sii sempre sincero” . Così mi sono sempre piaciuti maggiormente. Chi potrebbe consigliare l’opposto, ruba e uccidi! Si falso con chiunque! Ecco l’ovvietà che diviene pericolosa, perché ti dice qual’è il bene semplice ma ti lascia solo nella tua fallibilità, debolezza, incoerenza nell’attuarli. Ma così diviene quasi un gioco o una tortura.
Le quattro nobili verità del buddismo mi sono sempre piaciute per la loro semplicità, per la loro appunto ovvietà. La pratica evolutiva al contatto con l’ovvio è non spiegarlo, non attivare meccanismi intellettivi che ti separino dall’esperienza, trovare il coraggio possibilmente di morire simbolicamente a se stessi per vedere se poi resuscita qualcuno, o qualcosa… la piccola essenza della tua completezza.
Ma se poi vogliamo interpretare e spiegare allora il divertimento è assicurato.
Già potremmo cominciare e finire il discorso solo con la parola Dukkha (dolore o sofferenza). È importante definire la differenza tra “dolore” oggettivo e “sofferenza” soggettiva. Mi piace essere superficiale e trattare il mondo che vivo come una giostra. Gira il mondo, girano le giostre, gira anche la ruota del Dharma per i buddisti.
Il dolore è inevitabile, la sofferenza si estingue con l’assimilazione della verità. La verità non è un concetto ma l’esperienza trascendente a qualsiasi soggettività verso il suo divenire in oggettività. L’essere “ovvio”, ciò “che ti sta davanti” che ti ingloba in se stesso, tanto da annullare un “fronte e retro” e tutta la dualità rappresentativa, crea nella sua trasformazione quel divenire costantemente presente chiamato Dharma. Ovviamente quando parli di “trasformazione” sia nel buddismo che in ambito educativo si alzano mille bandiere… la parola “attaccamento” scorre dalle teorie psicologiche dell’età evolutiva alle più recondite pagine delle chiavi buddiste. In entrambi i casi, la sofferenza è fortemente legata al rapporto tra individuo e l’elaborazione con questa esperienza, l’esperienza “dell’attaccamento” poiché il suo processo di manifestazione è fortemente legato ai modelli fisiologici e biologici di sopravvivenza, di identificazione identitaria, di realizzazione materiale, in parole povere, parafrasando Leonardo da Vinci, l’attaccamento è come la pittura, cioè l’arte del “mettere” per la crescita del mondo che cade nel percepibile, ad esso fa da contraltare il mondo della scultura, dove si esprime “l’arte del levare”, cioè la trasformazione del vivente, pezzo dopo pezzo, frammento dopo frammento, verso il suo meraviglioso scomparire, entrando nell’esperienza del non essere soggetto alcuno eppur esistere ancora.
Ma il primo verso delle 4 nobili verità è sufficiente: Dukka Sacca… verità della sofferenza o dolore.
Curioso il fatto che i carrozzieri di un tempo, così dicono i testi, quelli che parlavano lingua Pali, chiamavano Dukka il fenomeno della ruota che girava male, quando il mozzo (vuoto) non sosteneva il movimento rotatorio (ogni riferimento a Dharma o cosa è puramente casuale), la ruota era disassata, non trovava il suo equilibrio, il suo asse centrale (anche in questo caso l’analogia con la via di mezzo o la retta via è puramente casuale). In questo situazione la carrozza usciva di strada, faticava ad incedere verso la sua naturale destinazione.
Quando ero giovane i ragazzi con difficoltà di inserimento sociale venivano chiamati “devianti”, nella disabilità si devia dalla norma, tutti desiderano essere “normali”, ma questa normalità era della ruota sociale limitata al modello culturale specifico, modello dove i valori e le rappresentazioni erano condizionate e funzionali al particolare e non all’universale. Concepire l’azione educativa del particolare nella sua dimensione universale potrebbe agire su quell’aspetto “causa/effetto” che nella tradizione orientale chiamano karma (dico sempre ai miei utenti che ci vuole Karma e sangue freddo nella vita).
Mentre la parola Sukka significa il contrario, cioè che la ruota gira bene, è in asse. Perché quindi non chiederci allora, anche qualcosa del “shukka sacca”, aggiungiamoci noi questa ancor nobilissima verità, realtà dell’armonia oggettiva, precipitiamo voracemente verso la meraviglia di questo incessante divenire, tuffiamoci nel vuoto del mozzo della ruota, nudi come bambini anarchici, senza cose, senza corpo, tagliando tutti i ponti con l’esistente rappresentabile, anche con la nostra identità spalmata sulla pelle come una crema solare che ci difende dai raggi di quella luce originale che ci brucerebbe in un attimo. Questo taglio è impensabile anche se qualche mistico l’ha sicuramente vissuto, come San Francesco. Tagliare i legami, appunto è una caratteristica della vita mistica, i tibetani ne hanno fatto una pratica e concetto culturale importante chiamata “Chod”(significa taglio). Un taglio che anziché separare ti unifica profondamente al tutto. l’ho sempre chiamato il “taglio unificatore”.
Il buddismo è molto pedagogico, mi ha sempre interessato la struttura mirata e a volte anche esasperata della sua metodologia educativa a scopo evolutivo.
La sofferenza per me resta sempre un concetto marginale nelle quattro nobili verità del canone buddistico. Questa parola, sofferenza, ha avuto molto successo, ovviamente attira, ma spesso fa di queste verità la speranza di un balsamo lenitivo. Anche se un saggio balsamo può servire inizialmente, ma va poi abbandonato altrimenti facciamo della spiritualità una farmacia .
Spesso, nelle situazioni da me vissute nel lavoro educativo, l’essere fuori asse (Dukka) passava dalla felicità non ponderata, dalla soluzione veloce e dalle azioni più efficaci ma meno lungimiranti. L’eccitamento di una gioia senza sentimento, un’allegria non compassionevole, il piacere contratto nella rivalsa. Un lavoro che non fa per te, un passatempo annoiato, un amore senza convinzione.
Un educatore deve lenire la sofferenza, senza però togliere il dolore, il dolore è energia da convertire in spinta evolutiva, una trasmutazione della persona attraverso il nero combustibile del disagio, attivando e canalizzando il fuoco rosso della trasformazione, ponendola in asse (shukka) sincronizzandola con la ruota di quel divenire evolutivo, che da un senso di bianco appagamento.
Il sacro disagio doloroso che ti avverte della deviazione e del pericolo, prima di voler eliminare questo dolore bisogna educare al suo ascolto. Col tempo passa il tormento, passa la gioia, resta quel senso inesprimibile di presenza, di essere oltre all’esistere, lampo di quell’equilibrio che odora di completezza e totalità vissuta.
Tutto questo come possibile un’esperienza “ovvia”? Eppur ci provo…
Concludo, come un educatore regista, sul tema delle 4 nobili verità, alla fine delle riprese non gli resta che urlare “Buona la prima!!!!” .
Category: Scuola e Università