Moreno Montanari: L’eredità junghiana come individuazione

| 15 Dicembre 2016 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo  da www.doppiozero.com del 15 dicembre 2016

 

“Questa, dunque è la mia strada; qual è la vostra? Così rispondevo a coloro che mi da me vogliono sapere lastrada. Questa strada infatti non esiste!”

“Voi non avevate ancora trovato voi stessi: quand’ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò ogni credenza è così poco importante. Ora io vi ordino di dimenticare me e di trovare voi stessi, e solo quando voi mi avrete rinnegato tornerò da voi.”

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra.

Vietato imitare. Il titolo del primo capitolo del libro nel quale Romano Màdera traccia la sua personalissima maniera di raccogliere l’eredità terapeutico-culturale dell’opera junghiana ci conduce immediatamente al cuore del problema: l’unico modo per restare fedeli all’insegnamento di un maestro che amava dire che grazie a Dio non era junghiano, è rigettare ogni tentazione di assumerlo a modello da imitare. Per raccoglierne davvero l’eredità occorre, scrive Màdera, “abbandonare la via dell’imitazione a favore di quella dell’individuazione”. È lo stesso Jung, del resto, a suggerirci di muoverci in questa direzione quando, in Ricordi, sogni e riflessioni, prende le distanze dal convenzionale modo d’intendere l’imitatio Christi:

“Cristo è l’esemplare che vive in ogni cristiano come sua personalità totale. Ma il corso della storia portò alla imitatio Christi, con la quale l’individuo non segue il proprio fatale cammino verso l’interezza, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo. Anche in oriente lo sviluppo storico portò a una devota imitatio del Buddha, e questi divenne un modello da imitare: con ciò la sua idea perdette di forza, così come l’imitatio Christi fu foriera di una fatale stasi nell’evoluzione dell’idea cristiana.”

Nel Libro rosso Jung – tracciando forse una sorta di inconsapevole double bind – chiarisce che un simile atteggiamento vale anche per il suo insegnamento:

“La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. (…) In noi è la via, la verità e la vita. Guai a coloro che vivono seguendo dei modelli! La vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora vivrete la vita del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita, se non voi stessi? (…) Cercate la via? Vi metto in guardia dall’imboccare la mia strada. Per voi può essere quella sbagliata.”

Chiunque voglia muoversi in consonanza con l’esperienza junghiana e provare a tesaurizzarne l’esperienza è chiamato al paradossale compito di “universalizzare l’esperienza individuale e individualizzare il lascito universale”, in osservanza al motto programmatico junghiano per il quale “il metodo è l’analista”.

Come dimostra l’epigrafe che ho scelto di porre in apertura, a una simile conclusione era arrivato anche Nietzsche, che tuttavia non aveva il difficile compito di dare vita a una sua scuola non solo di pensiero ma anche di pratica terapeutica. La citazione non intende dunque sminuire l’originalità della proposta junghiana ma riconoscerla, come invita a fare Màdera, come figlia dello “spirito del tempo”, di cui Nietzsche era stato precursore.

“Jung può solo intuire come un rabdomante la corrente che scorre sotto la superficie, non ha né la mentalità né le competenze, per afferrare in modo più complesso e articolato la trasformazione della costellazione di civiltà e della configurazione culturale. (…). Le sue doti intuitive sprigionano però folgorazioni che illuminano a giorno il passaggio dell’epoca. qui sta la pregnanza del suo appello a dismettere imitazione e modelli esemplari.”

Intuizioni, come abbiamo visto, particolarmente presenti nel Libro rosso nel quale, secondo Màdera, Jung sperimenta e tesaurizza “l’unione tra biografia e teoria”, realizzando un’alchemica “opera al rosso” che “rimette in questione del suo sapere scientifico e psichiatrico, le linee della psicoanalisi fino ad allora seguita”, affronta – anche grazie all’elaborazione della pratica dell’immaginazione attiva – “l’irrisolta partita dell’esperienza religiosa”, si confronta “con i fantasmi della sua famiglia di pastori protestanti” e si lancia in un vero e proprio “corpo a corpo con Nietzsche”.

Il tema centrale è infatti “la morte di Dio” e la risposta di Jung al celebre annuncio nietzschiano. Il suo convincimento è che, anziché sentenziare che “Dio è morto, sarebbe più giusto dire che Egli si è svestito dell’effige che gli avevano conferita”, per cui “non sarà più ritrovato laddove il suo corpo venne deposto” ma dovrà essere ricercato altrove e in altre forme, come “Dio che sta tra le cose, il mediatore della vita, la via, il ponte, il passaggio”, quasi un’anticipazione, commenta Màdera, della “struttura che connette” che sarà teorizzata da Bateson.

Ma questa risposta, aspetto assolutamente saliente, non viene elaborata a livello razionale ma piuttosto ricavata mitobiograficamente. Nel Libro rosso Jung si chiede infatti: “qual è il tuo mito? non vivi più nel mito cristiano, ma in quale mito dunque vivi?”. L’iniziale incapacità di offrire una risposta a questa domanda spalanca a Jung, come prima di lui a Nietzsche, le porte al più inquietante degli ospiti: il nichilismo. Un segno dello spirito del tempo. Secondo Màdera, la nietzschiana morte di Dio, la presa d’atto di non vivere più nella narrazione originata dal suo mito, simboleggia la fine del patriarcato che Jung, designato “principe ereditario” dal padre simbolico Freud, vive, dapprima solo inconsapevolmente, in prima persona ma di cui è anche una testimonianza l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando II, principe ereditario dell’impero austro-ungarico, che apre le porte alla Grande guerra.

Una guerra simile, sul piano simbolico, a quella interiore nella quale sprofonda lo psicoanalista svizzero e della quale il Libro rosso ci fornisce un’ampia testimonianza. In esso, osserva Màdera, “il nesso tra la dimensione collettiva e individuale è quindi strettissimo: le figure del dramma personale sono prese dalla storia culturale, il conflitto interiore si specchia nella guerra esterna e viceversa”.

“Gli uomini – scrive Jung – impazziscono perché non sanno che il conflitto è dentro di loro, e ciascuno addossa il torto all’altro. Se una metà del mondo è in torto, allora è in torto – per metà – ogni essere umano”. Differentemente da Nietzsche, Jung impara a fare i conti con la propria Ombra, attraverso una riappropriazione delle sue proiezioni e una compassionevole, anziché superominica, accettazione dei propri limiti, trovando una soluzione al suo personale travaglio e offrendo al contempo la possibilità di “una sorta di clinica del mondo”.

Nascono qui la crescente centralità del simbolo (ciò che mette insieme) e del processo di individuazione (la realizzazione di una condizione indivisa) in Jung. Ma la tesi per la quale ogni esistenza e una teoria ruotano attorno a un particolare mitologema che ne costiuisce il seme e la circonferenza non è junghiana, costituisce piuttosto il principale lascito di Ernst Bernhard, autore che Màdera indica come biograficamente decisivo per il proprio avvicinamento all’esperienza dell’analisi junghiana.

“Forse a me serviva Bernhard per provare a fondo un’esperienza junghiana senza troppi pregiudizi. Il salto dall’impegno politico – e dai ancor più radicati, per quanto allora tracurati, sentimenti religiosi – alla temperie del medico svizzero, blandamente liberale, ovviamente anticomunista, classicamente borghese in alcuni aspetti del suo modo di vivere, mi urtavano non poco.”

Bernhard invece era un ebreo tedesco, socialista sionista, finito nei campi di concetramento fascisti, tra l’altro a Ferramonti, in Calabria, terra per ragioni biografiche cara a Màdera, e si prestava dunque bene a fungere da figura ponte per facilitare l’avvicinamento ad un mondo, quello della psicologia del profondo, che all’epoca Màdera viveva con più di qualche reticenza. Ma a fargli scegliere Bernhard e a spingerlo ad andare in analisi da un suo diretto allievo – Paolo Aite – era stato innanzitutto il titolo dell’unico libro riconducibile allo psicoanalista tedesco: Mitobiografia. In quella formula Màdera scorgeva la possibilità, già intuita autonomamente e trattata filosoficamente, di guardare alla “biografia come ad un punto di incidenza cosmico-storica”. Ma, prosegue, “il titolo di Bernhard prometteva un altro scatto, qualcosa che disturbava da sempre ogni indagine razionale, il fondo oscuro del mito innestato nel vivo del biografico, senza troppi schemi e prevenzioni nei confronti dell’inevitabile racconto che in noi mescola, inestricabilmente, gli specchi dell’io ai suoi ideali e alla vita sottostante dell’inaccettabile, dello sgradevole, del rimosso e dell’incompreso. Il continente inconscio.”

In Bernhard Màdera trova anche riferimenti al taoismo, al buddhismo e all’ebraismo che gli fanno intravedere la possibilità di dare ospitalità, anche nella stanza d’analisi, ai temi e agli aspetti propri di quella che poi, sulla scia di Besret, chiamerà una “spiritualità laica” che “non sia dogmatica, non si appelli a nessuna rivelazione che pretenda di imporsi come l’unica via di passaggio verso la pienezza (…) una spiritualità che raggiunge così ciò che è alla radice delle diverse tradizioni, non in ciò che hanno di più specifico, ma al contrario in ciò che la loro specificità traduce di più universale”.

Spiritualità laica, filosofia come esercizio di espansione nella vita quotidiana della ricerca di senso e analisi come clinica del processo di individuazione sono “i tre segmenti”, che compongono la personale maniera nella quale Màdera ha inteso “abbandonare Jung per rilanciarne l’insegnamento”. Un’idea dalla quale, dieci anni fa, è nata Philo, la scuola di pratiche filosofiche che forma alla professione dell’analisi biografica ad orientamento filosofico (abof) e dalla cui costola ha preso quest’anno vita Mitobiografica. Scuola del mestiere di vivere . Ad esse è dedicato l’ultimo capitolo di questa appassionata ed appassionante testimonianza sulla possibile eredità in senso individuativo dell’insegnamento junghiano particolarmente preziosa in questo tempo nel quale “la trasmissione del lascito culturale delle generazioni precedenti è diventata stentata, incerta, a volte impossibile, inutilizzabile, e il canone, generatore di mille variazioni, sembra ormai irricevibile.”

 

Questo articolo è apparso in forma più breve su La Repubblica.

 

Category: Psicologia, psicoanalisi, terapie

About Moreno Montanari: Moreno Montanari. Analista filosofo (Sabof, di cui è socio fondatore), per Philo – Pratiche filosofiche (www.scuolaphilo.it) è docente nella Scuola in analisi biografica a orientamento filosofico e tra i responsabili della gestione del centro culturale. Formatore, saggista ed esperto di meditazione zazen, nei suoi lavori propone l’integrazione della prospettiva psicoanalitica con lo sguardo delle filosofie occidentali e orientali e dei diversi saperi religiosi. Ha scritto Il Tao di Nietzsche (Mimesis, 2005); curato il volume Consulenza filosofica: terapia o formazione? (Orecchio di Van Gogh, 2006); La filosofia come cura. Percorsi di autenticità (Unicopli, 2007); Hadot e Foucault nello specchio dei greci. La filosofia antica come esercizio di trasformazione (Mimesis, 2010); La filosofia come cura (Mursia, 2012); Vivere la filosofia (Mursia, 2013); Gli equivoci dell’amore (Mursia, 2015). Ha scritto diversi articoli per la Rivista di psicologia analitica; La nuova corrente; Adultità, Riflessioni sistemiche e Phronesis, e numerosi saggi in libri collettanei sui temi della filosofia, la psicoanalisi e la formazione. Ha inoltre scritto un saggio nel libro collettivo: Qual è il tuo mito? Mappe per il mestiere di vivere (a cura di S. Fresko e C. Mirabelli, con scritti di I. Carlot, M. Diana, R. Màdera, M. Montanari, I. Paterlini e delle due curatrici), Mimesis, Milano 2016. Come analista filosofo riceve a Milano e ad Ancona. (Cel. 3491740920; email: moreno.montanari69@gmail.com

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