Alberto Cini: Euridice è andata a fare la spesa. Per una educazione alla “assenza”
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Euridice è andata a fare la spesa. Per una educazione alla “assenza”
Il bel libro di Judith Viorst da titolo “Distacchi” comincia così: “La vita comincia con la perdita. Usciamo dal grembo senza nessun appartamento, un piatto pronto, un lavoro e un’automobile. Siamo dei neonati succhianti, piangenti, dipendenti, e indifesi. La nostra mamma si frappone tra noi e il mondo, proteggendoci da un’angoscia che ci sovrasterebbe. Non abbiamo un bisogno più grande del bisogno di nostra madre.” Allora lo sguardo si solleva, su nella vasta libreria dell’educatore quale sono, dove quest’argomento è pane quotidiano e lo sguardo comincia a cascare su Bowlby “Attaccamento e perdita” e su e giù, ancora su tanti altri testi che argomentano su questo fenomeno ancestrale… la perdita.
Quando ero piccolo vissi spesso con i nonni, dato che i miei genitori artigiani lavoravano molto. Ero legatissimo a mia nonna quando morì, ero adolescente. Mi è sempre piaciuto molto pensare, poco leggere allora, ma pensare e produrre riflessioni autonome mi affascinava.
Quando la nonna era fuori casa, la vita tra zie, parenti, cugini, passava allegra e in una fantastica autogestione.
Quando morì mia nonna, dopo un periodo di lutto difficile, cominciai a pensare a questa sensazione dell’assenza, e per lenire il dolore mi figuravo che fosse andata a far la spesa, per molto tempo… Cominciai a notare che quando i miei bisogni fisiologici e psicologici erano soddisfatti, il dolore era una maniera, quasi meccanica di rappresentarsi la vita. Era quasi facile soffrire, era la cosa più logica, anche la più accettata dagli altri. Questa sudditanza dalle abitudini psicologiche non la sopportavo, sentivo che c’era un eccesso di sofferenza che non era naturale, un condizionamento culturale. Ascoltando in profondità l’assenza di qualcuno ne sentii la presenza disincarnata, quella presenza che come l’aria si insinua in tutte le cose. Nel sistema delle relazioni, nella mia interiorità, in tutti gli oggetti che mi circondavano, c’era la sua presenza. Una presenza invisibile, prima, proprio perché la mia attenzione era totalmente e meccanicamente concentrata sul suo corpo fisico.
Mi accorsi che la stessa cosa accadde quando persi mio nonno a due anni; le sue opere in legno e i suoi libri erano rimasti in casa. Passai molto tempo ad osservarle, quelle sue opere di legno traforate e anche i libri di Victor Hugo che ancora influiscono sulla mia arte di oggi. La sua essenza creativa fu più efficace di qualsiasi contatto corporeo.
Questa presenza così invadente del corpo dell’altro spesso ci anestetizza dalla presenza della sua interiorità espansa nell’ambiente. Non sono la mia fotografia, tantomeno i kg del mio peso, sono l’essenza poetica e trascendente delle mie qualità esistenziali.
In questo richiamo sempre il mito di Orfeo ed Euridice: quando di lei è scomparso il corpo, Orfeo avrebbe dovuto esercitarsi a percepirla nella sua assenza corporea, era il momento dell’affetto trascendente a cui nessuno ci educa, sentire l’altro nell’invisibile e non delegare tutto ai sensi grossolani e palpabili della materia organica. Orfeo non ce la fa, la vuole vedere nella forma e la perde… perché?
Quando morì giovane mia madre, cominciai ad elencare le ragioni piacevoli per le quali sarebbe stato bello che lei ci fosse ancora, poi mi venne questa immagine nella mente. Un alpinista conquista la vetta più alta possibile, gioisce del successo. Dopo potrebbe riconquistarla altre cento volte ma più in alto non potrebbe andare. Questo è quello che accade anche nella vita, nei rapporti positivi che riusciamo a conquistare. Una volta raggiunto un piacere, uno stato di benessere vogliamo ripeterlo all’infinito potendo. Cominciai a vedere in senso critico, questo culto della ripetizione del piacere. Questa nostalgia aveva per me qualcosa di squalificante verso l’esistenza di mia madre, di stantio più che altro. Il mio rapporto con mia madre era ottimo, raggiungemmo la cima, ripeterlo era bello ma non troppo evolutivo a mio avviso. Questa nuova modalità di rapporto, questa qualità diffusa nell’assenza, mi avrebbe portato molto lontano. Dove nell’invisibile ancora lei poteva dialogare.
Poi c’è la parola “perdita” che mi ha sempre molto incuriosito, come citato nell’incipit di questo articolo. Perdere… ma per perdere bisogna “avere”. Nell’esercizio del mio pensiero mi sono sempre chiesto se nel ventre di mia madre come nel mio lavoro, posso veramente dire che ho una madre e ho un lavoro, oppure, e mi pare evidente, che è mia madre ed il mio lavoro a possedermi e non il contrario. Confondere la sensazione esistenziale dal “possedere” all’ “essere posseduto” è sostanziale, sostanziale è sdoganarci dalle convenzioni del linguaggio che creano abitudini psicologiche. Chi sono io spogliandomi dei miei ruoli famigliari, sociali e così via.
Da giovane Karateka, ricordo che all’entrata del dojo vi era un cartello dove vi erano scritte varie frasi sagge, e i primi due principi dicevano: non ho madre se non la terra, non ho padre se non il cielo. Questo invito a spogliarci della propria identità relazionale, da adulto mi ha fatto capire quanto il testo del Dojo non volesse negare l’individualità dei nostri cari, non voleva cancellarli, ma al contrario farne sentire l’appartenenza diffusa che ci lega ad un ruolo loro che si trasforma da carnale a trascendentale, luogo dove nella nuova dimensione possa continuare il rapporto di coevoluzione insieme, prima delegato al corpo, alla mente, ed infine a quel grande magnetismo del vuoto che si esprime nell’educazione intima dell’assenza.
Queste riflessioni nella mia professione da educatore mi hanno concesso di avvicinarmi con piacere ai vari studi dell’elaborazione del lutto, alle attività dell’accompagnamento al fine vita, ai gruppi di auto mutuo aiuto. Come psicodrammatista devo ammettere che trovo molto interessante la teoria del vincolo di Enrique Pichon-Rivière, psichiatra e psicoanalista francese che ha trovato molto spazio nella psicoanalisi argentina con la quale mi sono formato. Lui ha ideato uno schema del lutto “irrisolvibile”, quindi un lutto cristallizzato, dove suddivide tre settori, il depositario, l’oggetto depositato e colui che accetta il deposito.
Di questo modello terapeutico, che si attua in sedute di psicoterapia, ho astratto una metodologia educativa generale da applicare non solo nelle situazioni di grave disagio del lutto, qualsiasi tipo di lutto (l’autore spesso cita i divorzi interminabili, ad esempio).
Nel lutto, invece, di perdita di una persona cara è interessante capire quali parti del sé si siano depositate sulla persona scomparsa, elaborarle e quasi ritualmente liberarlo o liberarla di questo deposito, che si è perpetuato con successo per tanti anni di rapporto, ma ora, con la dimensione dell’immaterialità corporea, si rende necessario che ognuno si riprenda la responsabilità sulle proprie spalle di ciò che era nostro e che era stato depositato sull’altro, al fine di un migliore e funzionale percorso insieme.
Quando scompare colui/colei che abbiamo elevato a “conto deposito”, dice Rivière scherzando, con lui/lei scompaiono, vengono quasi strappate dalla nostra psiche, quelle parti di noi che ci appartengono e sono quelle a farci sentire la sofferenza più acuta, altrimenti c’è un dolore esteso di trascendenza, una intimità di pace dolorosa senza sofferenza. Come dice Proust, “ci sono nostalgie superiori a qualsiasi piacere…”
Ho sperimentato positivamente questo principio, con esercizi di colloquio, riflessione e di meditazione profonda, importante è il processo rituale che si crea.
Il momento del lutto in una comunità è un momento sacro, se si coglie l’occasione di non accontentarsi della normale sofferenza, quando la mancanza ci coglie in un ambito di personalità mature e autonome; il dono che la persona reca col suo disincarnamento è antropologicamente un dono di mitopoiesi del sé, una ricerca globale del reintegrare l’assenza come una qualità personale da ridare alla comunità per fare di questo vuoto potente una rinnovato spazio di coesione.
Category: Psicologia, psicoanalisi, terapie