Marco Revelli: Perché finale di partito
Pubblichiamo da “Inchiesta” gennaio-marzo 2013 l’intervista fatta a Marco Revelli a Reggio Emilia da Luciano Berselli
D. Il tuo ultimo lavoro (Finale di partito, Einaudi, Torino 2013) prosegue una riflessione sul tema della crisi della democrazia e della crisi della rappresentanza. Ti chiedo di caratterizzare il tuo punto di vista su questi temi e poi che cosa aggiunge l’ultimo libro nell’ambito di questa riflessione.
R. In effetti Finale di partito completa un quadro sulle trasformazioni della politica, che in realtà avevo cominciato a tracciare con Oltre il Novecento, a cui si era aggiunto poi La politica perduta, cioè come cambia la politica e anche le istituzioni politiche dentro il cambiamento di scenario o nel salto di paradigma, che noi abbiamo vissuto con l’ultimo quarto di secolo, potremmo dire, tra la fine degli anni settanta e l’inizio del nuovo secolo. Se vogliamo continuare in questo gioco di ricollocazione dei temi, potremmo dire che Finale di partito si interroga su quali forme assumere la politica, in particolare la forma democratica nel postfordismo. Se dovessi usare un termine sintetico potrebbe essere: “qual è la politica nel postfordismo”, come si struttura il meccanismo della legislazione politica e dentro a questo della rappresentanza politica, nel contesto che si è creato con la fine del lungo ciclo fordista che in buona misura ha coinciso con la parte centrale nel Novecento. Al centro della politica novecentesca, quando si riassesta dopo gli sconvolgimenti di inizio secolo, della prima metà del secolo dopo i totalitarismi, dopo le due guerre mondiali dopo che, appunto, il processo di massificazione aveva prodotto le sue convulsioni.
Il modello novecentesco si era assestato, per lo meno in Europa continentale, intorno a quello che i politologi hanno definito “democrazia-partito”, modello di rappresentanza democratica nel partito politico. In particolare nel partito di massa, che svolgeva un ruolo sociale, un ruolo chiave. Il partito era, non solo il principale, ma potremmo dire l’esclusivo canale di comunicazione tra società e istituzione, o se vogliamo usare il termine tecnico, tra environement, ambiente, e sistema politico. Quel particolare tipo di partito che era il partito di massa, cioè un partito che aveva un piede nelle istituzioni, nello stato e un piede nella società. Un partito che strutturava verticalmente l’universo sociale e politico, in cui alla rappresentanza politica corrispondeva un insediamento sociale e questo insediamento sociale era connotato in termini di composizione sociale e di classe.
Era un involucro molto solido all’interno quello del partito di massa, con un corpo militante ampio e fidelizzato, stabile sostanzialmente, con una capacità non solo di rappresentare politicamente ma anche di organizzare pezzi di società, il tempo libero dei proprio militanti, la formazione culturale che era partita con una forte vocazione pedagogica per molti versi. Non solo quelli di classe i socialisti, i comunisti, i partiti classisti in senso proprio, ma anche partiti interclassisti come la Democrazia Cristiana si strutturavano in questo modo, sia pure in forma più labile. Avevano case editrici, pensiamo da una parte agli Editori Riuniti, dall’altra alle Edizioni Cinque Lune, per quanto riguarda l’Italia, avevano riviste teoriche sulle quali avvenivano accaniti dibattiti teorici.
Erano dei microcosmi che segmentavano verticalmente l’universo sociale.
Quel modello di partito era congruente con il paradigma socio produttivo, corrispondeva ad un modello di organizzazione che si era originato fuori dalla politica e che aveva assunto un carattere universale. Era il modello organizzativo, o se volete, il paradigma organizzativo che caratterizzava da una parte la burocrazia statale nel senso weberiano, quella di cui Weber ha costruito in forma esemplare la teoria, la burocrazia weberiana potremmo chiamarla e dall’altra parte la struttura delle unità dell’impresa di produzione di massa standardizzata, l’impresa fordista caratterizzata dal gigantismo, dalla capacità di previsione e di pianificazione della produzione. Un gigantismo capace di organizzare e strutturare masse di milioni di persone, unità produttive di decine e centinaia di migliaia di uomini con forme di rappresentanza degli interessi anche di natura sociale, come il sindacato di massa. Quello era il paradigma organizzativo del fordismo che trovava un riscontro, una congruenza e una complementarietà molto forte nell’apparato di partito.
E’ esemplare la descrizione che Gramsci fa del “Moderno Principe”, di quello che lui considerava “Moderno Principe”, che è appunto nient’altro che una grande macchina di produzione e di partecipazione disciplinata alla gestione pubblica dello stato, con la sottodivisione del lavoro interno. E’ straordinaria l’analisi che Gramsci fa della struttura di partito con la direzione, con un vertice esattamente paragonabile al management della grande industria con i quadri intermedi che sono il collante fondamentale e sono i tecnici, sono l’apparato tecnico e poi con la grande massa della forza lavoro che nel caso del partito sono i militanti di base, in parte anche gli elettori che vengono mobilitati dai diversi livelli.
Quello era il partito novecentesco, quella cosa lì è finita esattamene come è finita la fabbrica fordista. Io ho vissuto quella fine di novecento, e non solo, un bel pezzo di novecento fordista a Torino, e l’ho visto quel modello. Mirafiori era uno stabilimento con quasi sessantamila operai che entravano tutte le mattine, che uscivano cadenzati dai turni, che erano disciplinati da quella struttura tecnico-produttiva che da quella traevano in parte il loro comportamento. Entrare alla Fiat era più che entrare a far parte dell’impiego pubblico, era la certezza, la sicurezza. Si entrava in Fiat e si prevedeva di viverci tutta la propria vita produttiva all’interno di quel microcosmo, ed era esattamente come il partito, che godeva di una base stabile identificata da comuni interessi in quella opzione comune.
Quella fase oggi è finita, Mirafiori è un grande vuoto industriale, dei sessantamila dipendenti ne rimarranno appena diecimila che stanno in cassa integrazione per tre quarti del tempo. Quella massa solida di lavoro si è liquefatta, si è innervata, non è scomparsa ma si è dispersa nel sociale, in filiere sempre più lunghe dentro un mercato che non è più il mercato pianificabile e programmabile del fordismo. E’ un mercato nervosissimo, spesso evanescente, è un mercato volubile, è un mercato che ha delle punte e delle cadute e l’impresa è ormai una struttura leggera che galleggia su un mercato volubile. Esattamente come stanno diventando i partiti. Il problema dei nostri partiti, quello che rischia di decretarne la fine effettiva è il non riconoscere questa trasformazione. E’ il non riconoscere che orami oggi sono già diventati una cosa diversa da quella che continuano ad auto rappresentare, sono già gruppi instabili di potere che si sforzano di intercettare flussi di consenso flessibili, volubili, incerti. Lo vediamo in queste elezioni, urne già chiuse, è persino difficile capire cosa è successo.
D. Stiamo assistendo a qualche cambiamento di scenario repentino, dagli istant pool alle prime proiezioni sui dati reali.
R. Noi ne parliamo in questo pomeriggio ed è cronaca di minuti e di ore ma la dice lunga su come sia diventato liquido il contesto politico, da solido che era, quasi marmoreo. Noi abbiamo vissuto decenni nei quali lo spostamento di 1 o 2 punti percentuali a favore di un partito o di un altro facevano notizia e viviamo un tempo nel quale i partiti alla vigilia delle elezioni non si sa se avranno il 10, il 15, il 20 o il 25%. Siamo in una condizione di liquefazione radicale nella quale per altro, anche a voto espresso almeno all’incirca tra un quarto, un terzo dell’elettorato sta fuori e un altro quarto si pronuncia in forma di antisistema e quindi in un contesto di legittimazione molto, molto, molto logorata.
D. Questa liquefazione per te significa la fine del partito novecentesco. Mette in discussione anche la forma partito in quanto tale?
R. Ragioniamo in termini radicali. Incominciamo a considerare la forma partito come una forma potenzialmente, non dico finita, ma terminabile, che potrebbe anche scomparire. Io credo che dobbiamo metterla in conto questa ipotesi. In fondo la democrazia moderna è nata prima dei partiti.
Se vogliamo assumere il 1789 come la data di nascita della politica moderna e anche come radice prima della democrazia, là c’erano i club ma non c’erano i partiti. Prima che nascessero i partiti è passato più di un secolo, potremmo persino immaginare che sia passato per il nostro paese un secolo e mezzo. I primi partiti, nel senso con cui lo abbiamo usato finora, sono il Partito Socialista e il Partito Popolare, che sono nati tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Per un secolo lo stato liberale, con le sue venature di stato democratico si è aperto sul ruolo del parlamento e del confronto politico, è solo dopo che è emerso il partito politico di massa. In teoria potremmo anche immaginare una democrazia senza partiti.
Non condivido il tono catastrofistico e apocalittico, che poi in realtà è un tipo di argomentazione persuasiva, che intende persuadere, non descrivere, non condivido l’allarmismo di chi dice che se scomparissero i partiti scomparirebbero la democrazia, come se l’unico scenario immaginabile di fronte ad una crisi verticale del partito politico fosse il fascismo, il totalitarismo, la dittatura. Non credo a questo allarmismo in primo luogo perché in realtà il partito non scompare.
Nel titolo del libro Finale di partito, non dico che da un giorno all’altro ci troveremo nel vuoto di rappresentanza. Semplicemente intendo dire che il partito sta vivendo la metamorfosi radicale, sta diventando altro da quello che era prima, sta diventando un’altra cosa molto più liquida, ripeto, mentre quell’altra era solida. Ma questo non significa, se vogliamo pensare radicalmente, che non dobbiamo anche immaginare una dimensione della democrazia che faccia a meno sicuramente di un elemento e cioè del monopolio della rappresentanza politica da parte del partito.
D. Proprio per ragionare in termini radicali resta un interrogativo che riguarda la rappresentanza nella sfera politico statuale, una volta finita la forma del partito novecentesco. Nella sfera politico statuale, quali sono le forme di rappresentanza democratica a cui tendere?
R. Sicuramente il Parlamento deve continuare ad essere il fulcro del meccanismo della rappresentanza. Oggi è sfidato duramente, c’è una corrente forte teorica ma soprattutto pratica che tende a porre il baricentro dei nostri sistemi politici sull’esecutivo più che sul legislativo, che tende a svuotare le democrazie parlamentari in nome di forme presidenziali formalmente o di fatto o in forme di personalizzazione dei titolari del potere esecutivo. Questo sì che è una forma di imbarbarimento e di erosione radicale della democrazia.
Credo che il parlamento dovrebbe rimanere il luogo nel quale il sociale trova la propria sponda politica. Dico sponda e non sintesi, come molto spesso si dice, come se il sociale fosse un conglomerato eterogeneo e instabile e all’istituzione spettasse fare la sintesi, e che senza questa sintesi il sociale si dissolverebbe. Non è più così, il sociale ha maturato una consistente capacità di auto- organizzazione e anche di auto-rappresentazione.
Oggi i movimenti su alcune questioni fondamentali per la vita, nel senso fondamentale del bios, i beni comuni, l’acqua, la difesa dell’ambiente, la tutela dei luoghi, la stessa gestione del corpo, dell’alimentazione, hanno una propria capacità di rappresentazione. C’è un sociale che ha elaborato una forte consapevolezza dei propri bisogni e delle proprie esigenze. Quindi c’è un sociale che si è acculturato. Non vorrei che quando noi ragioniamo sul finale di partito, nel senso di cui parlavo prima, della scomparsa e della crisi del vecchio partito di massa, ci lasciassimo prendere troppo dalla nostalgia che in parte c’è perché comunque quella forma solida di rappresentanza era migliore di questa forma liquida che abbiamo di fronte. Tuttavia non dobbiamo nasconderci neanche i limiti di quella forma, che aveva una forte componente oligarchica.
Nel libro dedico un capitolo all’analisi della legge ferrea dell’oligarchia che aveva fatto Robert Michels nel 1911, analizzando il Partito Socialdemocratico tedesco, l’SPD. Michels aveva spiegato che inevitabilmente quella forma politica proprio perché ricalcata sui quel modello di cui parlavo prima, burocrazia statale e grande fabbrica, produceva un vertice oligarchico che veniva ad assumere un ruolo di governo e di comando sulla propria base, sul proprio corpo militante. Però in quel modello il gruppo dirigente era riconosciuto come dotato di grandi capacità, era costituito spesso da intellettuali, da uomini che avevano mostrato la propria dedizione alla causa, che erano finiti in galera, (pensiamo alle leggi antisocialiste in Germania, al periodo della repressione) che avevano dedicato tutta la propria vita al partito. Quindi, quella dimensione verticale e oligarchica trovava il proprio riscontro in una massa molto meno scolarizzata, molto meno dotata di strumenti conoscitivi, molto più disponibile alla delega nei confronti dei dirigenti.
Oggi i partiti si misurano in parte con segmenti, settori del proprio elettorato che sono culturalmente più avanzati del ceto politico, più acculturati che hanno strumenti di conoscenza, più esigenti quindi, più intolleranti delle forme di oligarchia che vengono percepite come casta. Quindi il nuovo modello di rapporto tra la rappresentanza politica e il sociale non può che essere un rapporto meno esclusivo e forte di un tempo, in cui la rappresentanza politica non può pretendere di monopolizzare tutte le forme di espressione pubblica come rischia di continuare a fare perché questo verrebbe interpretato come privilegio ingiustificato, intollerabile. Non può pretendere di continuare a svolgere quel ruolo pedagogico per cui non è più legittimata. Non ha nulla da insegnare questo ceto politico.
D. C’è uno snodo, proprio sulla base delle tue ipotesi, la fine della grande impresa fordista non ha significato una democratizzazione del potere economico, industriale e finanziario. C’è un processo che alcuni chiamano di concentrazione del potere senza centralizzazione delle strutture che ha reso questo potere ancora più forte di quanto non fosse già nell’epoca fordista e c’è un sociale – e qui ti chiedo – quello rappresentato dal movimento operaio che aveva nel partito un’espressione fondamentale ma che era composto anche da quel sociale capace di porsi su un terreno di contrattazione, il sindacato, i corpi intermedi. Che prospettiva e che ruolo ha il processo di rafforzamento del potere economico industriale finanziario e quale prospettiva vedi per il movimento operaio. ha cessato la sua funzione, cioè è il lavoro che è in grado di porsi come soggetto sociale che contratta e mette in discussione il potere o si riapre una prospettiva, si deve riaprire una prospettiva?
R. Questo è una tema davvero centrale in tutta la riflessione e partiamo proprio dal nucleo forte di questa osservazione che mi facevi, cioè la perdita di centralità dell’impresa post fordista. Hai perfettamente ragione, nella trasformazione, nel salto di paradigma dal fordismo al post fordismo, l’impresa non si è democratizzata, in molti avevano ipotizzato che potesse farlo, tanto per intenderci non si è liberata del vincolo tayloristico.
La fine del fordismo non ha significato il superamento del taylorismo che era una forma di espropriazione da parte dell’impresa dei lavoratori, del loro sapere e della loro autonomia di mestiere. Era un passaggio fortemente autoritario nella strutturazione dei rapporti di lavoro.
Ebbene quell’elemento autoritario dell’impresa si è trasferito dal fordismo al post fordismo, l’impresa è diventata più leggera, si è liberata del gigantesco corpo produttivo che era la forza lavoro massificata, si è decentrata, ha esternalizzato, si è strutturata su filiere lunghe e di sub fornitura. Attraverso questo processo si è allungata, il suo vertice, la sua testa è schizzata in alto, spesso in un circuito globale lontanissimo dai luoghi e dalle persone messe al lavoro, per certi versi si è guadagnata una sua indipendenza dal reticolo, non più l’involucro solido, ma reticolo di relazioni produttive che sono state lasciate sul terreno. L’impresa è schizzata in un iper-uranio globale, spesso interno ai circuiti finanziari, mantenendo un controllo ferreo sulle strategie e una libertà di azione nei confronti dei proprio dipendenti che era impensabile nel modello fordista. Oggi un manager dal quartier generale di una multinazionale o meglio di una transnazionale può, con un tratto di penna, cancellare un intero sito produttivo senza rischiare neppure di sentire il rumore della protesta che produce.
Quindi l’impresa è diventata più verticale e più autoritaria, la forza lavoro invece è stata spalmata in forma orizzontale su una molteplicità di spazi e di luoghi produttivi che non riescono a produrre organizzazione. A Mirafiori era relativamente facile organizzare uno sciopero o un corteo interno. Con un corteo interno tu paralizzavi la fabbrica. Bloccare la produzione di una transazionale, oggi, è un’impresa quasi esagerata per certi versi.
Questo processo da una parte si è trasferito anche all’omologo partito, la forma partito, oggi, non è affatto più democratica di quanto non fosse ieri. Per certi versi è ormai più oligarchica, anche nel partito politico ormai è identificabile un nucleo dirigente fortemente autonomo rispetto al corpo militante e all’elettorato, anche questo inserito in un circuito tendenzialmente transazionale. Pensiamo alla dipendenza dalle agenzie: dall’Unione Europea, dalla Commissione Europea, dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario. Le decisioni politiche vengono prese in un circuito che sta altrove rispetto ai luoghi della vita, i luoghi della vita sono dissipati, dispersi e difficilmente riescono a rinegoziare le proprie ragioni con i vertici politici. Da qui il senso di estraneità.
Quindi abbiamo da una parte la metamorfosi parallela del partito che segue l’impresa e dall’altra parte abbiamo la difficoltà a ridefinire le forme di rappresentanza degli interessi, non solo di rappresentanza generale come fa la politica ma anche di rappresentanza degli interessi come ha fatto il sindacato novecentesco. Oggi fare il sindacato è diventato quasi più difficile che amministrare un partito o che far funzionare in modo virtuoso la rappresentanza attraverso il partito. Lo è diventato proprio per quel meccanismo di trasformazione dell’impresa che la rende relativamente indipendente rispetto ai movimenti della propria forza lavoro, che ha assicurato all’impresa una libertà di movimento che la forza lavoro non ha, che ha permesso all’impresa di mutare rapidamente il luogo mentre la forza lavoro è ancorata al territorio. Per chi intende rappresentare gli interessi del lavoro dentro questa nuova forma di società e di impresa, il terreno si è fatto mobile, come le sabbie mobili per certi versi. Io credo che se un percorso, un’uscita di sicurezza c’è per il sindacato, non solo italiano ma per il sindacato italiano la questione è particolarmente urgente perché qui la crisi sta mordendo duramente, dovrebbe essere quello di riscoprire un proprio ruolo di sindacalismo territoriale e non solo di sindacalismo d’industria, il sindacalismo d’industria è fortemente in crisi. Il lavoro in frantumi così come il post fordismo lo ha riconfigurato, il lavoro con la moltiplicazione infinita delle figure del lavoro, può essere ricomposto difficilmente all’interno delle singole unità produttive ma molto più facilmente nei territori, non so se sembra un ritorno al passato.
D. Tema molto controverso. Nel tuo libro c’è un forte accento posto sul territorio da questo punto di vista.
R. Sì perché io credo che il territorio sia una delle chiavi nel male e nel bene. Nel male lo abbiamo visto come ha funzionato. La Lega ha interpretato questa messa a valore del territorio in una chiave di esclusione e di chiusura da territorio blindato verso le persone ed esposto verso i flussi del capitale. Io la penso completamente in modo diverso, come la possibilità di costruire vertenze territoriali. Io sono a Torino e mi sarebbe piaciuto fosse stata costruita una vertenza a Torino invece di lasciare i cinquemila di Mirafiori soli a vedersela con Marchionne come ha fatto il sindaco Fassino, quando se ne è lavato le mani, con quella frase infelicissima che se fosse stato uno di loro avrebbe votato sì, mettendo quindi la testa sul ceppo su cui scendeva la scure. Avrei voluto che invece di dire queste sciocchezze la politica avesse organizzato una vertenza di territorio per tutelare la propria vocazione manifatturiera e la propria popolazione.
Io credo che, d’altra parte, appunto, le Camere del Lavoro erano nate così, un processo di organizzazione del lavoro eterogeneo che non si era ancora coagulato nelle unità produttive e che poteva essere rappresentato sul territorio. Oggi non si tratterebbe di un ritorno al passato ma di un ritorno al futuro cioè la possibilità di immaginare un sindacalismo davvero post fordista così come bisogna immaginare una politica post fordista.
D. Vorrei concludere con un’obiezione: ma nell’esercizio del lavoro, nella condizione quotidiana, nella qualità della prestazione lavorativa, la dimensione territorio è in grado di essere fattore di trasformazione per le donne e gli uomini che lavorano e che chiedono diritti e condizioni di trasformazione a partire proprio dall’esercizio del lavoro?.
R. Io non penso a un passaggio di testimone, a una staffetta dall’interno all’esterno. Sono convinto però che tutto quello che può avvenire solo dentro al processo di lavoro, in un corpo a corpo con le condizioni di lavoro e chi le comanda sarebbe più forte se operasse in un contesto o in un ambiente amico. Se si potesse superare quella solitudine del lavoratore, quella solitudine dei lavoratori di cui parla Giorgio Airaudo nel suo bellissimo libro. Il lavoro chiuso in fabbrica è solo, il lavoro in un territorio amico e più forte.
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