Luglio 1547. Napoli insorge contro l’ inquisizione spagnola.
Riceviamo da Giovanni Mottura la foto di questa lapide posta all’ingresso della Certosa di S. Martino a Napoli : “Ai popolani di Napoli che nelle tre oneste giornate del luglio MDXLVII, laceri, male armati e soli d’Italia francamente pugnando nelle vie, dalle case contro le migliori armate d’Europa tennero da sé lontano l’obbrobrio della Inquisizione Spagnola imposta da un imperatore fiammingo e da un papa italiano e provarono anche una volta che il servaggio è male volontario di popolo ed è colpa dei servi più che dé padroni“
Interessati alla istituzione di un Tribunale del Santo Ufficio a Napoli erano le autorità religiose, non solo, ma anche quelle civili. Il governo vicereale si proponeva, infatti, di servirsi di questo nuovo organo repressivo per meglio controllare e contenere le velleità di coloro che, nobili e popolani, mai sopportavano lo strapotere vicereale . Allo scopo di evitare nel Regno di Napoli e soprattutto nella capitale la diffusione di nuove idee, il cardinale Ranuccio Farnese, arcivescovo di Napoli e nipote del pontefice Paolo III, sollecitò la istituzione di un Tribunale del Santo Ufficio a Napoli. La proposta fu presa in considerazione dal governo vicereale e Pietro di Toledo, autorizzato in questa sua azione dall’imperatore Carlo V e dai suoi consiglieri, fece presente al fratello Giovanni, vescovo di Burgos, cardinale e autorevole membro del Santo Ufficio, la necessità di intervenire drasticamente a Napoli per impedirvi la formazione di focolai ereticali e per frenare l’atteggiamento ostile assunto dalla nobiltà napoletana nei confronti del governo vicereale.
Da tempo, infatti, un fermento nuovo agitava la società napoletana che aveva accolto con viva simpatia Giovanni de Valdés. Nella sua villa sulla riviera di Chiaia si incontravano elementi della colta nobiltà napoletana e, alla scuola dello spagnolo, apprendevano con vivo interesse il pensiero di Erasmo e quello dei più illuminati scrittori cattolici.
I ben pensanti si tenevano però lontani dalla villa del de Valdés e dai suoi amici e molti, a Napoli, erano convinti che lo spagnolo fosse un eretico . In realtà egli non aveva accettato la dottrina luterana e non si allontanava dalla Chiesa cattolica. La sua presenza a Napoli valse, però, a smuovere nuovi interessi e a creare, specie tra gli elementi più illuminati, uno spirito nuovo che, anche se non accettava la dottrina luterana, non condivideva certo lo spirito che caratterizzava la retrograda mentalità della Napoli del Cinquecento ancora saldamente legata ad una interpretazione della vita religiosa da tempo superata.
Anche il vicerè Pietro di Toledo aveva prospettato all’imperatore il pericolo che minacciava Napoli: le discussioni teologiche costituivano un pericolo per la religione cristiana non solo, ma anche per l’autorità vicereale. Attraverso tali discussioni, non sempre controllate, si incorre- va facilmente oltre i propositi e si discuteva anche di libertà civili. Durante la sua permanenza a Napoli Carlo V si era lasciato facilmente suggestionare dal suo viceré e, con l’editto del 4 febbraio 1536, aveva sancito che nessuno osasse aver pratiche o commercio con persona infetta d’eresia pena di perdere con la roba la vita . Dieci anni dopo, nel 1546, ancora Toledo sollecitava il sovrano perché fosse intervenuto contro il pericolo ancora latente e, autorizzato dall’imperatore, era intervenuto, attraverso il fratello Giovanni, presso il pontefice perché, convintosi che non meno necessario in questo Regno di Napoli fosse stato alle altre provincie d’Italia per preservarlo dall’eretica pravità, mandasse Sua Santità un suo Commissario con breve che si dovesse per via d’Inquisizione procedere specialmente contro a’ clerici claustrali e secolari. Il provvedimento non tardò a venire e nei febbraio del 1547 — leggesi in una relazione del tempo — si apprese a Napoli che l’istituzione di un Tribunale del Santo Ufficio nel viceregno era un fatto compiuto.La notizia sconvolse gli animi.
A Napoli, dove già era efficiente, come in ogni altro paese cattolico, un Ufficio della Santa Inquisizione, mal si vedeva la situazione di questo Tribunale che, con la procedura e con i suoi metodi non accettati dalla normale Inquisizione, avrebbe costituito uno strumeno formida- bile nelle mani del potere vicereale per colpire nobili e popolani che mal sopportavano il dispotico potere del vicerè di Napoli .
Le prime manifestazioni popolari contro questo provvedimento si ebbero in febbraio. Ma il vicerè, incurante della volontà popolare, autorizzò l’affissione dell’editto cui seguì un hanno del reggente della Vicaria, Girolamo Fonseca, con cui si comandava ai Capitani della Piazza di dare ampia diffusione al breve pontificio che sarebbe stato presto applicato in tutto il territorio del Regno. I seggi si convocarono immediatamente in seduta straordinaria e nominarono una commissione che si portasse a Pozzuoli, dove si trovava il vicerè, per indurlo a negare la applicazione di quel breve. A capo della delegazione era un nobile delSeggio di Nido, Antonio Grisone. Uomo libero di giudizio e fornito di buon carattere, questo cavaliere napoletano, che lascerà la vita sul patibolo per aver aderito nel 1551 alla congiura antispagnola ordita dal principe di Salerno , parlò liberamente e ottenne dal vicerè l’assicurazione che sarebbe stato fatto l’impossibile per ottenere la revoca del provvedimento.
Ma la nobiltà aveva motivi per credere alle promesse del vicerè. Nobili e popolani si organizzarono per ottenere non solo la revoca del provvedimento, ma anche la rimozione dalla carica di Pietro di Toledo il quale, come viceré, non godeva certo della simpatia degli elementi migliori della nobiltà e del popolo di Napoli.
La rivolta napoletana, cui parteciparono tutti i ceti sociali, preoccupò seriamente il potere costituito: Pietro di Toledo ricorse ai mezzi più drastici per domare i ribelli e non esitò a fare intervenire l’artiglieria e la fanteria spagnola contro la città insorta.
Nella ricostruzione dei fatti vari cronisti non sono stati sempre precisi e, spesso, nella loro narrazione, confondono date ed episodi e gli avvenimenti, come da altri è stato rilevato, non vengono narrati nella loro esatta cronologia. Ma ciò non toglie nulla al valore di queste cronache che ci forniscono elementi per ricostruire la vita sociale napoletana a metà del XVI secolo.
Tra le numerose cronache particolare interesse merita quella del Folieta. Questo storico genovese di quegli avvenimenti pone in evidenza un aspetto che sfugge, in genere, ai cronisti napoletani: i contrasti tra il vicerè e la nobiltà napoletana e la piega che tali contrasti assumono durante i torbidi del 1547.
La nobiltà lancia severissime accuse nei confronti del vicerè nella cui condotta ravvisa i motivi che avrebbero fatto degenerare un atteggiamento semplicemente ostile in una vera e propria rivolta armata. Nella sua narrazione il Folieta si sofferma ampiamente su avvenimenti che gli altri cronisti ignorano o ai quali non danno alcun rilievo. E da questi si evince lo sforzo compiuto dal viceré per imporsi sulla Città i cui eletti sono fermamente decisi, nonostante gli interventi vicereali, ad impedire l’applicazione del breve papale cui si sono opposti e dagli avvenimenti posti in risalto dallo storico genovese si evince ancora come il Toledo, contro la decisione dei saggi di sollecitare la sua destituzione dalla carica, si sia servito di ogni mezzo, anche del più subdolo.
La resistenza opposta dai napoletani costò loro oltre duemila morti. Ma il Tribunale dell’Inquisizione, che il potere centrale aveva sollecitato, non venne istituito. Ma non venne neppure allontanato da Napoli Pietro di Toledo che, con la sua ambigua condotta e con il suo provocatorio atteggiamento, aveva esasperato nobili e popolani costringendoli a far ricorso, loro malgrado, alle armi e alla violenza.
In sostanza, anche se Napoli ebbe l’impressione di aver vinto, il vero vincitore — e lo intuì la plebe di Napoli al ritorno dalla corte imperiale di Placido del Sangro — risultò il Toledo: egli rimase al suo po- sto e vide la sua autorità consolidata dall’aumentato favore di Carlo V.
Dopo i fatti del 1547, che furono l’ultima manifestazione della vitalità e dell’indipendenza napoletana , questo popolo, che era riuscito a superare interessi e aspirazioni che ponevano l’un contro l’altro i vari ceti sociali, non trovò più quella coesione che aveva reso possibile la revoca di un provvedimento voluto e sostenuto dal potere centrale.
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È possibile approfondire tutto ciò al museo delle torture di Napoli (Vico S.Luciella ai librai)