Franco Berardi (Bifo): La mutazione mediatica non è riducibile a politica
Diffondiamo da “Inchiesta” ottobre-dicembre 2013 l’articolo di Franco Berardi (Bifo) che critica le banalità sulla rete espresse da Casaleggio e dal Movimento 5 stelle e affronta i veri termini del dibattito in corso ricordando che la rete non è uno strumento ma un ambiente.
Alle ultime elezioni politiche ho votato per il Movimento 5 stelle. Avendo scarsa fiducia nella democrazia rappresentativa non mi facevo molte illusioni. Tutto quello che potevo aspettarmi era che l’affermazione del M5S potesse ostacolare la governabilità così da ostacolare l’implementazione delle misure di impoverimento e devastazione che il piano di stabilità europeo comporta.
Mi aspettavo dunque soltanto che il movimento 5 stelle potesse costituire un fattore di instabilità e disturbo, e da questo punto di vista la mia attesa non è stata tradita. Il massimo che ci si può aspettare da un sistema parlamentare la cui autonomia è stata cancellata dal patto di stabilità è questo: che non funzioni. Da questo punto di vista il mio voto non è stato inutile: ha contribuito a rendere ingovernabile il paese, anche se il rullo compressore del patto di stabilità procede nonostante la paralisi della vita politica. Del resto lo stesso Mario Draghi lo ha dichiarato pochi giorni dopo il voto: nessuno si ecciti per le elezioni italiane, tanto le politiche economiche dell’Unione europea procedono con il pilota automatico. Come dire: votate pure come vi pare, tanto la democrazia non esiste più.
Se dovessi giudicare il movimento 5 stelle sulla base delle sue dichiarazioni programmatiche alcune di queste mi paiono interessanti altre inaccettabili. Per esempio la posizione assunta dal leader di quel movimento sulla questione della migrazione e dell’accoglienza. Ma non riesco a prendere sul serio il contenuto programmatico del movimento di Grillo, quel che mi importa è la funzione che esso svolge obiettivamente: boicottare il governo della miseria e della privatizzazione.
Talvolta, lo confesso, mi cadono le braccia, quando, anche senza cercarle, ricevo informazioni sulla cultura che esprime il Movimento per cui ho votato. Non le cerco queste informazioni, perché preferirei non saper niente di quello che pensano davvero coloro per cui ho votato. Mica li ho votati per quello che pensano, visto che la democrazia rappresentativa non ha più nulla a che fare con il pensiero.
Epperò talvolta mi capita di leggere dichiarazioni o interviste come quella pubblicata su WIRED Italia dell’agosto scorso in cui Gianroberto Casaleggio parla con Bruce Sterling a proposito del luminoso futuro che Internet ci prepara.
Si tratta di un’intervista di sconsolante provincialismo, infarcita di luoghi comuni che ebbero una certa diffusione nella cibercultura di derivazione californiana degli anni ’80 e primi ’90. Dalla metà degli anni ’90 le cose che dice Casaleggio possono soltanto essere considerate banalità propagandistiche, utili al massimo per vendere qualche prodotto hi-tech a un buon selvaggio della Brianza.
L’idea che Internet sia uno strumento destinato a garantire libertà eguaglianza e crescita illimitata per un’economia senza più vincoli di monopolio smise di aver corso nella cibercultura fin da quando nell’anno 1995 Microsoft commercializzò Windows 95, rivelando che nelle condizioni dell’economia capitalistica non c’è tecnologia che possa sottrarsi alle regole feroci del profitto. Ma la discussione contemporanea sulla rete, spesso anche all’interno del movimento media-attivo, risente di alcuni equivoci concettuali che non sono mai stati rimossi. Risaliamo dunque a questi, e affrontiamo la discussione sui media digitali a partire dalle problematiche contemporanee.
Anzitutto è bene ricordare che la rete non è uno strumento, ma un ambiente. I media in generale e particolarmente la rete, sono spesso considerate come strumenti. Naturalmente sono anche questo, ma questa definizione può essere utile solo in una visione ristretta e ovvia. Ovviamente i media svolgono la funzione di rendere possibile la comunicazione e di far circolare l’informazione, e ovviamente quanto più essi sono veloci e diffusi, tanto meglio svolgono la loro funzione. Inoltre possiamo anche dire ovviamente che i media digitali possiedono una forza di penetrazione che era sconosciuta ai media del passato come la stampa, e questo rende difficile, seppur non impossibile, il loro controllo e censura da parte dei poteri stabiliti.
Ma questo genere di considerazioni non va oltre la superficie del mutamento che è stato prodotto dall’evoluzione della rete, particolarmente dalla recente diffusione dei social network. Se vogliamo andare oltre le ovvietà secondo cui l’informazione ci rende possibile essere informati, dobbiamo per prima cosa capire che Internet non è essenzialmente uno strumento, ma una sfera, un ambiente, e pertanto la mutazione antropologica prodotta dai media digitali e dall’accelerazione dell’infosfera è l’effetto più importante dal punto di vista degli effetti sociali e politici.
Dopo l’esplosione delle rivolte che hanno scosso il mondo arabo nell’anno 2011 e dopo le rivolte che sono accadute in Europa e negli Stati Uniti in quello stesso anno, commentatori politici e teorici dei media hanno discusso a proposito del ruolo che i nuovi media hanno svolto nell’emergenza dei movimenti sociali. Le opinioni sono divergenti su un punto cruciale: alcuni di loro hanno apprezzato il ruolo dei nuovi media come forza di espressione democratica e di liberazione delle energie intellettuali della gente, mentre altri hanno osservato che i media possono essere uno strumento per l’infiltrazione dell’ideologia e del controllo del potere.
Per esempio, in The Political Power of Social Media Technology, un saggio pubblicato in Foreign Affairs nel febbraio 2011, Clay Shirky sostiene che “quando il panorama di comunicazione diventa più denso complesso e partecipativo, la popolazione guadagna maggiore accesso all’informazione e più possibilità di impegnarsi nel discorso pubblico, e quindi una maggiore capacità di prendere azione pubblicamente.”
Da queste (ovvie) considerazioni Shirkey ricava la conclusione che l’ubiquità e l’orizzontalità dei nuovi media costituisce una forza di liberazione. E sugli eventi di Tahrir scrive: “Questa è la prima rivoluzione che viene catapultata sulla scena globale e trasformata dai social media.”
Il punto di vista di Shirkey non è esattamente quello dei movimenti: infatti quel che gli sta a cuore sono gli interessi della politica estera degli Stati Uniti dato che si chiede:
“Come influenza gli interessi americani l’ubiquità dei social media, e come dovrebbe rispondere la politica americana?”
In ogni caso la sua convinzione che i nuovi media giochino un ruolo emancipatorio e che la diffusione dell’informazione promuova ipso facto la democrazia è largamente condivisa. Alcuni influenti tecno-filosofi che ebbero grande fortuna nei primi anni Novanta da Pierre Levy a Nicholas Negroponte e Kevin Kelly, per non citarne che alcuni) erano convinti che la creazione della Rete avrebbe automaticamente creato le condizioni per lo sviluppo illimitato dell’intelligenza collettiva.
Con venti anni di ritardo Casaleggio sostiene nell’intervista pubblicata su WIRED che
“il governo dovrebbe essere digitalizzato, e il parlamentare è l’esecutore del volere della collettività, per questo ogni decisione va sottoposta a referendum.”
Nel mondo reale il peso delle identità culturali e degli interessi sociali prevale rispetto alle dinamiche scatenate dalla comunicazione digitale. Si guardi all’evoluzione egiziana tre anni dopo la cosiddetta “primavera araba”. La sollevazione Egiziana preparata e coordinata dai media elettronici (non solo Twitter e Facebook, ma i canali televisivi come Al-jazeera e Al-Arabia) sconfisse il tiranno Moubarak, ma non la tirannia. E nel lungo periodo la tirannia ha ripreso il sopravvento sconfiggendo gli islamisti ed emarginando il movimento degli operai e degli intellettuali laici.
Nel libro The Net Delusion: The Dark side of Internet Freedom Eugeny Morozov sostiene che in ultima analisi i nuovi media giocano a favore del potere. Secondo Morozov è sbagliato pensare che le grandi aziende digitali possano essere favorevoli ai processi di liberazione dal potere delle grandi aziende.
Ma non dovremmo riferirci solo agli effetti politici della diffusione dei media, perché i media non sono solo strumenti per l’imposizione di interessi sociali e di programmi politici. I media sono soprattutto macchine per la modellazione della soggettività collettiva, sono fattori di mutazione antropologica e la disposizione dei corpi nella sfera sociale.
Soprattutto quando, con lo sviluppo della banda larga e del Web2.0, la tecnologia digitale ha finito per invadere ogni spazio della vita quotidiana e per sopraffare le capacità di attenzione cosciente da parte degli utenti connessi, ha cominciato a divenire evidente un fenomeno di sovraccarico, di accelerazione costante e conseguentemente un’ansietà che in alcuni casi si manifesta nelle patologie del panico. Le psicopatologie legate alla velocità dell’informazione non vanno considerate come un marginale effetto del processo di trasformazione tecnica, ma vanno considerate come il principale fattore di trasformazione antropologica che la rete porta con sé.
Le considerazioni politiche sulla democrazia di rete possono avere più o meno realismo – e in effetti si stanno rivelando in generale poco fondate – ma in ogni caso la trasformazione politica non è l’aspetto decisivo nella mutazione antropologica che stiamo vivendo. Concentrarsi sugli effetti politici – che vadano in direzione della democrazia o in direzione del controllo totale – è un po’ come concentrarsi sulla superficie mentre in profondità si stanno verificando trasformazioni psichiche, cognitive, sociali, urbanistiche, prossemiche, e psicopatologiche la cui importanza, in termini evolutivi, è di gran lunga maggiore.
Sia Shirky che Morozov, il tecnofilo ottimista e il critico analista della tecnologia insistono nel considerare Internet e i media in generale come uno strumento che trasferisce contenuti: E naturalmente i media sono anche questo. Ma limitarsi a questo aspetto significa capire molto poco dei media, perché i media non sono soltanto uno strumento ma anche e soprattutto un ambiente, i cui effetti prescindono dai contenuti politici e dalle intenzioni coscienti.
In questo senso l’approccio di Geert Lovink (vedi Networks without a cause, recentemente tradotto in Italiano) è più utile per la comprensione degli effetti dei nuovi media, perché Lovink li esamina non solo dal punto di vista del loro contenuto politico, ma anche del loro effetto antropologico, indagando i loro effetti psichici e culturali. Lovink definisce i social network come un fattore di privatizzazione della vita quotidiana e di isolamento psichico e affettivo.
Nella nuova dimensione dei social network, il desiderio diverge dal contatto fisico ed è investito nel campo astratto della seduzione simulata, nello spazio infinito dell’immagine. L’infinito ampliamento dell’immaginazione disincarnata conduce alla fuga infinita da un oggetto all’altro, al narcisismo e alla frustrazione depressiva.
E’ difficile prevedere che tipo di mutazione si prepari nel lungo periodo dell’evoluzione umana, ma chi si occupi delle trasformazioni prodotte dal digitale non può limitarsi a costatare la banalità del potenziamento politico che deriva dalla possibilità di diffondere l’informazione: questo aspetto esiste, e va considerato come un interessante aspetto strumentale, ma in fondo è secondario in una valutazione complessiva e strategica della mutazione antropologica che stiamo vivendo. Tanto più che, per concludere, dato l’enorme divario tra la massa di informazione accessibile e il tempo di attenzione disponibile, tra l’altro, i diversi gruppi di opinione finiscono per concentrarsi solo sulle fonti informative che ribadiscono le loro convinzioni, e per rinchiudersi in veri e propri ghetti identitari: ne derivano forme di ignoranza e fanatismo come quella del Tea party americano. Talvolta Internet appare piuttosto una fabbrica di cretinismo identitario, che un’agora di scambio tollerante e di scoperta intellettuale.
Category: Nuovi media, Politica