Alessandro Somma: La sinistra oltre il referendum
Diffondiamo da Repubblica.it/Micromega del 19 dicembre
Molti hanno ritenuto che, per le dimensioni della vittoria del no, l’esito del referendum sulla riforma costituzionale sia stato sorprendente. Hanno invece ricalcato un copione già visto gli avvenimenti che sono seguiti a questa vittoria e in particolare le reazioni dei partiti, di quelli risultati vincitori così come di quelli sconfitti. Ma sono soprattutto le dinamiche politiche disinnescate dall’esito referendario, ad essere avviate verso la riproduzione di uno schema oramai consolidato: quello per cui, dopo avere fatto il lavoro sporco, le formazioni progressiste si avviano verso un definitivo e meritato declino, inevitabilmente seguito dal successo delle destre.
I vinti insultano i vincitori
Incominciamo dalle reazioni dei vinti, del tutto simili a quelle che hanno accompagnato due momenti fondamentali di quanto è stata chiamata l’avanzata mondiale del populismo: prima la vittoria dei fautori di un’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel referendum sulla Brexit, e poi l’elezione di Donald Trump a nuovo Presidente degli Stati Uniti. In entrambi i casi i vinti hanno disegnato un identikit del vincitore che assomiglia a una sorta di troglodita: incapace di comprendere le virtù della globalizzazione, di cogliere i vantaggi portati dalla libera circolazione delle merci e dei capitali, di accettarli come fatti irreversibili. Come se la globalizzazione fosse un fenomeno naturale, le cui dinamiche non rispondono a precise scelte politiche: quelle che hanno condotto all’attuale crisi economica e finanziaria, e alla macelleria umana e sociale impadronitasi delle nostre vite. Come se reagire a questo destino, e dunque opporsi alla religione del mercato professata da Bruxelles o dal clan dei Clinton, fosse un’irrazionale ribellione alla logica del “non ci sono alternative”. Come se l’esercizio della sovranità popolare fosse oramai spogliato della sua valenza di atto politico, e fosse divenuto una routinaria manifestazione del modo tecnocratico di definire lo stare insieme come società: mera amministrazione dell’esistente.
Ebbene, i sostenitori del sì al referendum costituzionale non sono stati da meno. Hanno riconosciuto la sconfitta, e del resto non potevano farne a meno, senza però valutarla per quello che è stata: il rifiuto di comprimere la partecipazione democratica, e soprattutto di ritenere che il mancato allineamento dei tempi della politica ai tempi dell’economia possa curare, e non invece aggravare, i mali di cui soffriamo. Poi è partita la gara a chi trovava l’insulto migliore, con uscite come quella di Chicco Testa, secondo cui i sostenitori del sì sono terroni (il sì fa il risultato migliore a Milano, Bologna, Firenze e il peggiore a Napoli, Bari, Cagliari: c’è altro da aggiungere?) o come quella di Laura Puppato, che li ritiene deficienti (c’è stata la fuga dei cervelli all’estero, sarà per quello che solo all’estero ha vinto il sì?). Tutti, poi, reputano che abbia vinto il populismo, dimenticando che esso si fonda sulla contrapposizione tra élites e popolo, proprio come quella alimentata ora dalle reazioni scomposte dei sostenitori del sì.
Vincitori abusivi
Passiamo a considerare le reazioni delle forze politiche sostenitrici del no, e dunque il secondo copione già visto: la corsa a intestarsi una vittoria non propria. Questa campagna referendaria ha monopolizzato l’attenzione dei partiti e questi hanno dato vita ad aspri scontri, ma è anche stata caratterizzata da un ampio protagonismo di società civile e intellettuali. Più precisamente, gli scontri tra partiti sono sembrati un rito al quale il ceto politico si era in qualche modo appassionato, che però si consumava negli studi televisivi: al riparo delle tensioni ideali che hanno invece animato gli innumerevoli dibattiti e confronti organizzati a livello locale.
Forse proprio per questo si è avuta una partecipazione molto elevata, oltre che al voto, alle iniziative che lo hanno preceduto. Sarebbe interessante mettere a fuoco questo dato, magari costruendo un parallelo con un altro importante esito referendario: quello, del giugno 2011, sull’acqua bene comune. Anche allora quell’esito fu ottenuto grazie alla mobilitazione di società civile e intellettuali, che anche allora venne ridicolizzata e sbeffeggiata proprio da quel Pd poi impegnato a tradire la volontà popolare (a testimonianza di come il fastidio per la partecipazione democrazia sia scritto nel suo Dna).
Quanto è vecchio Renzi
E veniamo a quanto sembra preannunciarsi come un probabile scenario futuro, anch’esso già visto molte, troppe volte: il ritorno delle destre al governo, aiutato dal tracollo elettorale delle forze progressiste, giustamente punite dai loro elettori per averli resi poveri e precari.
Da questo punto di vista Renzi non ha inventato nulla e non è un certo caso isolato: è la manifestazione italiana di un fenomeno vecchio e diffuso che ha preso corpo negli anni Novanta del secolo scorso, non a caso gli anni in cui sono nati gli elettori più ferocemente contrari alla sua riforma costituzionale. Allora la cosiddetta sinistra europea, subalterna alla svolta neoliberale di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, decise che il mercato realizzava un’ottimale redistribuzione della ricchezza, e che pertanto allo Stato spettavano nuovi compiti: non doveva più adoperarsi per promuovere direttamente l’uguaglianza, bensì limitarsi a incentivare la concorrenza e attrarre gli investimenti. Il che significava abbassare la pressione fiscale e il costo del lavoro, e in ultima analisi aprire la strada a quanto ci affligge ora: una concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti e una diffusione della povertà e della precarietà presso settori di popolazione sempre più ampi. Il tutto minando alla radice l’equilibrio tra democrazia e mercato, che la promozione dell’uguaglianza affidata allo Stato aveva se non altro voluto assicurare.
Il primo leader progressista a muoversi in questo senso fu Tony Blair, Primo ministro del Regno Unito dal 1997 al 2007, le cui idee tanto piacquero a Gerhard Schröder, Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005.
Al principio della loro esperienza da premier, i due pubblicarono un appello sul percorso e la ricollocazione della sinistra europea: la “terza via” e il “nuovo centro”. Per costruirli occorreva abbandonare la “giustizia sociale” come unico orizzonte, riconoscendo l’importanza del “dinamismo economico” e l’utilità di “liberare creatività e innovazione”. Ciò presupponeva un arretramento della politica, a cui riservare il compito di “completare e migliorare, ma non anche impedire la forza direttiva dei mercati”: era oramai superata l’idea per cui “lo Stato deve correggere i fallimenti del mercato considerati dannosi”, ancora legata a un mondo dominato dai “presupposti ideologici” riconducibili al “dogma della divisione tra destra e sinistra”. Non meno ideologiche erano però le soluzioni proposte per il nuovo mondo, che si voleva retto da “un nuovo spirito imprenditoriale”, così come dalla necessità di “creare le condizioni per la prosperità delle imprese”: deregolamentazione, diminuzione della pressione fiscale e liberalizzazione dei mercati. Era ovviamente richiesto anche e soprattutto il contributo dei lavoratori, cui si domandava di abbandonare la loro tradizionale conflittualità, di accettare la “cooperazione con il datore di lavoro”, ripudiando nel contempo il mito del posto di lavoro fisso. Occorreva infine ridurre la spesa pubblica con tagli ai sistemi di sicurezza sociale, oltre che ridimensionando complessivamente la Pubblica amministrazione (Europe: The Third Way/Die Neue Mitte – 8 giugno 1999).
Blair e Schröder furono dopo poco seguiti da Josè Luis Zapatero, Primo Ministro spagnolo dal 2004 al 2011, le cui aperture nel campo dei diritti civili impedirono di vedere quanto in economia fosse subalterno al neoliberalismo e dunque nemico dei diritti sociali. Renzi, come François Hollande, sono arrivati in ritardo, ma hanno recuperato in fretta il tempo perduto: approvando quasi all’unisono una riforma del lavoro di matrice neoliberale e, nel caso dell’ex Sindaco di Firenze, tentando di forzare la Carta costituzionale in senso autoritario.
La marginalità dopo il lavoro sporco
Nel Regno Unito, in Germania e in Spagna la svolta neoliberale delle forze progressiste ha determinato la loro sostanziale marginalità politica, e si capisce: hanno promosso riforme odiose, all’epoca irrealizzabili dalle destre per l’incapacità di ammaestrare le piazze, come quelle che hanno dato il colpo di grazia al sistema dei diritti dei lavoratori e della sicurezza sociale.
Nel Regno Unito le prime elezioni dopo l’Era Blair, tenutesi nel 2010 dopo il passaggio di consegne a Gordon Brown, affidano il Paese ai Conservatori capitanati prima da David Cameron, e ora da Theresa May. In Germania, la fine ingloriosa di Schröder ha fatto precipitare i Socialdemocratici dal 40 al 25%dei consensi, quota sostanzialmente invariata dal 2005 anche per l’indisponibilità a interrompere il percorso di subalternità al verbo neoliberale. A queste condizioni si è potuta avviare l’Era di Angela Merkel, ora destinata a ottenere il quarto mandato da Cancelliera nel 2017, con i Socialdemocratici ridotti a reggere il gioco nell’ambito dell’oramai ennesima Grande coalizione. In Spagna, nel 2011, succede a Zapatero il Popolare Mariano Rajoy, ancora in carica nonostante Podemos e Izquierda Unida, guarda caso grazie all’appoggio esterno dei Socialisti spagnoli: che per l’occasione, su diktat europeo, hanno anche liquidato il Segretario Pedro Sánchez, contrario a questo triste epilogo.
Lo stesso sta per avvenire in Francia, dove per le elezioni presidenziali del prossimo anno si prevede un testa a testa tra la leader xenofoba Marine Le Pen e François Fillon, esponente dell’ala destra del partito della destra francese. E anche per l’Italia non si preannuncia nulla di buono, tra manovre di Palazzo e condizionamenti europei.
Le manovre di palazzo sono già iniziate e i risultati non tarderanno a farsi vedere. Probabilmente Renzi non resterà il padrone assoluto del Pd: i più sono saliti sul suo carro per mero calcolo, quindi lo abbandoneranno in fretta e furia vedendo passare altri carri ritenuti più promettenti. E tuttavia la svolta neoliberale del partito non risale alla presa del potere di Renzi, bensì agli anni in cui il Partito era in mano ai postcomunisti: i Bersani e i D’Alema che ora si atteggiano a novelli Che Guevara, un tempo impegnati a rinnegare qualsiasi parola d’ordine in odore di sinistra, al suono del verbo neoliberale.
Se dunque la cosiddetta sinistra del Pd tornerà nella stanza dei bottoni, difficilmente cambierà linea. Se non altro perché anni di svolta neoliberale hanno cambiato pelle in modo definitivo al Partito, esattamente come è successo a tutti le altre formazioni europee al netto di qualche innocua lacrima di coccodrillo.
L’Europa non starà a guardare
In tutto questo, occorre fare i conti con il severo custode del verbo neoliberale: con l’Unione europea, che su pressione tedesca continua a impedire qualsiasi politica economica diversa da quella che punta al pareggio di bilancio.
Renzi ha fatto finta di opporsi a queste pressioni, che ha comunque utilizzato come alibi per avanzare verso le riforme più odiose imposte dal suo esecutivo: prima fra tutte il Jobs Act, oltre alla riscrittura della Costituzione in senso autoritario. E c’è da scommettere che Gentiloni procederà lungo questa strada, magari evitando gli insulti di facciata alla Cancelliera, ma per il resto continuando a far leva sui parametri europei in materia di debito e deficit per completare il lavoro sporco a tutto vantaggio delle destre.
Bruxelles vuole ora consolidare la riduzione dei rapporti di lavoro a relazioni di mercato qualsiasi, per la quale occorre innanzi tutto disinnescare i tre referendum chiesti dalla Cgil: per superare finalmente il sistema dei voucher, per reintrodurre la responsabilità solidale dell’appaltante e del committente in tema di organizzazione del lavoro e di trattamento riservato ai lavoratori, e per ripristinare il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Per bloccare i referendum si dovrà forse andare ad elezioni anticipate, motivo per cui occorre una legge elettorale che impedisca ciò che al momento sembra assicurare il meccanismo fatto proprio dall’Italicum: un esecutivo a guida Cinque stelle. È la chiave di lettura per comprendere il motivo per cui Renzi ha ripescato il Mattarellum, che favorisce le coalizioni e con ciò l’unico strumento capace di intralciare quanto al momento sembra l’irresistibile ascesa dei Grillini.
Manovre a sinistra
Se peraltro il Mattarellum favorisce le coalizioni, il Pd è costretto a scegliersi qualche compagno di strada, e a monte la direzione verso la quale guardare per individuarlo. La maggioranza del Pd va dove la porta il cuore, e dunque punta a destra, ma sono iniziate anche le manovre per costruire alleanza a sinistra, ovvero per resuscitare il mitico centrosinistra.
Queste manovre sono innanzi tutto organiche allo scontro interno al Pd, ma non solo. Anche fuori dal Partito di Renzi si moltiplicano i tentativi di offrire una sponda per alleanze alternative a quelle al momento più probabili: con i centristi o persino con la destra disponibile a una Grande coalizione. Si spiegano così gli sforzi di Giuliano Pisapia, ma anche di pezzi importanti di Sinistra italiana, la formazione politica nata come Gruppo parlamentare, faticosamente avviata verso la costruzione del partito.
Sono anni che le forze politiche a sinistra del Pd-Ds-Pds tentano senza successo di correggerne la rotta politica. Anni in cui i numeri potevano assicurare ben altro risultato, visto che stiamo parlando di forze politiche che in passato non sono state così marginali, ininfluenti e autoreferenziali come sono ora. Anni che come risultato hanno prodotto il renzismo, monumento ai fallimenti di chi ha creduto di poter appassionare gli eredi del Pci a un progetto politico in cui comparisse la critica al neoliberalismo.
Si dice che oggi le cose sono diverse, ma la realtà è una sola: finché ci sarà il Pd, renziano o non renziano, non ci sarà spazio per politiche finalmente alternative a quelle imposte dal pensiero unico neoliberale, per restituire allo Stato il potere e dovere di intervenire contro le dinamiche del mercato redistribuendo ricchezza dall’alto verso il basso. O meglio: non ci sarà spazio a sinistra, o comunque non nell’ambito di alleanze in cui il ritorno al controllo della politica sull’economia non si combini con chiusure identitarie nazionaliste e xenofobe.
Insomma, finché ci sarà il Pd la destra potrà serenamente pregustare la presa del potere, mentre agli sconfitti non resterà che consolarsi dando la colpa agli elettori trogloditi: magra e stupida consolazione.
(19 dicembre 2016)
Category: Politica