Sabrina Ardizzoni: Dun Sao e le ragazze rapite
Il film Blind Mountain ha avuto come regista Yang Li
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“Ciao a tutti, mi chiamo Dun Sao, una fallita, di quelle nate nelle classi basse che aspira a grandi guadagni. Una che vorrebbe cambiare, diventare forte, come gli altri, una che vorrebbe arricchirsi. Se volete, qui potete ascoltarmi nel mio blog”
E’ un pugno nello stomaco l’introduzione a questo post di una giovane diaosi, una “fallita”, come si definisce lei stessa. Una di quei giovani senza troppe speranze, che ormai sono sempre di più in Cina. Ma che non si arrende. Lei prende questa etichetta da perdente, la mette dentro a una pallina da tennis e la rilancia, cercando di allontanarla da se, sperando che qualcuno la possa raccogliere.
E’ con le sue lenti che vogliamo raccontare qui il fatto di cronaca drammatico che in questi giorni di festa per il Capodanno cinese e per l’apertura delle Olimpiadi invernali sta infiammando la rete e la società civile. Il 28 gennaio, su Weibo è stato pubblicato un video del ritrovamento di una giovane donna, legata e seminuda, rinchiusa in una stanza in terra battuta, un ripostiglio adiacente alla casa, con una catena al collo. Lo stesso giorno in cui la notizia ha cominciato a circolare tra i netizen cinesi (milioni sono stati commenti), molti post, a una settimana di distanza, sono stati già cancellati, ma molti blog e post su Wechat e Weibo stanno restituendo uno spaccato di società che non volevamo vedere.
Prendiamo la palla che ci lancia la giovane diaosi, Dun Sao. Ci dice che tutti in rete trattano questo come un caso di traffico di donna a scopo matrimoniale, ciò che i cinesi chiamano guaimai. Si tratta di donne che con Dun Sao hanno molto in comune, come dice lei stessa: sognano di uscire dalla situazione di povertà in cui si trovano, perlopiù in campagna, ma invece di trovare il successo andandosene da casa, si trovano rapite e vendute per essere date in sposa a quegli uomini, anch’essi di campagna, ma a migliaia di chilometri di distanza, che non riescono a trovare moglie a causa del divario di genere nella demografia delle campagne. Anche loro hanno un nome: guanggun, letteralmente “bastone solitario”. Un termine che indica un uomo single avanti negli anni.
Imbrogliate mentre erano alla ricerca di un lavoro lontano da casa, o in alcuni casi vendute o rapite dalle mani delle loro stesse famiglie, passano di mano in mano fino a ritrovarsi prigioniere in paesi sperduti da cui è impossibile sfuggire. Si ritrovano rinchiuse, private della libertà, violentate, costrette dall’intera comunità, spesso con la complicità delle istituzioni. Giumente in età fertile.
Dun Sao dice che le donne rapite provengono dalle campagne di zone povere della Cina: Anhui, Sichuan, Henan, ma anche da luoghi remoti del Guizhou, Yunnan, e dall’estero, soprattutto dal Vietnam. Già; online si trovano organizzazioni che offrono intermediazioni con spose dal Vietnam per 20/50 mila RMB. Il problema è che poi a volte scappano, e i soldi non vengono restituiti.
Caratteristica comune è quello di provenire da ambienti sociali in cui la donna non ha nessun valore, zone di recrudescenza di un patriarcato che sembrava sconfitto nella società della rivoluzione, dove il movimento di liberazione della donna era la parola d’ordine della nuova società.
Il liberismo economico che ha scatenato le disuguaglianze geografiche e sociali, il primato della città che ha portato l’impoverimento delle campagne e la crisi dell’agricoltura, e la corsa a uno sviluppo a tutti i costi; la critica alle istanze della rivoluzione, e il ritorno a pratiche di una tradizione famigliare e sociale che assegna alle donne ruoli e funzioni legati alla produzione e riproduzione per il mantenimento della discendenza famigliare: tutti costumi che i “cattivi rivoluzionari” avevano eliminato, ma mai veramente cancellato. Sono questi i fattori che stanno riportando le donne, soprattutto in campagna, in una condizione che non è ascrivibile al passato, perché è peggio, in quanto non si realizza nel passato, ma in un presente non immaginato.
In passato venivano stipulati dei contratti tra famiglie: “Yang XX vende la figlia Yang XX alla famiglia Li, del villaggio XX, per una cifra di … Da questo momento in poi, la famiglia di origine non avrà più alcun diritto sulla figlia, che passa a tutti gli effetti a far parte della famiglia Li.”
Poiché il matrimonio tradizionale era virilocale, la rottura dei legami con la famiglia di origine della donna era un fatto accettato. Oggi, in molte zone rurali, svuotate da decenni di politica del figlio unico, di selezione di genere pre o post-natale, e dall’emigrazione in città, il divario di genere è drammatico – non ci sono donne – e la figura femminile viene riposizionata negli strati più bassi della gerarchia famigliare, come ai tempi pre-rivoluzionari.
La provincia meridionale del Jiangsu in cui è stato scoperto il caso che raccogliamo dalla voce di Dun Sao è una delle zone che stanno scoperchiando un numero sempre maggiore casi di guaimai, di traffico di schiave da riproduzione.
Le istituzioni locali, inclusa quella preposta alla difesa delle donne, l’Associazione delle donne (Fulian) locale, sostiene che la giovane, che dal marito ha avuto otto figli, avesse disturbi di ordine psicologico (un tratto comolto diffuso, comune a tutte le donne rapite, quello di essere etichettate come shenjingbing, ossia “malate di mente”), ma che non ci siano motivi di pensare che si tratti di un caso di traffico. Spesso, le autorità locali da una parte “indagano”, dall’altra considerano il fenomeno come parte del sostrato culturale che caratterizza le piccole comunità locali. Fenomeni isolati che, in fondo, sono utili alla soluzione del problema dello svuotamento dei villaggi, e che pertanto non vale la pena denunciare a livello nazionale e tantomeno reprimere.
Questo fenomeno ha avuto una “periodo d’oro” negli anni ottanta e novanta del secolo scorso. E’ stato al centro dell’attenzione di scrittori e sceneggiatori, che lo hanno denunciato.
Ne ha parlato lo scrittore Jia Pingwa, classe 1952, già tradotto in italiano, in Jihua, un romanzo scritto nel 2016, e anche in numerose conferenze e dibattiti che hanno avuto una grossa risonanza sui media; ne parla un film del 2007, Blind Mountain, di Yang Li, presentato a Cannes e all’Asian Film Festival di Roma. Un altro film, The Abducted Woman [Jia gei dashanli de nüren], ha descritto la vita di una donna rapita e portata in un villaggio dello Hebei, dove è diventata insegnante della scuola locale.
Visto il successo di questo film, nel 2005 la televisione centrale cinese (CCTV) ha prodotto e trasmesso una serie TV, Axia, in cui, raccogliendo diverse testimonianze di giovani donne rapite, costruisce la storia di una ragazza del Sichuan che in seguito alla rottura di una relazione, ha seguito il cugino con la promessa di un lavoro. Ne parla un libro di denuncia pubblicato nel 1989 dalla Casa editrice del Zhejiang: Un crimine antico [Gulaode zui’e], un libro di inchiesta di cui non si è parlato molto. Ma, come dimostra l’episodio della “donna con otto figli” del Jiangsu, come ormai viene conosciuta la protagonista di questo ultimo fatto di cronaca, dimostra che a questo fenomeno non è ancora stata scritta la parola fine.
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