Padre Efrem Tresoldi: Nelson Mandela (1918-2013)
Diffondiamo dalla rivista Nigrizia (con cui Inchiesta è collegata nella campagna “Dichiariamo illegale la povertà”) l’editoriale scritto il 5 dicembre dal suo direttore il Padre comboniano Efrem Tresoldi che è arrivato alla direzione della rivista alla fine del 2012 dopo 20 anni di esperienza in Sudafrica, prima nella Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale sudafricana e poi alla guida del World Wide Media Center a Pretoria. Sempre da Nigrizia pubblichiamo l’intervento di Chris Ahrends pubblicato il 5 dicembre 2013 e un intervento di David Brown scritto per Nigrizia quando l’11 febbraio 1990 Mandela fu liberato dopo 27 anni di carcere duro.
Il mondo intero è commosso per la scomparsa di Madiba, il nome del suo clan xhosa, leader del movimento di liberazione dell’African National Congress e padre del Sudafrica democratico che è diventato l’icona universale della lotta per i diritti umani. In lui si riconoscono uomini e donne impegnati in ogni angolo del pianeta per il riconoscimento dei diritti umani contro ogni forma di discriminazione e oppressione.
Madiba è il militante politico che antepone il bene della nazione agli interessi e alle ambizioni personali. Per la liberazione del suo popolo è disposto a sacrificare la propria libertà, anche a morire se necessario. Per gli ideali di libertà è condannato al carcere a vita.
Madiba, uomo del dialogo. Negli ultimi anni di carcerazione si assume la responsabilità di avviare il dialogo con suoi avversari politici e dà inizio alla stagione nuova che, dopo la sua liberazione, porterà al tavolo negoziale tra il Partito nazionale e l’Anc. Diventerà l’artefice principale della transizione dal regime segregazionista bianco a una nazione democratica con le prime elezioni libere celebrate pacificamente nell’aprile 1994, senza il temuto bagno di sangue.
Madiba incarna i valori della riconciliazione: una volta diventato il primo presidente del nuovo Sudafrica costituisce il riferimento cardine per la riconciliazione di una nazione lacerata da secoli di divisione e segregazione razziale. Non serba rancori e a chi gli chiede se avesse perdonato ai suoi aguzzini che lo hanno tenuto in carcere per 27 anni Mandela risponde – “se non avessi perdonato loro sarei ancora loro prigioniero”. Libero da pregiudizi va incontro alla comunità bianca chiedendo loro di collaborare al piano di ricostruzione della nazione. La commissione Verità e Riconciliazione da lui voluta e guidata dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu offre la possibilità di riscatto ai perpetratori dei reati dell’apartheid e riconosce alle vittime il contributo di dolore e sangue alla lotta di liberazione. L’esperimento della commissione viene apprezzato da altri paesi che usciti dalla guerra trarranno ispirazione da essa per mettere in atto esperienze simili.
Madiba lo statista non cede alle lusinghe del potere. Nel 1999 non si ricandida per la seconda volta alle elezioni politiche, diritto consentitogli dalla legge, per lasciare il posto a chi è più giovane di lui e con più energie per poter guidare il paese. Il suo esempio è una sfida ad altri leader politici in Africa e altrove che considerano il potere un privilegio da mantenere a tutti i costi, non un servizio alla comunità.
Grazie Madiba!
1. Chris Ahrends : Le mille facce di Mandela senza maschera
Chris Ahrends è un Prete Anglicano che vive ed esercita come psicoterapeuta a Città del Capo. È stato cappellano dell’arcivescovo Desmond Tutu e direttore del centro per la pace dedicato allo stesso. Il disegno è di Zapiro
[Nigrizia 5 dicembre 2013]
Il mio incontro con Nelson Mandela avvenne il 12 febbraio 1990. Il suo primo mattino da persona libera. Il pomeriggio precedente era stato rilasciato dopo 27 anni di prigionia, la maggior parte dei quali trascorsi a Robben Island, un’isola piccola e inospitale di fronte a Città del Capo. Isola che molti di noi hanno guardato per anni, coscienti che là viveva il più famoso prigioniero politico del mondo. Domenica 11 febbraio, subito dopo la sua liberazione, Mandela parlò davanti a 30 mila persone accorse per salutarlo alla Grand Parade, il grande spazio riservato alle parate militari, che si trova vicino al municipio di Città del Capo. Il giorno e l’ora esatta della sua liberazione erano stati tenuti segreti al pubblico e ai suoi stessi compagni dell’African National Congress (Anc).
Quando trapelò la notizia che sarebbe stato liberato, rimaneva poco tempo per i preparativi. In fretta, il comitato di accoglienza si mise in moto. Si decise che dopo la sua liberazione e la sua prima apparizione in pubblico, avrebbe trascorso la notte a Bishopscourt, sobborgo di Città del Capo, nella residenza ufficiale di Desmond Tutu, arcivescovo della città. Da cinque anni ero il cappellano di Tutu e la mattina del 12 febbraio ero in soggiorno, quando Mandela entrò nella stanza per salutare lo staff dell’arcivescovo. Dopo le foto di rito, gli chiedemmo un autografo. Si sedette dietro la scrivania, prese un foglio bianco e chiese a ognuno di noi a chi dovesse indirizzare i saluti. Quando arrivò il mio turno, in piedi vicino a lui, gli indicai il mio nome. Mandela si fermò, mi guardò e mi domandò se fossi sposato. «Sì», risposi. «E qual è il nome di tua moglie?», riprese. «Jacqui», risposi. «Oh – disse Mandela – e come si scrive?». Così oggi, in un inchiostro blu sbiadito, incorniciato come un prezioso ricordo del periodo più eccitante della storia del nostro paese, abbiamo un biglietto firmato da Madiba, con su scritto “A Jacqui e Chris, i miei migliori auguri e felicitazioni. Nelson Mandela, 12 febbraio 1990”.
L’episodio mi è tornato in mente per diverse ragioni. Primo, era una giornata splendida. Il sole splendeva. A febbraio Città del Capo è bellissima. Siamo in piena estate. Era un giorno perfetto, quindi, per celebrare la libertà. Un giorno esaltante, potevamo sognare tutto quello che la liberazione di Mandela avrebbe comportato. Libertà, per il paese, dai lacci dell’oppressione. La fine dell’apartheid. L’avvento della democrazia. Tutto questo era nell’aria. Palpabile. Un giorno da molti atteso, per il quale avevano subito la prigionia, se non la morte. E poi, improvvisamente, eccolo. Nelson Mandela era a casa, seduto dietro a un tavolo a firmare autografi, chiedendo come si scrivesse il nome di mia moglie.
Quale altro uomo, dopo 27 anni di prigionia, nel suo primo giorno di libertà, con una folla di giornalisti stranieri radunatisi per registrare la sua prima conferenza stampa dal vivo, avrebbe perso del tempo con lo staff dell’arcivescovo? Quale altro uomo avrebbe fatto fermare la sua vettura in una strada secondaria della periferia per chiedere a una madre, in strada con il figlio, se poteva prendere il bambino in braccio, dicendole quanto in prigione avesse desiderato vivere momenti come quello? Quale altro uomo, alla prima apparizione in pubblico, avrebbe iniziato il suo discorso con le parole: «Saluto tutti voi nel nome della pace, della libertà e della democrazia per tutti»?
Si è spesso discusso sul vero volto di Mandela: quale uomo ci fosse dietro il presidente, quale persona dietro il politico, quale prigioniero dietro la persona. Basandomi sugli scritti degli amici più intimi e sulle lettere ai suoi cari e agli amici durante la prigionia, la mia opinione è che non c’è un altro uomo dietro la figura politica. C’è un solo Mandela: certo, un uomo complesso e dalle molte sfumature, ma che non cambia maschera in base alle esigenze di chi ha di fronte. Il carattere di Mandela può essere un puzzle composto di molti pezzi, storie, talenti. Ma tutti lo rappresentano. Gli eventi avrebbero potuto abbatterlo. Non ha avuto, invece, il timore di affrontarli. Nell’ex presidente troviamo molti elementi dell’essere umano, con evidenti contraddizioni comuni a molti: l’eroe della lotta per la liberazione, ma con matrimoni falliti alle spalle; un padre devoto, ma che ha trascurato la famiglia; un attivista innamorato della bellezza, della letteratura e dell’arte, ma anche un combattente dalle manieri rudi; un figlio della terra, il quale, tuttavia, si trova a suo agio nel caos cittadino; l’uomo del Nobel per la pace che nella sua vita non ha disdegnato di usare la violenza come strategia politica; un ragazzo povero che diventa prima avvocato, poi prigioniero famoso, quindi presidente amato, infine icona mondiale.
La sua, è una storia che racconta di passione e di riconoscenza, ma anche d’impazienza e di scelte sofferte. Nell’uomo Mandela emerge tutto questo. Perché meravigliarsi allora se le persone lo guardano chiedendosi: è reale o ne esiste un altro? Mandela dietro questa facciata? Magari una persona che tradisce la sua straordinarietà? Ma è proprio questo il punto: è così straordinario perché è semplicemente umano e consapevole delle sue debolezze. Molti si sono chiesti se siano stati gli anni di prigionia ad avergli plasmato il carattere. Di nuovo, è una domanda fuorviante e la risposta è chiaramente: no. Gli anni in carcere lo hanno segnato, certo. L’hanno sì modellato, ma non l’hanno realmente cambiato. Un uomo brillante è entrato in prigione, ne è emerso un uomo illuminato. Un uomo intelligente è stato incarcerato, ne è uscito un uomo più saggio. Un uomo energico e vitale è diventato un uomo dal carisma immenso.
Bisogna guardare in toto il percorso di Mandela per capire come sia stato possibile che un ragazzo di campagna sia diventato il leader internazionale che conosciamo. Questo mix di cuore e mente è descritto nei pochi paragrafi di una lettera scritta da Madiba a Nomabutho Bhala, nel 1971, che si conclude così: «Mi piacciono i sogni… nei momenti in cui c’è chi incoraggia vivamente la crescita di fazioni, sostenendo l’etnia come la forma più alta di organizzazione sociale, mettendo un gruppo contro l’altro, il sogno di un mondo multiculturale non è solo desiderabile ma doveroso. Sogno che mette in evidenza l’unione speciale delle forze per la libertà, in un legame forgiato dalla lotta comune, dal sacrificio e dalle tradizioni».
Diciannove anni dopo, l’11 febbraio 1990, il sogno multiculturale divenne realtà. Una domenica pomeriggio tra 30mila persone in festa, l’uomo da sempre destinato a grandi cose, apparve al balcone del municipio di Città del Capo, dimostrando al mondo che 27 anni di prigionia non avevano cambiato il sogno di un mondo dove tutti sono liberi. Ecco quanto disse in quell’occasione: «Vi saluto in nome della pace, della democrazia e della libertà per tutti. Sono qui di fronte a voi non come un profeta ma come un umile servo della gente. I vostri eroici sacrifici hanno reso possibile la mia presenza qui, oggi. Lascio nelle vostre mani i restanti anni della mia vita. La nostra lotta ha raggiunto un punto cruciale. Le persone sono chiamate a cogliere l’opportunità di mettere in moto un processo rapido e continuo verso la democrazia. Abbiamo atteso troppo a lungo la libertà. Non possiamo aspettare ancora… Vedere la libertà all’orizzonte ci deve incoraggiare a raddoppiare gli sforzi. La nostra marcia verso la libertà è irreversibile. Non dobbiamo permettere alla paura di fermarci. Il suffragio universale in un Sudafrica democratico e senza leggi razziali è la sola via verso la pace e l’armonia tra le persone».
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2. David Brown: Mandela libero
[intervento scritto per Nigrizia quando Mandela fu liberato l’11 febbraio 1990 dopo 27 anni di carcere duro]
Prima ancora del discorso storico del 2 febbraio del presidente de Klerk, era chiaro che il governo sudafricano era da tempo in dialogo con l’African National Congress (ANC) attraverso la mediazione del suo leader carismatico Nelson Mandela. Le trattative erano già in corso; non per parlare dei Futuro del Sudafrica bensì per individuare i prerequisiti e preparare il clima necessario per intavolare futuri negoziati. La decisione di de Klerk di dialogare su dei prerequisiti internazionalmente accettati è da attribuire all’inesorabile declino dell’economia sudafricana. Come già accadde in Rhodesia, è arrivato il momento quando la logica militare deve cedere il passo alla logica dell’economia. Questo processo in Sudafrica ha subito una accelerazione violenta dopo l’umiliazione di Cuito Cuanavale nel 1988 per mano delle truppe angolane e cubane. L’embargo di armi ha infatti lasciato il Sudafrica con una forza aerea pericolosamente inadeguata. Gli investimenti in diminuzione per il quarto anno consecutivo, il peso delle sanzioni economiche, i 2,4 miliardi di dollari di debito da ripagare entro il 1990 e la scarsità fatta per i casi più estremi, assume dunque una particolare importanza nei confronti dei mèmbri dell’ANC che stanno attendendo l’impiccagione nel braccio della morte.
Tale proposta consente inoltre al presi dente un più ampio spazio di manovra e vanifica al contempo una nuova, intensa campagna che si sta diffondendo tra le chiese e il Movimento Democratico di Massa (MDM). Non è difficile prevedere che una pronta scarcerazione di tutti i prigionieri politici scatenerà sul governo de Klerk un forte e pericoloso contraccolpo da parte dei boeri estremisti. Le modalità della scarcerazione le varie categorie dei detenuti da liberare saranno oggetto di valuta estera disponibile (si parla che la divisa a disposizione sia sufficiente solo a coprire le importazioni di poche settimane) hanno costretto il pragmatico de Klerk a porre l’opinione internazionale al di sopra dei malumori atavici dell’estrema destra boera.
Le proposte fatte all’apertura del parlamento hanno evitato tuttavia ogni importante concessione ai due pilastri dell’apartheid: l’Atto di registrazione etnica della popolazione e l’Atto che divide le aree di residenza secondo le razze (Group Areas). Grande attenzione è stata prestata alla decisione di riportare l’ANC alla legalità. Alcuni hanno manifestato stupore. Ma per quanti hanno partecipato negli ultimi tempi ad un raduno di massa, a una marcia, a un funerale o ad una dimostrazione —e molti diplomatici delle ambasciate accreditate a Pretoria lo fanno — sorprendersi sarebbe stata cosa da ingenui. È stato infatti l’ANC stesso ad uscire dalla clandestinità. Le sue bandiere e magliette da anni adornano tutte le manifestazioni popolari di massa. Da tempo la folla ha imparato un lungo repertorio di canti che esaltano la leadership dell’ANC e del suo braccio armato, Wmkhonto we Sizwe. de Klerk ha semplicemente adeguato la legge alla pratica corrente.
I NEGOZIATI
Dopo anni di tentativi da parte di Pretoria di spaccare l’ANC e isolare il Partito Comunista Sudafricano (SACP), la vera sorpresa del discorso del 2 febbraio è stata la riabilitazione del SACP. Una interpretazione possibile è che lo stesso Mandela e i leader dell’ANC abbiano insistito su questa condizione. D’altra parte il SACP, nelle sue ultime pubblicazioni, ha mostrato di volersi impegnare verso una forma democratica di socialismo ed è stato molto critico del passato dei partiti comunisti dell’Europa orientale.
Ora che Mandela è libero si pone il problema dei prigionieri politici. Al momento le galere sudafricane ospitano circa 300 detenuti per motivi di «sicurezza»; altre 3000 e più persone sono in carcere per aver partecipato a «disordini». In arrivo ci sono inoltre un centinaio di processi politici. La proposta di cancellare la pena capitale, eccezion fatta per i casi più estremi, assume dunque una particolare importanza nei confronti dei membri dell’ANC che stanno attendendo l’impiccagione nel braccio della morte. Tale proposta consente inoltre al presidente un più ampio spazio di manovra e vanifica al contempo una nuova, intensa campagna che si sta diffondendo tra le chiese e il Movimento Democratico di Massa (MDM). Non è difficile prevedere che una pronta scarcerazione di tutti i prigionieri politici scatenerà sul governo de Klerk un forte e pericoloso contraccolpo da parte dei boeri estremisti. Le modalità della scarcerazione le varie categorie dei detenuti da liberare saranno oggetto di complesse trattative. Ora che Mandela è libero i negoziati cominceranno molto probabilmente nella seconda metà del 1990. Il problema dell’incolumità fisica del capo dell’ANC causa preoccupazioni e può fornire al governo la possibilità indiretta di tenerlo sotto sorveglianza. La cosa può rivelarsi molto grave a causa della forte infìltrazione di elementi dell’estrema destra nella polizia e nei servizi segreti.
RICONCILIAZIONE NAZIONALE
II primo ministro inglese, la signora Thatcher, ha già attribuito, giustamente, gli attuali progressi della politica sudafricana alla posizione unica assunta dall’Inghilterra su1 tema delle sanzioni. E molto probabile che la signora di ferro voglia giocare il suo ruolo anche nei negoziati. E un ruolo ci sarebbe: portare de Klerk al tavolo delle trattative e farcelo rimanere fino alla fine. Poi ritirarsi in buon ordine. Lady Thatcher sembra invece orientata verso una formula che prevede la partecipazione di Nelson Mandela a un governo di transizione, un governo di «riconciliazione nazionale», alla cui presidenza siederebbe de Klerk. Questa formula di condivisione del potere offre il vantaggio, secondo gli inglesi, di poter inserire nel governo anche il capo degli zulù, Gatsha Buthelezi, e trovare così una soluzione, almeno temporanea, al problema del Natal.
La fattibilità di un simile scenario politico dipende dalla sua accettazione o meno da parte della popolazione delle township nere che ha portato il peso della lotta nell’ultimo decennio. E anche se la popolazione africana l’accettasse, è ancora da dimostrare che de Klerk sia in grado di coagulare il necessario sostegno elettorale del blocco di potere bianco per muoversi in questa direzione. Il Partito Conservatore infatti sta in agguato con le fauci spalancate.
I passi a venire dell’evoluzione politica sudafricana sono aperti a tutte le direzioni. Sia il Partito Nazionalista che l’ANC infatti non dispongono ancora di programmi precisi e concreti su cui procedere, Entrambi si muovono in territorio sconosciuto sulle ali del momentum storico che stanno vivendo. Un grosso pericolo per l’ANC viene ora dalla possibilità che la comunità internazionale, soddisfatta della situazione attuale, allenti la pressione proprio quando essa è più che mai necessaria. Un secondo pericolo è che il precario sostegno fornito dai giovani delle township venga meno con l’inizio dei negoziati. Il Movimento Panafricanista (PAM) attende nell’ombra per muovere, con la sua antica ostilità verso l’ANC una critica radicale alle trattative. E per questo che il Movimento Democratico di Massa (MDM) sta rapidamente costituendo in tutta la nazione una infrastruttura organizzativa usufruendo del momento di respiro concessi dall’attuale situazione politica.
Soltanto attraverso questa rete di organizzazioni locali sarà possibile educare la costituente giovanile dell’ANC motivarne le tattiche e ottenere il mandato popolare necessario per sostenere le prossime scelte politiche Solo l’organizzazione consentirà di esercitare una cessione efficace sul governo e fornirà i canali di comunicazione con le township.
È scontato che il governo di Pretoria può tornare sui suoi passi ad ogni momento. Poiché la televisione non è stata ancora autorizzata a coprire manifestazioni e dimostra ioni di massa, le forze di sicurezza tossono scagliarsi con tutta la loro potenza contro i civili sicure di non avere puntati addosso gli occhi del pubblico internazionale. Mentre i leader dell’opposizione vivono un momento di relativa immunità, la gente comune soffre ancora degli effetti dell’apartheid, continua ad essere cacciata dalla propria terra, imprigionata, torturata e uccisa. E sufficiente solo un gesto, una parola e l’apparato repressivo ritornerà al centro della scena politica. Mentre è permesso essere membro dell’ANC gran parte delle normali espressioni politiche rimangono il legali o richiedono permessi speciali delle autorità locali o nazionali. Tuttavia a de Klerk, anche se con un certo rancore, viene data dall’MDM una fiducia che non è stata concessa finora ad alcun capo di stato bianco dalla fondazione del National Party nel 1948. La stessa fiducia e rispetto il National Party la ripone in Nelson Mandela. I bianchi al potere, privi di una soluzione che garantisca il futuro della nazione, guardano a Mandela come al «salvatore» che, contro ogni aspettativa, può guidarli fuori della prigionia. È per uno strano gioco del destino che il carceriere guarda ora al prigioniero come al suo liberatore.
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