Bruno Giorgini: Quelli che je ne suis pas Charlie, io non sono Charlie
Il numero speciale di Charlie Hebdò stampato in cinque milioni di copie, e la discesa in piazza di larga parte del popolo francese, culminata domenica 11 gennaio nella mobilitazione di circa 3-4 milioni di persone, di cui 1-2 a Parigi, la più grande credo nella storia, a difesa della libertà con il cartello che campeggiava su tutti je suis Charlie, non deve farci dimenticare quelli che non vogliono essere Charlie.
Come il comico Dieudonnè fermato alle 7 del mattino del 14 gennaio nel quadro di un’inchiesta per apologia del terrorismo, rilasciato alle 17 dello stesso giorno. Dieudonnè aveva sui social network scritto “mi sento Charlie Coulibaly”. Coulibaly, autoaccreditatosi in un video come militante del sedicente Califfato, prima ha ucciso Clarissa Jean-Philippe, brigadiere della polizia municipale disarmata, quindi ha occupato manu militari l’ipermercato kosher a Porte de Vincennes ammazzando quattro persone di confessione ebraica – Yoav Hattab, Philippe Braham, Yohan Cohen and Francois-Michel Saada – infine rimanendo ucciso dalla polizia dopo un lungo assedio.
Il fermo di Dieudonnè non è una buona notizia. In generale tutti i reati di apologia violano la libertà d’opinione e d’espressione. Certe apologie possono essere odiose e le performance di Dieudonnè lo sono, intrise di antisemitismo e con saluti nazisti travestiti, ma è questione della società civile non di polizia, è questione d’azione politica e culturale anche dura, col boicottaggio dei suoi spettacoli per esempio, e con un discorso che si rivolga al suo pubblico per svuotargli le sale, e quant’altro.
Ma torniamo a quelli che hanno detto je ne suis pas Charlie, senza per fortuna finire in galera. Comincia il Financial Times all’indomani dell’eccidio per fucilazione di dieci lavoratori e collaboratori di Charlie Hebdò nonchè due poliziotti, scrivendo grosso modo: se la sono cercata. Non stupisce questa posizione da parte del quotidiano portabandiera del capitalismo libero e selvaggio, della finanza senza confini e leggi, dei mercati e del profitto a dispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino, verso il giornale diretto da uno come Charb, che ancora salutava col pugno chiuso di sovversiva memoria e sepolto al canto dell’Internazionale. Inoltre il mercato delle matite è meno lussurioso di quello delle armi – i mercanti d’armi francesi fanno floridi affari c ol Qatar, uno dei principali finanziatori dell’Isis; quello delle vignette è meno ricco di quello del petrolio; l’ironia poi nemmeno si vende mentre i campi di battaglia sono un forziere di profitti per gli speculatori. Quindi cosa vuoi che sia un gruppo d’anarchici senz’arte nè parte rispetto al business di una guerra infinita.
Un’altro ammazzato dai fascisti della jihad, Bernard Maris, era un economista antiliberista militante, una figura scandalosa per l’establishment finanziario, ma con un prestigio tale da diventare consigliere della Banca di Francia. L’oncle Bernard, come si firmava, scriveva su Charlie il “journal d’un économiste en crise”- il diario di un economista in crisi – disvelando in modo semplice e irridente la natura politico ideologica dei concetti dell’economia liberista, e demolendone i dogmi. Chissà se il Financial intendeva anche e soprattutto – nell’inconscio per carità – “se l’è cercata l’oncle Bernard”.
Per farla corta a tutt’oggi nel mondo anglosassone solo il Guardian mostra la prima pagina di Charlie numero speciale dopo la fucilazione di dieci di loro, dove una persona con barba e turbante piange una sola lacrima tenendo in mano un cartello “je suis charlie”, e la scritta “Tout est pardonné”. Tutto è perdonato. L’unica parola di perdono comparsa nell’intera vicenda è stata scritta dalle vittime, e il Papa cristiano a nome Francesco, forse frastornato dall’altezza, era in aereo, o da un inconscio totalitarismo monoteistico, non l’ha vista, NON HA VISTO LE PAROLE DI PERDONO, lui il cristiano per eccellenza, anzi si è esibito in un gag colla storia del “io se offendi la mia mamma ti tiro un pugno”, mimando il pugno, dopo aver ripetuto che non si possono offendere le religioni.
E perchè? Se io posso fare satira – magari ne fossi capace!- su un uomo politico e/o magari sul direttore di Inchiesta il mio amico Vittorio Capecchi, perchè dovrebbe essermi vietata su S. Pietro o Gesù Cristo? Perchè i cristiani sono milioni e possono arrabbiarsi? Ovvero per motivi di opportunità politica? Tanto più verso i mussulmani, che sono un miliardo e passa, tra cui i fascisti della Jihad col mitra? Ma la satira non ha nulla a che vedere con l’opportunità politica, si può dire anche: opportunismo. Una satira opportunista è un ossimoro.
La satira per definizione non può che essere libera. Una libertà che basta a sè stessa, senza nessun bisogno di essere saggia e/o con altri aggettivi. Si commette blasfemia? Forse, ma la blasfemia in Francia non è più reato dal 1789. Per di più chi, anche da noi, pensa che se la sono cercata, come la mette quando si passa dall’eccidio degli intellettuali anarchico libertari a quello degli ebrei? Se i primi erano “colpevoli” di provocare con le loro vignette e scritti, gli ebrei dell’ipermercato kosher di cosa erano colpevoli? Di essere ebrei come nella peggiore tradizione fascista e nazista.
Ma muoviamoci adesso in quella fiumana di popolo che ha riempito le piazze di Francia. C’è chi critica la presenza dei capi di stato e di governo, essendo alcuni dei presenti ostili e peggio alla libertà di pensiero e di stampa, altri artefici dell’austerità oppressiva e succhiasangue che vige nella UE. Tutto vero, tutto giusto, ben vengano le critiche facendo attenzione a non scambiare i pidocchi con la balena. Il fenomeno veramente inatteso è questo enorme movimento – la balena, il grande capodoglio – emerso dalle profondità sociali a difendere la libertà, rifiutando la guerra di civiltà – che suona assai simile a “guerra civile”.
Si pensi per un momento, gli americani dopo l’11 settembre reagirono militarizzando la società e introducendo il patriot act fortemente lesivo delle libertà civili e politiche; gli europei, in particolare i francesi, costruendo la più gigantesca mobilitazione della società civile mai vista, e in Parlamento per la prima volta dal 1918 tutti i deputati si alzano in piedi cantando la Marsigliese. Qualcuno teme l’ambiguità di questa union sacrée, la notte in cui tutte le vacche sono nere. In particolare l’ambiguità starebbe nel passato coloniale della Republique, che poi passato non è mica tanto.
Vero, la società franco francese, quella dei Dumas e Thierry è ancora fortemente impregnata di ideologia colonial coloniallsta, e così i partiti, non solo di destra ma anche di sinistra. E’ una vecchia storia che non bisognerebbe dimenticare, datando fin dalla Comune di Parigi. I comunardi scampati alla strage e alla deportazione di massa dopo la caduta della Comune, e i profughi di Alsazia e Lorena passate sotto il dominio tedesco, arrivarono fino a Algeri, facendosi coloni e colonizzatori mentre il governo militare dopo la sconfitta contro i prussiani, fu sostituito con un governo civile, da qualcuno indicato come Comune di Algeri. Nelle intenzioni dei profughi comunardi bisognava sia coltivare in proprio la terra, di cui i locali vennero banalmente espropriati tanto era incolta – e i coloni francesi facevano quindi opera meritoria coltivandola – sia insegnare agli indigeni le tecniche della moderna agricoltura nel nome del progresso dell’umanità, magari imponendo forme cooperative. Poco importa che gli autoctoni non ne volessero sapere, lo si faceva per il loro bene, e nacque l’Algeria francese. Mentre invece i militari avrebberro preferito mantenere il controllo delle città e dei commerci, lasciando i villaggi e le campagne gestite dagli abitanti locali nel modo che preferivano, l’autorità militare limitandosi a esigere i tributi.
A un certo punto colonizzati e colonizzatori hanno una comune carta d’identità francese, ma per i colonizzati la dizione è “indigeno d’oltre mare” o qualcosa del genere, con diritti politici e civili limitati rispetto a quelli dei francesi a pieno titolo, i coloni. E’, seppure in forma meno smaccata, quel che accade anche oggi, dove i beurs – i figli di immigrati maghrebini nati in Francia e/o naturalizzati francesi – stentano a avere riconosciuta una cittadinanza piena. L’ho scritta molto schematicamente ma è una storia interessante anche per capire come mai, al tempo della guerra d’Algeria (1954 – 1962), il PCF e il PS , i comunisti e i socialisti, fossero per lungo tempo a favore dell’Algeria francese, mentre i movimenti di solidarietà con gli insorti e per l’indipendenza dell’Algeria trovarono i loro alfieri nei filosofi e intellettuali esistenzialisti riuniti intorno a Les Temps Modernes, due su tutti, Sartre e Jeanson, che sarà nel 1960 arrestato a Ginevra. Senza dimenticare che ancora nel ’68 l’Humanitè, quotidiano del PCF, sbatteva il mostro in prima pagina, titolando contro il provocatore “ebreo tedesco” Daniel Cohn-Bendit.
Mi pare poi che nelle critiche alla grande marcia repubblicana alberghi sottotraccia una sorta di rifiuto del comune, quel comune che ci fa concittadini eguali, bene prezioso per la civile convivenza. Non si tratta di bandire differenze e conflitti ma la città essendo tenuta insieme da un tessuto condiviso di valori, almeno alcuni, questi conflitti non diventano guerra civile, la stasis, sciagura somma già dai tempi dell’antica Atene. Un ateniese fa un passo avanti dalle linee democratiche e chiede all’esercito dei cittadini avversari: perchè ci uccidete, voi che condividete con noi la città? Ecco la domanda e il senso della grande manifestazione parigina: perchè dei cittadini francesi uccidono altri cittadini francesi – i morti sono stati venti, tutti francesi. Con una risposta brutale: perchè alcuni non condividono quei valori della città comune Libertè Egalitè Fraternitè.
Per esempio nella concezione fondamentalista dell’Islam, la libertà è peccato, moralmente nociva e eretica. Islam significa letteralmente sottomissione, obbedienza, e ancora tra loro, che io sappia, non è arrivato un Don Milani a scrivere: l’obbedienza non è più una virtù.
Si apre qui una voragine su cui torneremo: quella dei molti giovani e ragazzi francesi, i beurs di cui abbiamo detto, che non sono Charlie nè si riconoscono in Libertè Fraternitè Egalitè, trovando invece un senso di appartenenza nella fede islamica, quasi sempre in versione fondamentalista – i giovani hanno spesso idealità che si vogliono assolute, per cui valga la pena morire. Non si tratta soltanto degli esclusi delle banlieues, ormai diventati uno stereotipo, ma gli amici e compagni nella scuola di mio nipote, una buona scuola in centro – seppure a Parigi non esista un centro nel senso italiano – frequentata dai figli della borghesia, pure della borghesia mussulmana.
Anch’essi riconoscono e identificano se stessi e di converso gli altri – i saifran, i francesi in argot – non schierandosi dietro il tricolore o cantando la Marsigliese ma su base etnica e/o religiosa. Sono nati in Francia, ascoltano musica rap, vanno al cinema, frequentano le discoteche, corteggiano le ragazze senza velo e in minigonna, eppure in una sorta di schizofrenia anche quando non sono praticanti e/o bigotti, si dichiarano islamici, i più convinti autoproclamandosi militanti dell’Islam, e le donne devono andare velate sostengono, salvo poi gli stessi ragazzi giocare nella stessa squadra di pallacanestro coi saifran, ma non sono comunque Charlie.
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