Paolo Coceancig: Dalla parte del rapper ghanese Bello FiGo

| 16 Febbraio 2017 | Comments (0)

Paul Yeboah, in arte Bello Figo Gu (anche chiamato Bello Guccieii, Figo Verkel, Bello Swag, Bello Figo, Figo Swag, Bello Minghie Guccieii, Bello Gu, Bello Biondo Gucceii, Rosso Figo, Blu Figo, Bello Figoa, Gucci Swag), è un rapper italiano classe 1992. I primi avvistamenti di Bello Gu sono stati in Ghana, Uganda e Zimbawe, poi Bello decise che il suo swag doveva approdare anche in territori pressoché sconosciuti a lui.Dopo 11 minuti di pura riflessione, decise che la terra promessa doveva essere l’Italia e più precisamente Parma così decise di trasferirsi lì. Dopo aver provato qualche lavoro come predicatore e falegname rubò un telefonino e creò un account YouTube e accompagnato dai suoi discepoli iniziò a fare musiche. Assume notorietà con il brano “Mi faccio una segha” grazie al quale supera le 2 milioni di views. Dopo qualche altro successo dal calibro di “Ce l’ho grosso” Bello Figo torna a splendere nella scena italiana nel 2014-15, anno in cui è all’apice della sua carriera nel quale produce “Pasta con tonno”, hit che lo lancerà sul grande palcoscenico arrivando persino a cantare per Rai2. (da Bello Figo/ Genius)

“Questa lega è una vergogna, noi crediamo alla cicogna e corriamo da mammà…” (Pino Daniele)
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Tempi duri questi per gli afro swaggers, vanno più di moda i comunisti con il rolex. Lo dico subito: io sto dalla parte di Bello FiGo. La campagna di odio e di minacce che lo segue in ogni luogo in cui è in programma una sua esibizione, e che non di rado costringe gli organizzatori a sospendere l’evento per motivi di ordine pubblico, è tanto ignobile quanto una spia indiscutibile del rapido abbruttimento della società italiana. Certo, tutto nasce in ambito virtuale (come lo stesso Bello FiGo d’altra parte), ma quanti sono ormai quelli che si sono arricchiti facendo i fenomeni sul web, senza per questo vedersi scagliare contro un’ondata di odio e di violenza verbale di tale portata? Sappiamo bene, e non da oggi, che virtuale e reale sono intrinsecamente uniti da una specularità significante: è bastata una stupida bufala, come quella di una partecipazione ben remunerata al festival di Sanremo, per scatenargli contro i più bassi istinti del popolo internauta (cioè il popolo reale disinibito dalla protezione del monitor di un PC).

Intendiamoci, i social sono ormai diventati un’autentica fogna a schermo aperto che quando lo accendi il più delle volte il tanfo che ne esce è insopportabile e l’unica scelta realmente libera e rivoluzionaria per sfuggire al permanente controllo sociale cui ci siamo auto sottoposti sarebbe quella di togliersi del tutto dalla rete (non solo dai social).  Sarebbe bello se riuscissimo a cestinare una volta per sempre tutta questa paccottiglia virtuale, salvando solamente un vecchio Nokia per far sapere ogni tanto in giro che stiamo bene. Purtroppo io stesso sono ancora troppo intimamente legato alla mia irriducibile incoerenza per farlo e di tanto in tanto, come in questo caso, sprofondo ancora nella melma del web.

Cos’ha fatto dunque di tanto speciale Bello FiGo per meritarsi tutte queste attenzioni? L’ingegnosità di questo ragazzo ghanese, da ormai dodici anni in Italia, è tanto inconsapevole quanto efficace: Bello FiGo prende tutti i luoghi comuni del più becero razzismo del momento e li trasforma in tormentoni musicali che ributta in faccia alla mediocrità discriminatoria del pensiero che li produce. Lo può fare perché è nero e, altra intuizione, usa questa discriminante in proprio favore: la maschera che indossa è quella che leva dal muso ipocrita del pregiudizio benpensante di casa nostra. E i suoi giovanissimi followers sghignazzano increduli di fronte all’imbecillità del mondo adulto (straordinariamente incarnata da Belpietro e dalla Mussolini in un confronto televisivo ormai entrato nella storia di you tube) che non coglie il senso provocatorio e sarcastico dell’operazione. Qualche settimana fa Mariangela Mianiti sul “Manifesto” ha svelato appieno il senso di questa manipolazione semantica. Scrive la giornalista: “Bello FiGo non fa il bravo ragazzo di colore che vuole integrarsi, non fa la vittima, non rivendica diritti, non denuncia sfruttamento. Non fa nulla di quello che si vorrebbe sentir dire da uno come lui, immigrato dall’Africa, ma l’esatto contrario. Fa lo sporco, brutto e cattivo. Parla male e pensa male. Assume su se stesso tutti i peggiori luoghi comuni e li enfatizza cantandoli con strafottenza, insistendo proprio su quegli aspetti che fanno andare più fuori di testa una parte di italiani: il vivere a sbafo, non lavorare e rubarci le donne”.

Il punto nodale sta proprio qui: oggi al migrante è fatto obbligo di stare dentro i recinti fisici e culturali che noi produciamo per lui e non ammettiamo che possa desiderare di essere altro da ciò. Come nel sistema delle caste indiane, anche dalle nostre parti agli ultimi non è concesso di salire nella scala sociale, peggio: non è concesso loro neppure di ambirvi.

Non sembri dunque irriguardoso verso la sofferenza delle migliaia di disperati che legittimamente cercano nel nord del mondo una vita più decorosa, se metto sullo stesso piano l’intolleranza che molti provano di fronte ai motivetti sgangherati del giovane rapper con l’avversione che tanti, troppi italiani esprimono ogni qualvolta si verifica un moto di ribellione a condizioni di vita disumane, da parte di un migrante. Sono processi emotivi collettivi generati dalla stessa paura, dalla stessa insicurezza, dalla stessa ignoranza. E i politici, anziché contrastarle, le rincorrono queste derive populistiche se è vero, come si mormora in questi giorni nei palazzi del potere, che la legge ius soli, sbandierata da Renzi come irrinunciabile punto di forza del programma di governo dei primi cento giorni, verrà sacrificata dal PD a causa della necessità di trovare un compromesso con le destre per riformare la legge elettorale e andare al più presto al voto. In tal caso, novecentomila ragazzi nati, cresciuti e scolarizzati in Italia rimarrebbero cittadini di serie B rispetto ai pari età, un diritto civile sacrosanto negato dalla misera politica degli accordi sottobanco, una vergogna smisurata per le nostre istituzioni.

Ma torniamo a noi e a “loro”.

“Che se ne tornino a casa loro se non gli va bene quello che hanno qua…”, “a noi italiani niente e a loro hotel a cinque stelle”, “tutte le case popolari se le prendono loro…”, “35 euro al giorno per non far nulla e ci prendono anche per il culo…”: di fronte a un fenomeno così complesso (e così umano) come le migrazioni, noi non siamo in grado di fare altro che snocciolare quotidianamente il nostro rosario di bufale e luoghi comuni.
Di fronte a noi un altro rosario, ben più nobile e tragico: il primo fu il sudafricano Jerry Masslo, siamo nel 1989, che si rifiutò di consegnare a una banda di ricattatori criminali i pochi spiccioli intascati con la raccolta dei pomodori e per questo fu ucciso. Tanti anni dopo, Rosarno: altri raccoglitori di pomodori, sottopagati e sfruttati, che si ribellano ai caporalati della zona. Contro di loro, al fianco dei signorotti locali mandanti delle spedizioni punitive contro “i negri che hanno osato alzare la testa”, si mosse mezzo paese: agli occhi di chi era abituato da sempre a far chinare la schiena nelle processioni perfino a santi patroni e madonne davanti al potente di turno, la ribellione dei forestieri a quello stato di cose, la loro dimostrazione di orgoglio, la loro schiena dritta, doveva apparire insopportabile.
E oggi? Oggi da Fermo, da Cona, da Firenze e infine da Napoli, ci arriva l’urlo di chi non si rassegna all’insulto gratuito di un curvaiolo destroide, a condizioni di vita indecenti in quei lager schifosi che sono i CIE, a pizzi da pagare al camorrista del rione per vendere elefantini e borsette in strada.  Ci arriva l’urlo di chi non abbassa la testa di fronte alle ingiustizie e ai prepotenti. Se solo riuscissimo a cogliere tutta la valenza politica e culturale di questi gesti di sana umanità, che occasione straordinaria di riscatto comunitario alla spaventata rassegnazione cui ci siamo costretti dopo la sbornia neoliberista e la crisi economica degli ultimi anni, suo devastante effetto collaterale.

Sia chiaro, non si tratta di far del banale terzomondismo da salotto: lo sappiamo da soli che non basta essere poveri per essere rivoluzionari e che gli stronzi, come le persone degne, ci sono dappertutto. Il punto non è questo. Il punto è che da qui non si torna indietro: chi predica in tutta Europa il ritorno a società etnicamente pure e autarchiche, prim’ancora che far del razzismo a buon mercato, riempie di fandonie e illusioni il suo popolo impaurito. Ed essendo consapevole di farlo, è dunque doppiamente colpevole e irresponsabile. Il nuovo ritornello, oggi in voga tanto a destra quanto a sinistra (“cliccato” almeno quanto i video di Bello FiGo) è, bontà loro, “ospitiamo solo chi viene da aree di guerra e rispediamo a casa tutti gli altri”. Chi lo dice è lo stesso che manda i figli a studiare e lavorare all’estero perché qui non ci sono opportunità di crescita e per suo figlio vuole il futuro migliore, lo stesso umano e naturale desiderio che nega a un altro solo perché è nato in Costa D’Avorio.
Si potranno costruire tutti i muri del mondo, ma non serviranno a nulla: dall’inizio della sua storia l’essere umano si sposta da dove non c’è il pane a dove c’è. E continuerà a farlo. Partiamo da qui, dalla certezza che, soprattutto se le organizzazioni del governo mondiale non cominceranno a lavorare per rimuovere le cause delle mostruose diseguaglianze che affliggono il pianeta e si limiteranno, come ora, per convenienza a gestirne gli effetti, milioni di disperati continueranno a spostarsi dai loro paesi agonizzanti per cercare occasioni di vita degna altrove.
Prenderne atto ci aiuterà a ricostruire al più presto nuove dimensioni identitarie di comunità, cosa di cui abbiamo un assoluto e inderogabile bisogno.  Si vivrà sempre più insieme noi e loro, fino a diventare un nuovo “noi”. Piaccia o non piaccia, questo è l’unico percorso possibile.
A chi continua a pensare a due mondi differenti dentro lo stesso spazio territoriale e a coltivare la speranza che “loro” se ne vadano, basterebbe ricordare che tra le sfortunate vittime dell’hotel abruzzese travolto da una slavina di neve, c’era anche un giovane lavapiatti senegalese. E che migranti ci furono fra le vittime del terremoto a L’Aquila e fra quelle dei recenti disastri in Italia centrale. I migranti non stanno sulla luna, da tempo vivono insieme a noi. E da tempo, insieme a noi muoiono.

 

Paolo Coceancig, Coalizione Civica per Bologna

 

Category: Musica, cinema, teatro, Nuovi media

About Paolo Coceancig: Paolo Coceancig nasce a Gorizia nel 1964. Da più di trent’anni vive e lavora come educatore a Bologna. Segnalato nella sezione “Poesia” della Biennale Giovani Artisti del Mediterraneo (Bologna, 1988), comincia a fare letture pubbliche in locali e manifestazioni della città. Pubblica su varie riviste: “I Quaderni del Battello Ebbro”, “Opposizioni”, “Private”, “Mongolfiera” ecc. Appare nelle antologie “Bologna e i suoi poeti” curata da Carla Castelli e Gilberto Centi (EM Parole in libertà, 1991) e “Rzzzzz!” a cura di Sergio Rotino (Transeuropa, 1993). E’ del 1991 il suo esordio letterario, la raccolta “Graffiti graffiati”. Laureatosi al DAMS con una tesi sul teatro dialettale friulano e in particolare sull’opera del giovane Pasolini, in quegli stessi anni comincia a scrivere anche nella parlata delle sue origini, pubblicando testi in friulano su Usmis e La Patrie dal Friul. Dopo parecchi anni di volontario esilio dalla parola scritta, si è di recente riavvicinato alla poesia. I nuovi versi compaiono nelle pubblicazioni collettive “Parole Sante-Parlava a pietre una sull’altra” e “Parole Sante-Versi per una metamorfosi” (Kurumuni 2015 e 2016). Scrive di tematiche sociali e attualità politica su piattaforme multimediali indipendenti come Globalproject e Leila. Da alcuni anni cura e conduce insieme al collettivo Educatori Uniti Contro i Tagli una trasmissione sui temi del welfare a Radio Kairos Bologna. Con la raccolta inedita “Taccuini dell’inconsistenza” è stato selezionato tra i finalisti della prima edizione del premio letterario Orlando (2013).

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