Valerio Romitelli: Una filosofia del nostro tempo? Un libro su Slavoj Žižek,

| 17 Febbraio 2015 | Comments (0)

 

 

 

Valerio Romitelli ha recensito per “Inchiesta” il libro  di Igor Pelgreffi, Slavoj Žižek, Orthotes, Napoli-Salerno  2014.

 

Ogni epoca, ogni tempo ha il suo filosofo. O meglio ogni due o tre generazioni c’è quasi sempre una filosofia a tenere a banco non solo tra esperti e appassionati del settore, ma anche più o meno direttamente o indirettamente in tutti gli ambiti della cultura. Restando ai tempi moderni, basti pensare a quanto Hegel e l’hegelismo hanno influenzato non solo le idee, ma anche le opinioni e i comportamenti  dei loro contemporanei lasciando in seguito tracce indelebili. Ma lo stesso si può dire di nomi come Comte e il positivismo, Husserl e la fenomenologia, Heidegger e l’ontologia fondamentale, Sartre e l’esistenzialismo, senza dimenticare i vari ritorni di fiamma, quali il neokantsimo tra ‘8 e ‘900 o il neoidealismo dei “nostri” Gentile e Croce e così via.

Meno oziosa o specialistica  di quel che può sembrare è dunque la domanda su quale sia la filosofia del nostro tempo. Capirlo non ha interesse solo per esperti o appassionati di filosofia, ma anche per chiunque non si appaghi dell’oggi onnipresente cronaca globale e tenga invece ad interrogarsi più profondamente su quale sia il tempo in cui vive. La filosofia o una filosofia che più ha successo per un certo tempo ci dice infatti qualcosa di fondamentale di quel che il mondo è, al di là di come ci appare. Ossia ne è un sintomo più profondo e duraturo, che dura più dell’istantaneità dell’informazione. Forse è proprio in ragione del trionfo della comunicazione che più recentemente la filosofia non ha più i riscontri d’altri tempi. O meglio, ne ha solo se ridotta in quelle pillole delle pratiche terapeutiche o di counseling che sono state confezionate per sedare i problemi di comunicazione interpersonali o di management[1]. Sia quel che sia, oggi almeno un filosofo di successo, e che si presenta come tale, c’è. Per informarsene basta vedere la sua enorme prolificità premiata da vendite non trascurabili e traduzioni in tutto il mondo.

Sto parlando di Slavoj Žižek, al quale Igor Pelgreffi ha recentemente dedicato un breve, ma accurato ed intenso libro, edito da Orthotes, utilissimo per farsi idea non superficiale di questo autore, così emblematico appunto del nostro tempo. Dopo avere riportato alcuni tratti salienti della biografia di Žižek, nato a Lubiana nel ’49 nella Jugoslavia di Tito, Pelgreffi si addentra subito nell’impianto problematico e nello stile tipico di questo autore, passato da un primo amore in fondo mai dimenticato per Derrida a quella che è stata per lui la folgorazione intellettuale maggiore: quella della psicanalisi di Jacques Lacan. Divenuto egli stesso psicanalista , il nostro ha assunto infatti questa impostazione problematica come codice di rilettura di quel marxismo e di quell’hegelismo che ne erano stati riferimenti obbligatori fin dai suoi primi studi avvenuti appunto in un paese socialista, sia pur sui generis, quale la Jugoslavia di Tito. Il tutto accompagnato da una grande passione per il cinema, dove Žižek ripesca costantemente immagini utili alle sue speculazioni. Dunque un mix fatto anzitutto di Hegel, Marx, Lacan e citazioni da film: è proprio da esso che esce il suo primo libro di successo, L’oggetto sublime dell’ideologia (1989)[2]. Interessante è sapere da Pelgreffi che a fare la prima introduzione di questo libro fu quell’ Ernst Laclau ( autore recentemente scomparso e noto per la sua proposta teorica di ripensare il populismo come ragione positiva, il quale oggi è tra i riferimenti rivendicati ad esempio dal movimento spagnolo Podemos[3]), rispetto al quale lo stesso Žižek ha in seguito assunto posizioni assai critiche.  Fatto sta che è a seguito di tale successo che nei primi anni ’90 egli diventa tanto conosciuto, specie in ambito anglosassone, da essere inviato ad insegnare in varie università e pubblicare articoli in più riviste, iniziando nel contempo una vastissima produzione di saggi tutt’ora incredibilmente prolifica.

Solo per dare una vaga idea delle tematiche trattate da questa produzione, di cui il libro Pelgreffi dà sintetico e illuminante conto, eccone alcuni punti significativi.

– L’accostamento, se non il mescolamento, del concetto psicanalitico di inconscio con quello marxiano di ideologia: è questo che permette a Žižek di sostenere che non solo la realtà non è come ci appare, ma addirittura ci inganna, in quanto risultato di rimozioni che facciamo fatica ad superare.

– Il Reale, inteso in senso lacaniano, come limite della realtà,  come “oltre” del possibile, dunque come impossibile: è così che Žižek pensa l’imporsi del capitalismo sul mondo, come ricorrente limite strutturale di ogni possibilità alternativa ( p. 78). Ma – aggiungo io – il Reale, per lui, si dà anche come “comunismo”:  quel comunismo che nonostante si sia dimostrato “causa persa”[4], dunque impossibile,  ritorna sempre come quell'”oltre” che permette prospettive di giustizia sociale alternative rispetto a quelle consentite dalle possibilità politiche esistenti. Di qui l’esortazione ancora una volta provocatoria che titola un recente articolo di Žižek: Chiediamo l’impossibile, chiediamo il comunismo [5].

– L’idea hegeliana della storia, come grande storia, come destino unico, ma abitato e aperto da irriducibili contraddizioni: ad esempio, quella tra le possibilità che esperisco come individuo e l’impossibile imposto dalla struttura capitalistica oppure, altro esempio, quelle interne allo stesso capitalismo che potrebbero portare alla sua “implosione” ( p. 77).

–   L’idea marxiana di lotta di classe come effetto contingente della dialettica storica dovuta non da ultimo al “lavoro”, ritenuto sì “residuo industriale”, ma anche insormontabile argine  alla completa fluidificazione dei rapporti sociali (p.75).

– La teoria e la prassi della provocazione come metodo (p. 31-40) che in qualche modo si rifà al decostruttivismo di Derrida, ma declinato in un senso quasi dadaista (p. 39), col gusto del paradosso e delle sfide dell’assurdo. Il tutto necessario allo stesso Žižek per cavarsela rispetto alla questione più spinosa del suo approccio: la questione del “da dove parla?” (p. 81).

 

Ponendo questa  tale domanda giustamente al centro del suo libro, lo stesso Pelgreffi così la esplicita : ” Se l’ideologia  ci determina totalmente, quale spazio posso concepire per una sua critica? Questo resta il maggiore problema di Žižek” (p. 78).

Ora, certo la questione centrale del pensiero di questo filosofo è il “da dove parla?”. Credo però che le difficoltà maggiori in proposito  non vengano dal modo in cui Žižek concepisce il condizionamento ideologico. Dal suo punto di vista tale condizionamento non è infatti propriamente totale, o almeno non lo è al punto di impedire di pensare o desiderare alternative. Altrimenti non si capirebbero appelli come quello succitato: Chiediamo l’impossibile, chiediamo il comunismo.  Problema ben più fondamentale mi pare stare altrove:  nel fatto che la filosofia di Žižek  non è propriamente tale, né, d’altra parte, egli opta per un altro approccio, extrafilosofico.  Mi spiego, tirando in ballo colui di cui lo stesso Žižek è stato dichiaratamente grande amico e ammiratore: un mio maestro di qualche tempo fa, Alain Badiou.

Questo filosofo deve la sua indubbia singolarità per aver riaffermato, anche in tempi di “pensiero debole” e critica antiplatonica, il più classico e metafisico  modo di fare filosofia, quello che implica la creazione di un proprio linguaggio e di un proprio sistema, implicante un’ontologia ed una logica ad hoc – cose che egli ha puntualmente fatto con i suoi due saggi maggiori L’essere e l’evento [6]e Logiche dei mondi[7]. Senza entrare nel merito di tutte le infinite questioni così implicate, mi limito a ricordare che l’ idea di fondo qui è che ogni filosofia può pensare il proprio tempo solo inserendolo in una concezione atea dell’eternità, di quell’eternità che è attestata dal linguaggio e dal pensiero. Una visione assoluta della filosofia, dunque, ma non assolutistica. Riconoscendo i meriti filosofici di ciò che Badiou definisce l'”antifilosofia” (di cui Nietzsche, Wittegenstein e lo stesso Lacan sono considerati tra i maggiori epigoni), egli riconosce anche l’esistenza molteplice del pensiero all’interno di quelle chiama “procedure generiche della verità”, quali l’amore, la scienza, la politica e l’arte. E più in particolare trattando di Marx, Freud e Darwin, egli ne ha anche definito le diverse problematiche come diversi “dispostivi di pensiero”.  Categoria, questa, evidentemente estendibile ad altre imprese intellettuali extrafilosofiche.

Certo, si può anche dissentire da tutta questa impostazione dichiaratamente metafisica e platonica, ma al suo confronto si può cogliere quella che è una debolezza fondamentale della filosofia di  Žižek: quella di non autofondarsi, di non qualificarsi come tale, di non spiegare fino in fondo dove vanno a parare le sue riflessioni più teoriche, di non rendere cristalline le sue priorità intellettuali e così via. E ciò, sia chiaro, non è solo un problema formale o scolastico, ma riguarda le relazioni da lui stesso istituite tra i vari concetti utilizzati. Ad esempio, il possibile innesto tra la problematica marxiana dell’ ideologia e quella psicanalitica dell’inconscio negli anni ’60 è stata oggetto di una aspra disputa tra due mostri di quel tempo, Althusser e Lacan, che hanno finito proprio per questo per allontanarsi definitivamente. Tuttavia, Žižek che conosce perfettamente questi due autori, tanto da riprenderne a piene mani linguaggio e concetti, non presenta alcun preciso bilancio di questa disputa, badando solo all’effetto che può fare sul lettore il suo prendere a prestito dall’uno e dall’altro le suggestioni che più gli paiono convincenti per il testo che sta scrivendo.

Una volta ammesso che quella di Žižek non è una vera e propria filosofia si pone la domanda di come qualificare altrimenti il suo pensiero. Giustamente Pelgreffi dedica l’ultimo capitolo del suo libro al chiedersi se Žižek sia un “pensatore politico”. In effetti, è proprio da questo di vista che egli forse conosce i maggiori successi, data la portata quasi sempre politica delle sue riflessioni che raramente non vanno finire su argomenti come ideologia, capitalismo, lotta di classe, democrazia, storia, comunismo e così via. Si potrebbe allora parlare di una pratica filosofica di portata limitata, tutta volta a giustificare, illustrare e spianare il percorso di un pensiero essenzialmente politico. Così pare avvicinarsi la risposta alla domanda opportunamente posta da Pelgreffi, del “da dove” Žižek  parli. Ma di nuovo si pone il problema di capire se e come egli concepisce questo suo “dove politico”: in altri termini, quali siano gli orientamenti politici elaborati dal suo pensiero politico. O ancora in altri termini, quelli di Badiou, se il suo sia effettivamente un “dispositivo di pensiero politico”. Abbastanza eloquente in proposito è la collaborazione di Žižek con Tsipras nel libro Cosa vuole l’Europa?[8]In effetti, il filosofo sloveno è uno che si schiera dichiaratamente con movimenti come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Il perché di questa scelta, Žižek lo ha ribadito e precisato in un recente intervento seguito degli attentati di Parigi dal titolo I fondamentalisti e gli Ultimi Uomini, dove si può leggere: “Il paradosso è che il liberalismo non è abbastanza forte per proteggerli ( i suoi valori fondamentali come libertà, uguaglianza, ecc.) dall’attacco fondamentalista. Il fondamentalismo è una reazione (…) a un difetto del vero liberalismo” il quale “lasciato a se stesso si indebolirà lentamente da solo:la sola cosa che lo può salvare è una sinistra rinnovata (…) l’aiuto fraterno della sinistra radicale“. Conclusione: “Questo è l’unico modo per sconfiggere il fondamentalismo[9].  Ora, tale ipotesi sull'”indebolimento progressivo dei valori liberali” fa dunque il paio con l’ipotesi di “una probabile implosione del capitalismo” che abbiamo visto essere un altro leit motif di Žižek  Si può quindi dire che qui siamo di fronte al cuore delle sue opinioni politiche.

Ma appunto non si tratta di molto più che di pure e semplici opinioni: riciclaggio, tra l’altro, di una classica tesi del materialismo storico e dialettico. Sarebbe a dire la tesi secondo cui la borghesia, dopo avere promesso al popolo libertà ed uguaglianza allo scopo imporsi sulle istituzioni feudali, una volta giunta al potere, si rimangia in gran parte di queste sue promesse, che solo il proletariato potrà realizzare. Tesi, la cui variante economica è quella elaborata a cominciare dagli anni ’30 in Urss. É da allora infatti che si cominciò a teorizzare il prossimo del “crollo del capitalismo” attribuendone la causa alla sua sempre più asfittica concentrazione oligopolistica, superabile solo con l’instaurazione della pianificazione socialista. Si tratta dunque di due tesi che si tengono alla luce della ben nota, ma oggi spesso dimenticata, idea marxista del diritto e dell’economia: l’idea secondo la quale diritto ed economia progrediscono sotto l’ala di capitalisti e borghesi fino a che dura una certa fase storica, passata la quale, o degenerano o sono rigenerati sotto l’ala del proletariato rivoluzionario. Qui mi pare stia, se non l’essenziale, qualcosa di comunque fondamentale per tutto il pensiero di Žižek, il quale non può quindi neanche considerarsi un pensiero politico, proprio in quanto di fatto non elabora nulla di nuovo, ma finisce per riprendere solo già ben noti filosofemi storicisti, materialisti e dialettici. Ove, sia chiaro, il problema non è il riciclaggio in quanto tale. I revival, i ritorni al passato, nella scienza, nell’arte così come in filosofia e in politica sono spesso fonti di straordinarie invenzioni:  neanche da ricordare in proposito l’ esempio del rifarsi all’antichità da parte di grandi stagioni creative quali quelle del Rinascimento, del galileismo e dell’ Illuminismo.  Il punto è che ogni ripresa di tale tipo si giustifica solo se è appunto fonte di ispirazione per nuove idee. Ma sono proprio queste che mi paiono mancare al pensiero di Žižek per poterlo considerare come un vero e proprio pensiero politico. Nella sua ampissima e variegata opera, ad esempio, non mi pare si trovi alcun preciso bilancio né del perché il suo ideale socialista e democratico si sia a suo tempo affossato da solo, né di come oggi potrebbe resuscitare in situazioni concrete come quella greca e spagnola. Le sue speranze che ciò possa in qualche modo avvenire – come altri, compreso il sottoscritto, auspicano – non mi sembra si fondino su molto altro che su una generica fiducia in movimenti come Syriza e Podemos. Movimenti, questi, del tutto compositi e costituitisi a fini elettoralistici, il cui destino è quanto mai opinabile e passibile di svariate quanto controverse riflessioni politiche.

Insomma, se non pare essere una vera e propria filosofia, quella di Žižek, il suo pensiero non pare  neanche essere  un vero e proprio pensiero politico, ma essenzialmente un saltare dall’una all’altro

senza apportare alcun profondo contributo né all’una , né all’altro. Una critica troppo dura? Forse, ma mai tanto quanto ampi e persistenti sono i riscontri a livello di opinione dei quali oramai da parecchi anni gode questo intellettuale sloveno. Si tratta dunque di chiedersi come egli riesca ad ottenere tali riscontri. Per cercare una risposta occorre tornare a quello che, come visto, Pelgreffi giustamente chiama il suo “metodo della provocazione”. In effetti è proprio nel sapere provocare l’opinione dominante a livello di comunicazione che credo Žižek dia il suo meglio. É proprio qui, nel suo riuscire a creare interferenze nella circolazione delle informazioni, che egli risulta impareggiabile. A mio modo direi dunque che il suo grane merito sta nel proporsi come una sorta di opinionista all’inverso, che disfa invece di fare opinione.

La prima delle sue provocazione a me pare stare proprio nel presentare ad un pubblico il più vasto possibile ponderosissimi saggi o ricorrenti elucubrazioni sparse in altri saggi  su filosofi quali Hegel, Schelling, psicanalisti come Lacan o musicisti come Wagner, la cui lettura e commento di solito sono riservatati ad ambiti di esperti, senza tuttavia volgarizzarli, ma mostrando quanto diano tutt’oggi da pensare a chiunque, pur nella loro complessità intellettuale così poco conforme ai gusti contemporanei assuefatti come sono agli imperativi dell’onnipresente comunicazione.

Altra provocazione sta nel ricorrere invece ad aneddoti triviali, storielle, scene di film, fatti di cronaca o osservazioni su oggetti comuni come l’ovetto Kinder e le diverse conformazioni delle toilette a seconda dei diversi paesi, dai quali egli sa trarre il destro per riflessioni penetranti ed illuminanti. Ulteriore provocazione sta nel sottoporre a dura critica temi oggi assolutamente dominanti come “i diritti dell’uomo”, le scienze cognitive, i “cultural studies” come pure lo stesso “populismo” rivendicato dall’amico di un tempo Laclau. Il tutto sempre rivisitato grazie a strumenti analitici  ricavati da quel marxismo e da quella psicanalisi lacaniana che attualmente non godono certo di conclamata popolarità.

Resta da chiedersi dove stia il segreto del successo un tale autore così “scomodo”. Ebbene trovo che questo segreto sia ricercarsi proprio in questa scomodità. L’opinione oggi dominante è infatti troppo comoda, troppo agevolata da un’informazione che punta solo ad un sensazionalismo volto a confermare il già noto e risaputo, per non provare un senso di vuoto di fronte alle contraddizioni nelle quali il Reale fa cadere l’esperienza di chiunque. Una condizione di angoscia generalizzata, dunque, che è cifra del nostro tempo (un’epoca di “passioni tristi” come l’hanno chiamata Benasayag e Schmit[10]) e che non esiste da sempre, ma risale ad un momento storico più o meno preciso. Si tratta di quei primi anni ’90 ai quali non solo per caso risalgono anche i primi successi di Žižek, come Pelgreffi puntualmente fa notare. In effetti, è da allora che neoliberismo e pragmatismo all’americana hanno cominciato a dettare legge nell’opinione, riuscendo a trarre massimo profitto da quella straordinaria invenzione tecnologica che è stata la “rivoluzione informatica”. É da allora che è venuto costituendosi l’impero globale di quel “pensiero unico” e di quel primato del “saper fare” (comunicazione) che ha portato ad una omologazione conformista senza precedenti del senso comune. Ed è proprio da allora che un “filosofo della provocazione” come Žižek ha trovato un suo perché. Egli infatti ha saputo riportare dentro l’attualità  approcci altrimenti considerati in gran parte obsoleti. Sarebbe a dire quel marxismo e quella psicanalisi lacaniana che avevano trionfato negli ’70, ma che a partire appunto dagli anni ’90 sono stati entrambi messi nell’angolo: il primo in ragione sia  del crollo del comunismo sovietico sia dell’oscurarsi di quello cinese, la seconda in ragione dell’imperioso imporsi ovunque anche a livello istituzionale della psicologia cognitiva. Grande merito di Žižek è dunque di sapere mostrare con i suoi testi provocatori che questi due approcci, lungi dall’essere anticaglie da buttare possono tutt’oggi giovare a riattivare il coraggio del pensare con la propria testa e non cedere all’angoscia ovunque seminata dal conformismo dell’informazione. Particolarmente significativo è il suo successo nelle stesse patrie americana e inglese di tutte quelle opinioni neoliberiste, pragmatiste e cognitiviste che egli insiste provocatoriamente a contrastare.

Straordinari meriti sul fronte dell’opinione e della comunicazione, quelli di Žižek, dunque, che gli vanno riconosciuti anche da uno come me, che senza avere alcuna ambizione filosofica crede invece nell’urgenza di un rinnovamento sperimentale del pensiero politico[11]. Un rinnovamento rispetto al quale sia  l’idea di storia in senso hegelo-marxista, sia la psicanalisi lacaniana in quanto tali non sono certo risolutivi, ma restano comunque da non dimenticare, così come invece il senso comune attualmente imperante  impone.

Concludendo , direi che se in questo intellettuale è vano cercare nuovi tragitti filosofici e politici gli va comunque riconosciuta la capacità quanto mai rara oggi di tenerne viva l’attesa. Per questo non mi pare esagerato riconoscerlo come un “filosofo” particolarmente rappresentativo di questo nostro tempo.  Leggere Žižek e sapere del suo seguito globale incoraggia a convincersi che il mondo in cui viviamo non è così senza alternative come appare.


[1] Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, Manifestoliobri Roma, 2007

[2]trad . it. edita presso Ponte alle grazie, Milano, 2014

[3] Alessandro Dal Lago, Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, Manifestoliobri Roma, 2007

[3]trad . it. edita presso Ponte alle grazie, Milano, 2014

[3] Steven Forti, Podemos, la Spagna in marcia per il cambiamento, vedi

http://temi.repubblica.it/micromega-online/podemos-la-spagna-in-marcia-per-il-cambiamento/

[4] vedi Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Milano, 2013

[5] in Internazionale, 23-9 maggio 2008

[6] L’être et ‘événement, Seuil, Paris, 1988

[7] Logiques des mondes, Seuil, Paris, 2006

[8] Ombre Corte, Verona, 2014

[9] http://www.leparoleelecose.it/?p=17394

[10] Benasayag e Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2013

[11] Se venisse la curiosità di saperne di più si può vedere il mio L’amore della politica.Pensiero, passioni e corpi nel disordine mondiale, Mucchi, Modena, 2014

 

Category: Libri e librerie, Storia della scienza e filosofia

About Valerio Romitelli: Valerio Romitelli (1948) insegna Metodologia delle Scienze Sociali e Storia dei Movimenti e dei Partiti Politici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Dirige il Gruppo di Ricerche di Etnografia del Pensiero (Grep) presso il Dipartimento di Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche dell’Università di Bologna. Tra i suoi libri: Gli dei che stavamo per essere (Gedit, 2004), Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche (Carocci, 2005), Fuori dalla società della conoscenza (Infinito, 2009).

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