Antonio Lettieri: La Grecia e il lato scuro dell’Eurozona
Diffondiamo da “Inchiesta” gennaio-marzo 2015 questo testo di Antonio Lettieri che è stato segretario nazionale della FIOM e della CGIL ed è attualmente direttore di Insight (www.insightweb.it).
La vittoria di Syriza, guidata da Alexis Tsipras, nelle elezioni greche del 25 gennaio ha creato un grande sconcerto nell’eurozona. La cosa non sorprende trattandosi della prima vera crisi politica dell’eurozona dopo la sua nascita quindici anni fa. Finora eravamo, infatti, abituati a discutere solo di difficoltà economiche.
Eppure la vittoria di Syriza era prevedibile. E’ normale che in un paese sconvolto da una crisi economica e sociale che dura da sette anni, alla prova delle elezioni i partiti di governo possano essere sconfitti a favore di chi non ha avuto responsabilità di governo. Berlino e Bruxelles avevano fatto il possibile per evitarlo. Angela Merkel era andata ad Atene per sostenere il governo in carica di Antonis Samaras. Poi la Commissione europea aveva inviato Pierre Moscovici, il commissario francese all’economia, per ammonire i greci sui rischi che correvano scegliendo l’incognita di un partito della sinistra radicale.
Ma questa volta le sirene dell’eurozona non sono state in grado di incantare l’elettorato greco. La vittoria di Tsipras ha rovesciato lo scenario politico greco degli ultimi 40 anni costantemente dominato, dopo la caduta del regime dei colonnelli, da Nuova Democrazia e dal Pasok, i due partiti della dinastia dei Papandreu e dei Karamanlis. Syriza ha vinto le elezioni con un programma coraggioso quanto arduo: liberare la Grecia dalla politica di austerità e dal controllo asfissiante della Troika, l’arrogante gruppo di tecnocrati in rappresentanza della Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale.
Ma che significava ripudiare la politica dell’austerità imposta dalle autorità dell’eurozona? Il nuovo governo deve ricevere una tranche di 7,2 miliardi di euro sulla base del programma concordato dal vecchio governo con il famigerato Memorandum del 2012. Senza questo versamento, la Grecia non può rimborsare le quote di debito in scadenza fra marzo e luglio nei confronti della BCE e dell’FMI . E il mancato rimborso significa entrare nella zona d’ombra di un default della Grecia e della rottura dell’eurozona. Il compromesso trovato all’undicesima ora tra l’eurogruppo, formato dai 19 ministri finanziari dell’eurozona, e la Grecia non ha decretato né vincitori né vinti, ma un modo di guadagnare tempo.
1. La Grecia ha la corda al collo di un debito gigantesco: 320 miliardi di euro, il 175 per cento del PIL. La maggior parte degli economisti è convinta che, considerata la sua entità, il debito non è rimborsabile. Alan Greenspan, dall’alto dell’esperienza di presidente per quasi venti anni della Federal Reserve, è stato brutalmente netto sull’impossibilità per la Grecia di ripagare il debito e, alla fine, sulla sua uscita dall’euro: “Credo che la Grecia alla fine uscirà (dall’euro)…E’ solo questione di tempo perché tutti si rendano conto che uscire è la migliore strategia”(1).
Il governo Tsipras è certamente consapevole delle difficoltà, ma si muove in una direzione contraria a quella vaticinata da Greenspan. Non a caso, il programma del nuovo governo si articola lungo due linee principali: la prima riguarda, per l’appunto, il riassetto del debito; la seconda è centrata su una profonda revisione della politica economica e sociale imposta al paese dalle autorità europee negli anni della crisi.
Sul primo punto, il nuovo ministro delle finanze Yanis Varoufakis, docente di economia nelle università di Atene e di Austin (Texas) dove è stato chiamato ad insegnare insieme con James Galbraith, ha presentano alle autorità dell’eurozona una proposta complessiva che, assumendo la chiara volontà di rimborsare il debito, chiede di rinegoziarne le condizioni. In sostanza, il nuovo governo avanza la proposta di una ristrutturazione basata sull’indicizzazione degli oneri relativi al debito in rapporto all’andamento del PIL. Un modo per garantirne ai creditori il rimborso e, al tempo stesso, di evitare il peggioramento delle condizioni finanziarie del paese debitore nelle fasi di recessione o ristagno dell’economia. In ogni caso, l’avanzo primario – la quota del bilancio destinata al pagamento degli interessi – dovrebbe essere limitata all’1,5 per cento del PIL (contro l’attuale previsione del 4,5), in modo da lasciare spazio agli investimenti e ai consumi collettivi necessari per rilanciare la crescita, in mancanza della quale il debito stesso diventa insolvibile.
I mercati finanziari hanno mostrato di apprezzare la proposta del governo Tsipras che, per la prima volta, affronta apertamente il problema della solvibilità del debito e avanza una soluzione che ne rende credibile l’impegno a rimborsarlo.
2. Il secondo punto del programma Tsipras si concentra sulle misure di carattere interno, dirette a modificare le condizioni strangolatorie che la troika ha imposto al paese negli anni della crisi, provocandone il dissesto economico e una catastrofe sociale. I dati sono eloquenti. La cura dell’austerità ha provocato l’aumento del debito dal 110 per cento del PIL, all’inizio della crisi, al 175 per cento attuale. Nel frattempo, il redito nazionale è diminuito di un quarto e la disoccupazione ha superato il 25 per cento della forza lavoro. In un paese ridotto alla povertà, le famiglie che non sono più riuscite a pagare la rate del mutuo hanno visto mettere all’asta la casa di abitazione. Molte sono rimaste al buio e senza riscaldamento per il taglio della corrente elettrica. Gli ospedali pubblici sono rimasti senza farmaci, e la cura dei pazienti, quando possibile, affidata alle associazioni di volontari. Una catastrofe sociale che non si era più vista dal tempo della Grande Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti.
Syriza aveva condotto la campagna elettorale all’insegna del ripudio del programma di austerità gestito dalla troika con la complicità dei passati governi. Era tuttavia chiara la necessità di trovare un compromesso con le autorità europee per la gestione del debito. Di qui la richiesta del governo Tsipras di concordare un programma- ponte di sei mesi durante i quali negoziare un nuovo accordo complessivo. In questa fase intermedia, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FEFS) avrebbe mantenuto l’impegno di erogare l’ultima tranche del prestito di 7,2 miliardi di euro.
Una persona normale farebbe fatica a considerare irragionevole una proposta che prevede, nel quadro di una ristrutturazione concordata, il rimborso di 240 miliardi di euro, corrispondenti all’80 per cento del debito complessivo, in larga parte dovuto alle istituzioni e ai governi dell’eurozona. Ma non è così. Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze del governo tedesco, rigetta in toto la proposta presentata da Varoufakis. Il governo greco deve prolungare il programma di austerità e di riforme imposto dalla troika. II fatto che quel programma abbia messo in ginocchio il paese, e che il governo di coalizione di Samaras sia stato clamorosamente ripudiato dal voto popolare non conta nulla. La democrazia del voto è un lusso che non può appartenere a una piccola, periferica, provincia dell’impero.
3. La Grecia ha la corda al collo: senza il versamento dell’ultima tranche di prestiti del FEFS non può rimborsare alla BCE e all’FMI le quote di debito in scadenza. Senza un accordo, la Grecia rischia il default, la corsa agli sportelli delle banche per ritirare i risparmi, la fuga dei capitali all’estero, e l’inevitabile ricorso al controllo dei movimenti di capitale: una sequenza che prelude, in ultima analisi, all’uscita della Grecia dall’euro.
Ma il problema non è solo della Grecia. Il suo default non può non colpire le istituzioni creditrici fra le quali i governi dell’eurozona, e principalmente Germania, Francia, Italia e Spagna che sono i maggiori creditori nel quadro di 170 miliardi di euro forniti alla Grecia dal Fondo europeo di stabilità finanziaria. Il compromesso è, non ostante la disparità delle forze in campo, una necessità per entrambi i contendenti. Cercare di individuare vincitori e perdenti, come fa una grande parte della stampa italiana ed europea, è un esercizio ingannevole. Tsipras dice: “Abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra”. E’ un giudizio cautamente realistico. E’ stato guadagnato tempo, e la Grecia è impegnata a utilizzarlo per negoziare un accordo complessivo. Ma per le autorità europee il tempo dovrà servire a piegare la resistenza della Grecia, riconducendo le pedine al punto di partenza.
I rapporti di forza rimangono squilibrati. L’eurogruppo sospende fino ad aprile l’erogazione dell’ultima tranche del prestito. La BCE e l’FMI prendono le distanze dal compromesso. Nelle settimane successive Draghi ribadirà che la Grecia è esclusa dai nuovi scenari che si aprono col quantitative easing. Le banche centrali dei paesi dell’euro sono autorizzate ad acquistare sul mercato secondario obbligazioni emessi dai rispettivi governi, ma alla Banca centrale greca questa possibilità è negata. La parola d’ordine sembra essere chiara: nessuna via d’uscita a un governo che rompe la disciplina. Ma se le difficoltà della Grecia sono evidenti, l’intransigenza delle autorità europee maschera, come abbiamo visto, una difficoltà dell’eurozona nel suo complesso.
La partita rimane aperta, non ostante gli annunci precoci di una resa fatale del governo greco. I commentatori non pregiudizialmente allineati prendono posizione a favore delle proposte greche. Scrive Wolfgang Münchau sul Financial Times: “ Il mio consiglio a Yanis Varoufakis è di ignorare le minacce più o meno velate, rimanendo fermo sulle sue posizioni. E’ membro del primo governo della zona euro dotato di un mandato democratico per opporsi a una politica totalmente priva di senso. Una politica che si è dimostrata economicamente analfabeta e politicamente insostenibile”.(2)
Indipendentemente dal suo esito finale, il confronto ha il merito di chiarire i termini del conflitto che agita non solo la Grecia ma l’intera eurozona. La ribellione del governo greco porta alla luce del sole i paradossi e le contraddizioni delle politiche imposte da Bruxelles con il sostegno determinate di Berlino.
E’ diventato definitivamente lampante che, paradossalmente, il vero centro dello scontro non riguarda la questione del debito, ma l’altra faccia della medaglia: le riforme strutturali. Per il debito, come abbiamo visto, il governo greco ha presentato una chiara proposta, ed è pronto a negoziarne i termini. Il dissenso esplode, prima ancora di aprire un negoziato, sul capitolo delle riforme strutturali, la faccia oscura dell’austerità.
Non a caso, le autorità europee pretendono il pieno controllo della politica economica e sociale degli Stati membri. E’ una questione di disciplina imposta dall’alto sulla quale le autorità dell’eurozona non transigono. L’elenco delle riforme e delle misure anche di dettaglio comprende tutti gli aspetti della politica interna. Un esempio paradigmatico può essere trovato nella famosa lettera della BCE al governo italiano di Berlusconi nell’estate del 2011 – un minuzioso programma di governo la cui attuazione, iniziata da Monti e proseguita da Letta, avanza alacremente col governo Renzi.
Nel caso greco, il governo Tsipras si considera impegnato a sviluppare un certo numero di riforme che considera centrali per la modernizzazione del paese. Fra queste, l’impegno contro l’evasione che tocca i privilegi accordati alle oligarchie che controllano uno dei più potenti settori armatoriali del pianeta; la corruzione e il clientelismo che alimentano l’inefficienza del sistema economico e amministrativo. Ma questi impegni sono accolti con sufficienza e scetticismo dalle autorità europee. Il cuore delle famigerate riforme strutturali è per le istituzioni dell’eurozona nelle politiche di privatizzazione, di taglio dei sistemi di welfare e di deregolazione del mercato del lavoro.
4. Il capitolo delle privatizzazioni risale alle prime fasi della crisi greca, quando la Commissione europea chiede come contropartita degli aiuti finanziari l’impegno a un vasto piano di privatizzazioni. L’aspetto più intrigante è che i prestiti accordati al governo sono destinati al rimborso dei debiti contratti dalle banche greche nei confronti delle banche tedesche, francesi e olandesi. Un modo di trasferire i debiti privati delle banche a carico del bilancio pubblico, secondo uno schema che si ripete in Irlanda e in Spagna. Le privatizzazioni diventano uno strumento di ripianamento di una parte del debito pubblico, aumentato a dismisura a vantaggio delle banche creditrici straniere.
Nelle prime versioni, si tratta di un piano di privatizzazioni gigantesco che dovrebbe portare nelle casse dello stato 50 miliardi di euro, come dire un ammontare dell’ordine di 400-500 miliardi, se rapportato alla scala dell’economia italiana o francese. In sostanza, tutto ciò che è pubblico deve passare in mani private: elettricità, gas, l’acqua di Atene e Salonicco, le ferrovie, i porti, gli aeroporti, le Poste, le strade, gli edifici pubblici più importanti, senza tralasciare i casino. Il piano, amministrato da un nuovo ente di natura privatistica dovrebbe essere attuato nel giro di un triennio, entro il 2015. L’Economist, pur tradizionalmente incline a valutare positivamente le politiche di privatizzazione, scrive: ” Con un target di 50 miliardi di euro (72 miliardi dollari) entro il 2015, il piano di privatizzazione della Grecia mira a raccogliere più denaro come quota del PIL di quanto abbia mai attuato qualsiasi altro governo nell’ambito dell’ OCSE”. Per di più, commenta l’Economist,si tratta di “un progetto di privatizzazione di beni e servizi da mettere in atto in un tempo assurdamente stretto”.(3)
I tempi slittano e l’obiettivo quantitativo delle privatizzazioni è ridimensionato entro 25 miliardi. Il governo Tsipras nel documento presentato all’eurogruppo dichiara di non essere contrario in linea di principio alle privatizzazioni e di non mettere in discussione quelle già attuate o in corso, ma rispetto all’ampiezza e ai contenutisi riserva di verificarne articolatamente l’opportunità e la convenienza. Alle autorità europee e al FMI non basta. Non ritengono che il compito debba rimanere nelle mani del governo greco. Si riservano i diritto di esercitare il loro controllo sui processi in atto, sulle modalità e sui tempi previsti per l’integrale attuazione del piano. Il trasferimento di sovranità da un governo nazionale che ha un mandato democratico e popolare alle autorità europee non ammette eccezioni, nemmeno quando si tratta di funzioni proprie di uno stato moderno, come le decisioni in ordine alla proprietà e alla gestione di infrastrutture strategiche e alla prestazione di servizi collettivi essenziali.
In ogni caso, il punto cruciale delle riforme strutturali non è quello delle privatizzazioni, ma si concentra intorno alle riforme del lavoro e dei sistemi di welfare. Qui si manifesta in tutta la sua pienezza il fondamentalismo ideologico delle politiche economiche e sociali dell’eurozona. Le principali proposte di intervento del governo greco dirette ad alleviare lo stato di malessere e di povertà di una grande parte della popolazione sono bocciate, o comunque sottoposte a una severa verifica di compatibilità con i vincoli di bilancio posti dalla Commissione europea. Alcuni esempi di misure sociali che Berlino e Bruxelles contestano sono eloquenti. L’elenco comprende, da un lato, misure di carattere economico: l’aumento graduale del salario minimo mensile fino a riportarlo nel 2016 al livello antecedente alla crisi, pari a 751 euro; il ripristino della contrattazione collettiva nazionale; l’aumento delle pensioni più basse con la reintroduzione della tredicesima mensilità; il reintegro di una parte di dipendenti pubblici licenziati, Dall’altro lato, misure di carattere umanitario: l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, i buoni pasto per le famiglie più bisognose, la mensa nelle scuole per l’infanzia, e così via. Le autorità dell’eurozona bloccano l’insieme del programma, impedendo al governo greco di finanziarsi con l’emissione di titoli anche a breve sia nei confronti delle banche private che della banca centrale greca. La corda al collo si stringe.
5. La politica delle riforme strutturali, nella specifica versione delle istituzioni europee, rivestono un carattere strategico. Prima o dopo le misure di austerità avranno esaurito il loro compito. Ma i cambiamenti apportati dalle riforme avranno introdotto un radicale cambiamento nel modello di rapporti sociali. Gli obiettivi di lungo termine delle riforme sono il drastico ridimensionamento dell’intervento dello stato nell’economia, la compressione e la tendenziale privatizzazione dei sistemi di welfare, l’emarginazione del potere dei sindacati e della contrattazione collettiva.
In altri tempi, questa politica sarebbe stata definita reazionaria. In effetti, è diventato il paradigma dominante nell’eurozona. La particolarità sta nel fatto che in tutti i paesi democratici questa politica ha una connotazione di destra, e i governi che la praticano devono misurarsi con un’opposizione che ha i colori più o meno pronunciati della sinistra. Nell’eurozona, la più grande area economica del pianeta dopo gli Stati Uniti, la differenza tra destra e sinistra è invece sbiadita fino a scomparire del tutto quando si tratta dipartiti al governo.
L’opinione dominante è che l’eurozona manchi di un governo politico. Questa affermazione è parzialmente vera, se ci riferisce specificamente alla politica estera e di difesa. Ma è infondata se ci si riferisce alle scelte che orientano, guidano e controllano le politiche economiche e sociali degli stati membri. Non si tratta solo della devoluzione della la sovranità monetaria a una Banca centrale, istituzionalmente vincolata al controllo dell’inflazione – ciò che fa una grande differenza rispetto all’autonomia e ai compiti attribuiti alle banche centrali degli Stati Uniti, del Giappone o del Regno Unito. Con la progressiva modifica dei trattati e della loro interpretazione, l’iniziale vigilanza sulle politiche di bilancio si è estesa a tutti gli aspetti della politica economica e sociale, sottoposta al controllo preventivo, alla verifica, e al potere sanzionatorio della tecnocrazia di Bruxelles.
6. Bisogna aver presente questo quadro, per cogliere pienamente la caratteristica politicamente“sovversiva” del governo Tsipras. Il conflitto più appariscente è parso quello che ha opposto Tsipras e il ministro delle finanze Varoufakis al superfalco tedesco Schäuble. Ma questa è una visione monca. In effetti, l’opposizione al nuovo governo greco ha messo insieme tutti i governi dell’eurozona, con sfumature più tattiche che di sostanza. Non sorprende l’opposizione dei satelliti della Germania: dai paesi baltici, alla Finlandia, alla Slovacchia e all’Olanda. Ma ancora più signficativa è la posizione della Spagna, espressa con brutale franchezza daI ministro delle finanze Cristóbal Montoro quando, riferendosi al nuovo governo greco, ha spiegato che “ non basta vincere le elezioni e cambiare governo per mettere in discussione i criteri che regolano l’eurozona”.
E’ convinzione generale dei governi dell’eurozona che la Grecia debba essere ricondotta nel quadro della disciplina collettiva. Commentando il compromesso col governo greco, , il ministro delle finanze irlandese , Michael Noonan, trionfalmente annuncia: “non c’è nulla che possa essere considerata una concessione (al nuovo governo greco)” . E la sua omologa portoghese, Maria Luis Albuquerque, sentenzia che non può esserci altra base negoziale se non il vecchio programma stabilito dal Memorandum del 2012.
L’ostilità al nuovo governo greco ha ragioni profonde che toccano da vicino anche i principali governi di centro sinistra. Mostrando tolleranza nei confronti delle posizioni del governo Tsipras, rischierebbero di vedere sconfessate le proprie scelte politiche. Il caso francese è eloquente. Nel 2014 François Hollande licenzia Arnaud Montebourg ministro dell’economia, della sinistra del Partito socialista, colpevole di opporsi all’indissolubile binomio austerità-riforme strutturali, e lo sostituisce con Emmanuel Macron, un giovane banchiere proveniente dal gruppo Rothschild: “un segnale forte – si compiace il Corriere della Sera – che la Francia vuole dare all’Europa (e a Berlino) dopo un biennio di esitazioni e zig zag che hanno fatto precipitare il credito del presidente Hollande” . La speranza o piuttosto l’illusione di Hollande è di mantenere in vita la partnership franco-tedesca che un tempo, soprattutto in virtù dell’impegno della Francia, da Robert Schuman a Jacques Delors, fu l’asse portante prima della Comunità e dell’Unione europea e poi dell’eurozona. Una partnership , ormai esangue, progressivamente svuotata dopo l’unificazione tedesca e l’assunzione da parte della Germania di un incontrastata egemonia sull’eurozona.
In Italia, il caso è forse meno sorprendente di quello francese, ma non meno significativo. Matteo Renzi, muovendosi spregiudicatamente sul terreno delle riforme strutturali, punta ad assicurarsi il consenso innanzitutto di Angela Merkel. In Italia non è rimasto molto da privatizzare, ma il governo non esita a offrire alle imprese europee e americane ciò che rimane di efficiente nel settore industriale e nei servizi. Ma sappiamo che ciò che più conta agli occhi celle autorità europee è la deregolazione finale del mercato del lavoro, fino alla sostanziale libertà di licenziamento: un progetto che non era riuscito nemmeno al governo Berlusconi, ma che Renzi realizza col cosiddetto Jobs Act.
7. I modelli di austerità e riforme strutturali, indicati dalle autorità dell’eurozona come esempi di successo, sono l’irlandese e lo spagnolo. Modelli, a un’analisi ravvicinata, paradossali, caratterizzati insieme dall’aumento del debito e dall’esplosione della disoccupazione. Conviene prestare un po’ di attenzione al molto reclamizzato caso irlandese. In un articolo pubblicato sul New York Times, Fintan O’ Toole, scrittore e collaboratore dell’Irish Times, così sintetizza i risultati delle politiche di austerità e riforme strutturali imposte dalle autorità europee all’Irlanda: “Procura un senso di profonda ingiustizia vedere che l’Irlanda è stata trasformata in uno dei paesi più indebitati del pianeta per salvare i detentori internazionali di obbligazioni che avevano scommesso sulle banche canaglie irlandesi”. Vale la pena di ricordare a questo proposito che l’Irlanda che aveva un debito pubblico irrisorio prima della crisi, si ritrova oggi, dopo la cura dell’ austerità con un debito del 110 per cento del PIL! “E’ stata adottata una politica, continua l’autore irlandese,i che ha inflitto enormi sacrifici alla parte più povera della popolazione. …C’è un profondo divario tra la storia che si racconta e l’effettiva esperienza irlandese. I dati impressionanti (della crescita) del PIL sono frutto delle tecniche di compilazione dei bilanci delle multinazionali basate in Irlanda. La disoccupazione rimane molto alta …i salari non sono aumentati e i debiti delle famiglie in relazione al reddito disponile sono al secondo posto nella graduatoria europea dei debiti più alti”.(4) Eppure l’Irlanda è presentato dalle autorità dell’eurozona come un tipico modello di successo. Una trasfigurazione della realtà che George Orwell avrebbe potuto assumere nel suo “1984” come esempio della “neolingua” dei regimi autoritari.
Un altro esempio è quello spagnolo. Il capo del governo conservatore, Mariano Rajoy, è considerato il migliore allievo della lezione impartita dalle autorità dell’eurozona. I suoi record sono i peggiori dopo quelli della Grecia. Il debito pubblico che era il più basso tra i grandi paesi dell’eurozona, pari al 40 per cento del PIL, notevolmente più basso anche di quello tedesco, è più che raddoppiato, fino a sfiorare la soglia del 100 per cento alla fine del 2014; contestualmente la disoccupazione si è attestata intorno al 25 per cento della forza lavoro. Un fallimento clamoroso della ricetta dell’austerità.
Ma, per le autorità di Bruxelles, si tratta pur sempre di un modello eccellente sotto il profilo delle riforme strutturali e, segnatamente, delle riforme del mercato del lavoro. Non a caso, il governo Rajoy ha emarginato i sindacati, bloccato la contrattazione collettiva, ridotto i salari e liberalizzato i licenziamenti: risultati molto apprezzati a Berlino e Bruxelles. Ne è la prova la tolleranza verso un disavanzo di bilancio che continua a superare il 5 per cento del PIL, mentre sono minacciate di sanzioni la Francia per un disavanzo di poco superiore al 4 per cento e l’Italia con un disavanzo inferiore al 3 per cento.
Siamo di fronte all’ennesima prova di una politica che, dietro lo schermo dell’austerità, punta in effetti al rovesciamento finale di quello che, al tempo di Jacques Delors, era considerato il “modello sociale europeo”. La moneta unica doveva aiutare i paesi aderenti a confrontarsi da una posizione di forza con le dinamiche della globalizzazione. L’operazione è miseramente fallita. Le politiche neoliberiste, adottate nell’eurozona per reagire alla crisi globale scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, hanno avuto come risultato un netto arretramento dell’eurozona rispetto a tutte le altre regioni sviluppate o in via di sviluppo del pianeta. L’arretramento si è manifestato anche nei confronti dei paesi europei non-euro, come il Regno Unito, la Polonia e la Svezia, a dimostrazione del fatto che non si tratta di un vizio d’origine del vecchio continente, ma dell’applicazione di politiche palesemente insensate
8. Il fallimento economico è, tuttavia, solo un lato della medaglia. Le conseguenze più gravi riguardano la faccia che rimane in ombra: ci riferiamo ai danni profondi inflitti agli assetti democratici dei singoli paese. La Grecia rende esplicito ciò che prima era mascherato. Nessun governo può rivendicare una propria autonomia politica. Il consenso popolare e democratico è un orpello ridondante, sostanzialmente inutile. I programmi politici sono quelli stabiliti al centro dell’euro-impero. Gli stati membri hanno meno autonomia e potere di regolazione interna su rilevanti aspetti della vita economica e sociale di quanto possa averne un piccolo stato degli Stati Uniti d’America.
Non si tratta di sottostare alle regole che attengono strettamente al funzionamento e alla sostenibilità di una moneta comune. Da questo punto di vista, il governo greco ha presentato un piano finalizzato alla sostenibilità del debito a lungo termine e alle compatibilità di bilancio come regola generale della propria politica fiscale.
Ma non è quello (o solo quello) che chiedono i padroni dell’eurozona. In effetti, vogliono il controllo pieno delle politiche economiche e sociali dei paesi membri in tutti i loro aspetti, fino ai dettagli più minuti. Naturalmente, stiamo parlando delle province dell’impero, non del suo centro. La Germania può decidere di fissare un salario minimo intersettoriale a 8,5 euro al mese, perché questo ha chiesto la SPD come condizione per la formazione della Grande Coalizione col partito di Angela Merkel.
La Grecia non può, nemmeno gradualmente, riportare il salario minimo al livello pre-crisi di 750 euro che, per inciso, è meno della metà di quello tedesco, francese o belga. Non può ripristinare una normale contrattazione collettive dei salari e delle condizioni di lavoro attraverso la contrattazione nazionale. Non può decidere quali servizi cedere alla speculazione privata nazionale e internazionale. Non può decidere gli standard minimi vitali per i pensionati più poveri. E non può decidere, una volta ridotti da 16 a 10 i ministeri, secondo il programma di riorganizzazione dell’ amministrazione pubblica, come debbano essere riequlibrati gli organici e le gerarchie salariali. Insomma, un governo ingabbiato.
Con lo scivolamento progressivo dell’eurozona verso un implicito regime autoritario, che ha il suo centro egemonico a Berlino e il suo braccio esecutivo a Bruxelles, si è creata una situazione nuova. L’eurozona ha non solo aggravato con la sua politica deflazionista la crisi economica e sociale; ha profondamente logorato il tessuto democratico nei paesi membri, ridotti al ruolo di province. Le élite economiche e finanziarie hanno utilizzato il binomio austerità-riforme strutturali per far avanzare le politiche neoliberiste che nella maggior parte dei paesi europei si aggiravano da trent’anni come un fantasma senza trovare un ancoraggio stabile. L’Europa si era mostrata refrattaria alla liquidazione del modello sociale che Jacques Delors esaltava quando si gettavano le fondamenta della futura eurozona.
L’elite finanziaria ed economica ha trovato il modo di condurre la sua lotta di classe senza proclami ideologici, allontanandone anche il sospetto, utilizzando la mediazione della tecnocrazia europea. istituzionalmente irresponsabile, che governa secondo regole tecnicamente astruse ed oscure.
Il 25 gennaio del 2015, con la vittoria di Syriza, il sepolcro imbiancato dell’eurozona è stato violato. Era grottesco immaginare che il nuovo governo greco, potesse rovesciare con un solo colpo il regime neo-imperiale dell’eurozona. Gli ha dato tuttavia una scossa poderosa. La stessa richiesta di apertura di un negoziato generale è un’eresia che corrode la teologia fondamentalista dell’eurozona. La Grecia ha aperto una partita coraggiosa quanto difficile. Nei prossimi quattro mesi molte cose possono succedere in un senso o nell’’altro. Ma una cosa è già successa. E’ stata fornita la prova concreta di una possibilità: dichiarare che il re è nudo, la politica dell’eurozona è fallimentare dal punto di vista economico e – quel che è ancora più grave – perniciosa per il funzionamento della democrazia.
La novità è che la denuncia insieme con la richiesta di un radicale cambiamento non provengono da una minoranze di opposizione, ma da un governo che gode di un livello di consenso democratico e popolare che non ha confronto in nessun altro paese dell’eurozona – se si fa eccezione, e pour cause, per la Grande Coalizione in Germania, forte del suo indiscusso ruolo egemonico. La Grecia ha oggettivamente aperto una partita destinata ad allargarsi su molti fronti. Non a caso, Il suo contagio è ciò che più temono nelle alte sfere del’eurozona. Temono, in primo luogo, il contagio spagnolo con la probabile vittoria di Podemos nelle elezioni di fine anno.
Ma è, soprattutto, la rete delle complicità dei governi di diverso colore che la sfida della Grecia, quali che ne siano i risultati, minaccia di incrinare. L’omertà dei governi che accettano, o subiscono, le politiche insensate e rovinose imposte dalle istituzioni dell’eurozona potrà essere sempre più difficilmente dissimulata. E’ difficile oggi prevedere quale possa essere l’esito finale del provvisorio compromesso greco. Ma una breccia è stata aperta nelle possenti mura dell’eurozona, e sarà difficile richiuderla.
NOTE
1. Alan Greenspan – Greece: Greenspan predicts exit from euro inevitable
(Intervista alla BBC – 8.2.2015)
2. Wolfgang Münchau Athens must stand firm against the eurozone’s failed policies (Financial times, 15.2. 2015)
3. The Economist The privatisation illusion Jul 15th 2011
4.Fintan O’Toole – The Irish rebellion over water (International New York Times,20-21 December 2014)
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