Valentina Orazzini: Se l’unità riparte dalle metalmeccaniche
Questo inverno come è noto, dopo 8 anni, e una pesante stagione di contratti separati Fim, Fiom e Uilm hanno firmato unitariamente il contratto con Federmeccanica. Con il contratto si sono definite regole comuni che superano la stagione degli accordi separati e divengono strumento con cui si rilancia la contrattazione di settore investendo sul rapporto democratico con i lavoratori. Regole quindi che siano da guida per l’operato delle organizzazioni negli anni a venire.
Ma cosa ne è dello spirito della categoria di fronte alla sfida che abbiamo di fronte?
La risposta arriva con la prima iniziativa unitaria: l’assemblea delle donne metalmeccaniche FIM FIOM UILM che si è tenuta il 1 marzo 2017 a Roma.
Una sfida lanciata dalle compagne delle tre organizzazioni che hanno discusso delle esperienze che tutte e tre le sigle avevano fatto durante gli anni precedenti e deciso di mettere a sistema i propri percorsi e rilanciare un impegno unitario che affonda le radici in una delle storie migliori dell’FLM: le donne metalmeccaniche.
Lo spirito delle metalmeccaniche si prende una giornata di discussione, attenta, partecipata, sentita, durante la quale un intreccio di generazioni di delegate ha preso parola e soprattutto si è ascoltata ed ha ascoltato i contributi delle invitate e degli invitati. La sala è gremita dei colori delle delegate delle tre organizzazioni e il tema di discussione è quello della violenza contro le donne; le differenze tra colori rimangono fuori dal dibattito perché che come dichiara Italia D’Acierno, delegata FCA che chiude la mattinata: “chi mi conosce sa che metto sempre la maglia della Fiom, oggi ho deciso di mettere una maglia nera perché io sono qui come persona, la violenza non conosce distinzione di colore. C’è un tempo per ogni cosa, un tempo per discutere, un tempo per confrontarsi, un tempo per denunciare ma poi deve esserci il tempo per cambiare un intero sistema di cose”.
Apre l’assemblea Loriana Lucciarini, sindacalista e scrittrice che con un progetto narrativo collettivo sostiene insieme ad altre i centri antiviolenza della Marsica, leggendo uno dei suoi brani.
Romina Rossi, coordinatrice nazionale donne FIM, ha il compito invece di aprire i lavori con la relazione iniziale e da Virginia Woolf alle suffragette ricorda che una “stanza tutta per se” e un po di soldi, sono quei requisiti minimi, e cioè l’indipendenza nei mezzi e nell’autodeterminazione che hanno guidato le donne nella conquista del diritto di voto e poi avanti negli anni della protesta, dalle facoltà, alle fabbriche, alle piazze che hanno conquistato diritti civili per tutte e tutti in una stagione ancora profondamente influenzate dai principi del cattolicesimo in cui avevano ancora spazio, il delitto d’onore, in cui le donne non potevano utilizzare il proprio cognome ed era consentito “rimediare” ad un reato di violenza carnale sposando la vittima. L’excursus legislativo se da un lato vede il riconoscimento e l’avanzamento della tutela della dignità femminile dall’altro è stato costretto a trovare un nuovo termine per definire un fenomeno dilagante: la massima espressione di violenza perpetrato contro il genere femminile, il femminicidio.
Il mondo del lavoro non se la cava meglio: 35% delle donne sottoposte a violenza sul posto di lavoro.
Lo spiega nei dettagli Susanna Costa della Uilm nazionale nella suo intervento: “oltre un milione le donne che hanno subito molestie o ricatti sessuali o violenza nei luoghi di lavoro e 500 mila l’anno vittime di mobbing per maternità” sono numeri impressionanti che lasciano sbigottiti, quasi inermi, eppure rivendica Susanna “ho voce, ho un ruolo, possiamo dire basta e fare qualcosa perché sia basta!”.
Il costo della violenza di genere, aggiunge, ammonta a 17 miliardi annui di costi indiretti e diretti, sembra assurdo tracciare una correlazione tra la sofferenza che causa un costo umano inaccettabile e la stima del danno economico che provoca, tuttavia è necessario far emergere anche questo, per far capire alla politica che si tratta di un problema strutturale e non un evento eccezionale da contenere.
L’assemblea è aperta ad interventi anche esterni, il primo, verso il quale va la profonda ammirazione di tutta la platea, è di una ragazza indiana residente a Brescia, soprannome Pinky, figlia di un operaio metalmeccanico, laureata, parla 4 lingue, madre di due figli, lavora in uno studio di commercialisti ed è sopravvissuta alle fiamme appiccatele dal marito. Il suo intervento è un appello di speranza: “nonostante tutto non mollo, non posso mollare” e nonostante tutto definisce il suo percorso un percorso di formazione, rimasta sola senza punti di riferimento, dice nonostante abbia la mia comunità contro “non ho sbagliato, so che sono nel giusto e so che ho due figli a cui devo cambiare mentalità” il suo intervento vuole essere un appello a tutte quelle donne che subiscono violenza e soffrono in silenzio, dice: “noi siamo in grado di fare tutto da sole, non abbiamo bisogno di un uomo violento e che ci dice che non valiamo niente”. La cosa che manca, come denuncia Pinky è la mancanza di punti di riferimento, “se avessi saputo a chi chiedere aiuto…”. Uno dei nodi critici di un sistema che non consente alle donne di vivere una vita libera: la conoscenza dei centri antiviolenza e come rivolgersi a loro e avere il loro sostegno. Porta la loro esperienza l’avvocato Titti Carrano Presidente di DIRE (donne In rete contro la violenza) a nome della rete dei 77 centri antiviolenza che si trovano sul territorio italiano. Superare le difficoltà nel poter conoscere i centri antiviolenza e dove sono è affidato ad un lavoro di rete tra donne ed in un contesto in cui una donna su tre subisce violenza è importante che questa informazione emerga, trovando anche delle modalità a partire dai luoghi di lavoro che possano, anche in anonimato, far emergere storie di violenza e poterle mettere in relazione con i centri antiviolenza. Che il funzionamento dei centri ricada interamente sulle donne è la dimostrazione del limite e del ritardo politico nell’affrontare un problema che non è solo delle donne ma è della società tutta.
Ma quello che emerge, anche grazie al contributo di due giornaliste Elena Stramentinoli ed Antonella Bottini di Presa Diretta, il cui lavoro viene anche proiettato tra gli interventi a piccoli spezzoni, è che in realtà la situazione dei finanziamenti ai centri antiviolenza e il supporto per le vittime e i figli delle vittime di violenza sono totalmente carenti e inefficaci.
Per stare sulle cifre fornite durante il dibattito, la legge 119 del 2013 contro i femminicidi stanziava 10 milioni anno dal 2013, tuttavia ne sono stati spesi 16 milioni in un biennio, erogati in ritardo alle regioni e non vincolati così che nella pratica è possibile spenderli anche per istituti completamente diversi. Le risorse del 2015-2016 non sono state ancora trasferite e degli ulteriori 40 milioni stanziati dal piano straordinario del 2015 ne sono stati spesi 6 milioni soltanto ovvero lo 0,02% dell’intera somma.
La situazione della protezione dei minori orfani di uno o di entrambi i genitori (circa 1600 negli ultimi 10 anni) a seguito di un femminicidio, come ricorda la loro inchiesta, è terribile, la quasi totalità non riceve assistenza specifica e supporto, così che non solo l’iter per rendere giustizia alle vittime spesso è complicato ma lo sono anche tutti quei percorsi che dovrebbero prendere in carico e sostenere le vittime di violenza diretta e indiretta. Per questo motivo all’assemblea sono state invitate anche le istituzioni e per loro intervengono Michele Palma del Dipartimento Generale Pari Opportunità, che nel ripercorrere le vicende del Dipartimento nelle ultime legislature raccoglie la richiesta trasversale che esce dall’assemblea affinché le richieste dei centri, che Fim Fiom e Uilm riconoscono come naturali portavoce di queste donne, siano ascoltate ed evase soprattutto nello stanziamento delle risorse e nella certezza del percorso delle stesse affinché non possano e non debbano essere stanziate per altro. Interviene a questo proposito Emma Petitti, assessore alle Pari Opportunità e in rappresentanza per la conferenza delle Regioni che offre l’esperienza degli ultimi due anni come regione Emilia Romagna che ha approvato la prima legge quadro sulla parità. Nel suo intervento parla dell’impegno in rete dei centri antiviolenza, delle forze sociali e private, che in Emilia Romagna rappresentano un presidio da vent’anni grazie all’auto-organizzazione di queste reti in assenza di un presidio nazionale, visto che le risorse sono arrivate e in ritardo solo negli ultimi due anni. La richiesta quindi di un impegno affinché il Governo faccia da cabina di regia con le regioni ma che appunto prenda impegni esigibili e concreti nel sostegno dei percorsi di tutela ma anche di uscita dalla violenza e il sostegno nell’ingresso nel mondo di lavoro che garantisca autonomia e indipendenza alle donne.
Intervengono all’assemblea due uomini, uno è Stefano Ciccone dell’associazione maschile plurale che si occupa di mutamento della cultura maschile. Ciccone insiste sul fatto che la violenza sulle donne sia un problema strutturale e che come tale impone di discutere in maniera radicalmente diversa poiché è allarmante che all’interno della crisi si parli di violenza sulle donne in chiave strumentale e xenofoba. Non è indifferente infatti la responsabilità dei media che raccontano il fenomeno da un lato schiacciando la donna nella raffigurazione di una donna vittima ,come debole, che riafferma la necessità della tutela maschile, dall’altro nutrendo il voyerismo sulla violenza, dipinta nei suoi aspetti efferati come lontana dalla quotidianità e dalla realtà. Intervenire invece anche su chi agisce violenza, perché se la violenza non è una patologia bisogna allora costruire percorsi di consapevolezza, affrontando il cambiamento su aspettative, immagini e rappresentazioni: per questo lavorare nelle scuole è fondamentale.
Vuol dire affrontare i modelli di genere e agire un conflitto che liberi le differenze dagli stereotipi che ingabbiano sia uomini e donne e che parla anche al sindacato e nel sindacato.
Il sindacato per esempio riproduce modelli di maschile costruito su immagine stereotipata?
Il mutare del mondo del lavoro schiaccia anche gli uomini in dinamiche stereotipiche? ad esempio: come si ricostruisce l’identità maschile nella crisi, in un contesto in cui la perdita e la precarietà del lavoro mettono in discussione anche l’identità sociale maschile? o come si rivendica il diritto alla paternità?
Il secondo intervento affidato ad un uomo nell’assemblea è quello di Marco Bentivogli che porta il saluto dei tre segretari generali di Fim Fiom e Uilm che partecipano ai lavori tutta la giornata. Il segretario indica nella giornata, sostenuta da uno spirito nuovo, la ricerca di un protagonismo politico/educativo dei metalmeccanici che da qui ripartono insieme in un contesto generale che “va al contrario” basti pensare all’atteggiamento sessista del nuovo presidente degli Stati Uniti o alle deregolamentazioni fatte in Russia sulla violenza domestica. L’impegno ad andare avanti insieme senza retorica, con approccio pragmatico dove Fim Fiom e Uilm si candidano insieme ad essere punto di riferimento per far si che le lavoratrici e i lavoratori si sentano meno soli a cioè creare “ un’argine che promuova una discontinuità da dentro al sindacato” fino ai luoghi di lavoro e della società, a dare al sindacato un ruolo educativo e di presidio democratico.
I tanti interventi delle delegate parlano poi di una condizione, quella lavorativa in contesti da sempre costruiti in maniera non neutrale, perché ciò che è neutrale è sinonimo da sempre di un luogo di lavoro, o di un dispositivo di sicurezza, costruito da uomini per uomini. I salari diseguali si sono leggermente avvicinati, ma solo perché la crisi ha fatto scendere quelli degli uomini, intanto per le donne il ricatto non è rimasto solo nel salario ma si è accresciuto nella minaccia della perdita del posto di lavoro in caso di gravidanza, nella disparità allo sviluppo della carriera, nel tempo non liberato delle donne nei lavori di cura, nella mancata attenzione durante le campagne del Fertility Day della ministra Lorenzin di una minima riflessione di cosa significhi diventare madre oggi se si è precarie, se si è sottopagate, se si lavora in catena di montaggio con turni serrati, allora forse anche in virtu di questo ricorda un intervento: un reddito minimo che protegga dal ricatto della precarietà e un salario minimo europeo che arresti il dumping sociale potrebbero essere strumenti che guardano anche all’autodeterminazione delle donne.
Ma anche interventi che ricordano il ruolo che le lavoratrici madri sentono su di loro come responsabilità educativa nel crescere figli consapevoli per contribuire a cambiare la società dalla propria vita o sul ruolo delle donne nel sindacato nell’affermare un punto di vista che lo liberi e lo renda strumento più efficace al servizio di tutte e tutti al di là degli stereotipi.
Un elemento su tutti tocca chi assiste al dibattito: la stragrande maggioranza delle delegate che interviene ha conosciuto, o conosce, una donna vittima di femminicidio o di violenza. Si alternano i ricordi di colleghe, amiche, lavoratrici, compagne, attiviste, amiche, uccise da uomini e uccise poi di nuovo dalla retorica, dai pregiudizi, dimenticate, raccontate come parte in causa “eh però lei..”. Le delegate prendono parola anche per ricordarle, per ricordare a tutte e a tutti che ognuno di noi ha vicino qualcuno vittima di violenza, a volte segregata nel silenzio. Appelli al ricordo e all’azione, delegate che si interrogano: ho visto un collega picchiare sua figlia, mi danno chiedendomi come intervenire per aiutarla. Cosa può fare ciascuna di noi per aiutare, sostenere, essere forza per le altre. Ciascuna porta con se un pezzo di vita che è venuto direttamente o indirettamente a contatto con la violenza di genere.
La necessità che emerge per dare gambe al patrimonio che consegna la discussione è che questa trovi spazio e pratica nei territori dove i percorsi possano tornare ad unirsi e quindi a rafforzarsi.
L’intervento che conclude l’assemblea che dopo anni ha riunito le delegate di Fim Fiom e Uilm è di Michela Spera, della segreteria nazionale Fiom. Michela nel riassumere la riflessione che ha svolto l’assemblea ricorda tutti i preziosi percorsi che sono emersi da parte di tantissime delegate, compagne, lavoratrici che con impegno e militanza svolgono la loro azione nei territori, l’autorevolezza dei metalmeccanici può andare proprio a supporto di questo: mettendo al centro le donne che subiscono maltrattamenti e le donne che attraverso le loro pratiche danno forza a queste donne maltrattate.
Le donne vittime di violenza sono espropriate da una loro casa, noi dobbiamo lavorare affinché la ritrovino ovunque, a lavoro, nel sindacato.
Il titolo dell’iniziativa era “la forza di una il coraggio di tutte”, dice Michela Spera “volevamo un titolo che dicesse che ci vuole coraggio a dire che sta capitando proprio a te, il coraggio di una che si espone, quando non hai soldi, un posto dove andare e comunque paura, e se non puoi scegliere liberamente non c’è possibilità, senza autodeterminazione non c’è una strada, ma per sostenere il coraggio di una è necessaria la forza di tutte, per smuovere, per far sentire la sanzione sociale di tante, se non chiediamo in tante le risorse non otterremo ciò di cui abbiamo bisogno, la forza di tutte per affermare un’altra cultura”. “Le donne” conclude Michela “sono da sempre in campo per non essere subordinate a nessun altro interesse che non sia il proprio”. La responsabilità, al di la delle differenze tra di noi, è trovare un modo di continuare a far camminare le donne insieme con il contributo dei metalmeccanici dando continuità al lavoro di oggi invitando all’azione tutte e tutti coloro i quali hanno il coraggio e la forza di pare un passo avanti.
Category: Donne, lavoro, femminismi, Lavoro e Sindacato, Movimenti, Politica