Enrico Pugliese: Il diritto di migrare di Catherine Wihtol de Wenden
E’ uscito il libro di Catherine Wihtol de Wenden, Il diritto di migrare (Ediesse, Roma 2015) e per invitarne la lettura diffondiamo la prefazione scritta da Enrico Pugliese, professore emerito Università di Roma La Sapienza
Basato – come tutti i suoi lavori precedenti – su una vasta documentazione sulla portata e le caratteristiche delle attuali migrazioni internazionali, questo libro di Catherine Wihtol de Wenden affronta in maniera originale una tematica spinosa: quella del diritto di migrare. Cioè non solo del diritto di uscire dal proprio paese ma anche del diritto di avere un rifugio o semplicemente di cercarsi una collocazione (un lavoro, una nuova vita) in un paese diverso. Da tempo ormai nelle moderne democrazie il diritto di emigrare è in generale riconosciuto. E di questo diritto i paesi del Nord del mondo si fanno anche paladini, denunciandone l’assenza nei regimi autoritari e totalitari. Ma i governi di questi paesi sono ben lungi dal riconoscere effettive possibilità di ingresso nel loro territorio per chi proviene dai paesi poveri, da quelli a elevata pressione migratoria. Questa contraddizione e le possibili vie di uscita sono oggetto dell’analisi della de Wenden.
Il libro parte dalla considerazione che in un mondo dove tutto circola liberamente il diritto alla mobilità degli esseri umani non è riconosciuto come fatto giusto e naturale. Perciò secondo l’autrice è urgente definire un diritto internazionale dei migranti. Questo renderebbe possibile il superamento della situazione attuale in cui la mobilità della popolazione, e in particolare i movimenti migratori internazionali, sono considerati da un lato come una minaccia dai paesi di immigrazione e dall’altro come un’utopia da quelli di emigrazione.
Il libro parte dalla definizione dell’attuale fase storica dei moventi migratori. Essa segue quella del diciannovesimo secolo e dell’inizio del ventesimo e ha una portata comparabile ma inferiore a quella di allora: all’inizio del secolo scorso la popolazione residente in un paese straniero era pari al 5% della popolazione mondiale, mentre ora è appena superiore al 3%. Per quel che riguarda poi le direzioni dei flussi migratori il dato più interessante è che le direzioni più note – quelle Sud-Nord – sono solo una parte del complesso dei movimenti: un flusso di eguale portata si registra all’interno dei paesi del Sud del mondo, tra un paese povero e un altro.
Una tematica molto interessante, efficacemente illustrata nel volumetto, riguarda il modo in cui nelle diverse epoche storiche e nelle diverse temperie culturali il diritto a migrare (cioè a emigrare e immigrare) è stato affrontato sul piano filosofico ma anche sul piano operativo. De Wenden cita il pensiero di Kant, di Locke e di Voltaire, ma anche le norme di apertura o chiusura all’emigrazione praticate in momenti diversi nei diversi paesi. Ed è interessante notare come non solo il diritto a ‘uscire’ sia stato più volte teorizzato e ribadito, ma anche il diritto a entrare (cioè il dovere degli Stati di accogliere o di permettere l’accoglienza) sia stato praticato: in primo luogo per i rifugiati con il diritto di asilo, ma più in generale come diritto di stabilire la propria residenza.
Nell’originale documentazione, che compendia in maniera agile gran parte del lavoro scientifico e di impegno sociale dell’autrice, sono presentati molti paradossi tra cui quello riguardante le politiche migratorie. L’ossessione per la necessità di chiudere agli stranieri (per altro spesso in contrasto con le esigenze dell’economia) che ha caratterizzato di recente le politiche migratorie dei paesi ricchi ha finito col ridurre la mobilità dei lavoratori stranieri sia in entrata che in uscita. Il mancato rispetto del diritto di migrare – mostra l’autrice – ha comportato più problemi di quanti ne abbia risolti. Insomma si tratta di una ragionevole e documentata critica dello stato di cose esistenti nel campo delle migrazioni e di una utile e sensata proposta di cambiamento della quale si sente particolare bisogno da noi in questo periodo.
Crocevia migratorio, al centro del Mediterraneo, l’Italia vive in maniera drammatica le contraddizioni determinate dalla sindrome dell’invasione sviluppatasi negli ultimi anni e strumentalizzata dagli ‘imprenditori politici del razzismo’. L’effetto di questo orientamento, purtroppo diffuso in tutta Europa, è la prevalenza delle politiche di chiusura rispetto a quelle di accoglienza e la stessa militarizzazione delle frontiere, come ben mette in evidenza l’autrice. E gli effetti di questa scelta si sono visti negli anni e nei mesi scorsi con le tragedie avvenute nel Mediterraneo tra la costa libica e quella italiana.
Un primo segno, umanitario e saggio, di presa d’atto della gravità della situazione e della necessità di un cambiamento si era avuto alla fine del 2013 con la messa in atto dell’operazione Mare Nostrum. Questa – a parte il nome retorico quanto inopportuno – aveva avuto il merito di dare priorità assoluta, in coerenza con il diritto del mare, al salvataggio della vita dei naufraghi realizzando con notevole successo questo obiettivo.
Essa è stata cancellata alla fine del 2014 dal governo italiano sulla base di motivazioni di spesa senza alcuna considerazione dell’importanza delle operazioni per il salvataggio di vite umane. Ma alla sua chiusura hanno contribuito – non solo in Italia ma anche e soprattutto in Europa – anche pressioni basate su altre ideologie e su tesi particolarmente speciose. Di queste la più popolare è quella del calling effect secondo la quale l’operazione Mare Nostrum – rendendo, grazie ai salvataggi, meno pericoloso il viaggio in mare – avrebbe avuto un effetto di richiamo incentivando l’arrivo di nuovi migranti.
Come ben sa chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’analisi dei flussi di migranti nel Mediterraneo e con la loro cangiante composizione nel tempo, negli ultimi anni i protagonisti di questi pericolosi viaggi per mare rientrano in larga parte nella categoria delle ‘migrazioni forzate’. Sono stati la guerra e l’aggravarsi delle persecuzioni a spingere questa gente a fuggire e ad affidarsi a coloro che gestiscono i traffici, non certo un effetto di richiamo dovuto alle aumentate possibilità di non morire in mare. Senza la guerra in Siria molti avrebbero preferito restare a casa loro. Ma c’è di più: i conflitti, e le crisi conseguenti come quella libica, hanno trasformato anche migranti economici in migranti forzati, come è appunto il caso degli immigrati africani che lavoravano in Libia e che ora hanno perso la loro fonte di sostentamento (e di reddito da inviare alle famiglie).
Nel discorso attuale le parole d’ordine dominati, all’apparenza neutrali, sono particolarmente crudeli. Eccezion fatta per la ristretta quota che attiene allo status di rifugiato, per i fuggiaschi per guerra o per fame che arrivano sulle coste d’Europa c’è un solo progetto. Esso consiste nel puro e semplice obiettivo di rispedirli al paese da dove provengono e dal quale sono partiti per salvare la vita o per non morire di fame insieme alla loro famiglia. E non si può ignorare l’ipocrisia alla base della dichiarata volontà di sottrarre i migranti – in questo periodo in gran parte profughi e richiedenti asilo – al potere dei ‘mercanti di carne’ distruggendo le imbarcazioni o effettuando operazioni belliche nelle aree dove effettivamente operano i trafficanti. Come si è visto in passato – e come si sta registrando ora – l’inasprimento dei controlli si traduce in sostanza in aumento del pericolo e in maggiori costi economici per gli immigrati, nonché in maggior potere su di loro da parte dei trafficanti.
Purtroppo queste sono le due opzioni principali in discussione ora, a parte la richiesta italiana agli altri paesi europei di accogliere una parte modesta di questi rifugiati, ridiscutendo parzialmente le norme prodotte dagli accordi di Dublino. Attualmente l’Europa non concede loro il diritto di immigrare nel paese verso il quale sono diretti, neanche dopo il riconoscimento dello status di rifugiato. Il diritto di asilo è monco e parziale. Le opzioni che vengono offerte al richiedente asilo sono limitate: egli può scegliere – se ci riesce – di uscire ma – se gli viene riconosciuto lo status di rifugiato – non ha diritto di scelta rispetto alla destinazione.
Un’ultima considerazione suggerita dalla lettura del libro di Catherine de Wenden è che, mentre nel discorso ufficiale sulle migrazioni la retorica umanitaria domina, manca in esso qualunque proposta operativa di natura umanitaria. ‘Mare Nostrum’ aveva appunto questa natura ed è stato prontamente concluso. L’aumento dei morti nei primi quattro mesi del 2015 rispetto a quello dello stesso periodo del 2014 mostra con chiarezza l’effetto di questa scelta.
Ora c’è un rafforzamento di Frontex, il costosissimo sistema che impedisce ai migranti in fuga da guerre e persecuzioni di raggiungere le coste dell’Europa meridionale. E il colmo dell’ipocrisia sta proprio nel tentare di far passare questa scelta, con l’operazione Triton, come una soluzione migliore e più efficace dell’operazione Mare Nostrum.
La gestione pratica e concreta delle politiche migratorie in Europa, soprattutto di quelle di ingresso e di frontiera, è in contraddizione sempre più netta con i documenti principali che hanno portato alla creazione e al consolidamento dell’Unione. In questi documenti si parla dei diritti dei cittadini e anche dei diritti dei migranti. Ma quando dai documenti di base e dalle generiche raccomandazioni si passa alle direttive e poi al comportamento effettivo degli Stati membri la solidarietà e i diritti si offuscano progressivamente e restano solo il controllo e l’ideologia della sicurezza.
Per tali motivi la lettura di questo libretto di Catherine de Wenden per la sua analisi della situazione delle migrazioni, la sottolineatura di prospettive alternative e la denuncia della violazione dei diritti, appare di grande attualità anche per il nostro paese.
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