Angelo Salento: La nuova struttura della disuguaglianza e le prospettive della democrazia economica
Diffondiamo da “Inchiesta” 191, aprile – giugno 2016
I. Dopo il collasso finanziario del 2008, l’analisi socio-economica della disuguaglianza ha assunto connotati ampiamente nuovi. In primo luogo, ha ripreso una consistenza che, soprattutto in alcuni contesti (come quello italiano), aveva perso da tempo[1]. Questa grande attenzione si radica nella constatazione – e questo è il secondo aspetto di novità – che esiste un legame stretto fra la squilibrata distribuzione della ricchezza e l’instabilità economica (v. ad es. United Nations, 2013); e che la disuguaglianza è fra le cause, se non la causa principale, del collasso finanziario globale (v. ad es. Milanovic, 2011). In terzo luogo, l’attenzione è stata puntata non soltanto sulla distribuzione dei redditi, ma anche sulla distribuzione dei patrimoni. Questo è probabilmente l’aspetto più rilevante dello studio di Piketty (2013), che insiste sull’impressionante moltiplicazione della ricchezza patrimoniale, sperequata al punto che «i patrimoni privati sembrano raggiungere, oggi, livelli pari a cinque o sei annualità di reddito nazionale nel Regno Unito o in Francia»·, ossia i livelli riscontrati alla vigilia della prima guerra mondiale (Piketty, 2013 [2014: 25]). Questa trasformazione profonda della natura della ricchezza è un indice molto chiaro di un ulteriore aspetto del fenomeno: la sua connessione con un mutamento delle modalità di accumulazione. La crescente disuguaglianza dei redditi e l’aumento vertiginoso del volume dei patrimoni privati coincidono con un processo di finanziarizzazione (e di patrimonializzazione) dell’economia. È probabilmente questo il motivo per cui è cresciuto l’interesse per l’analisi delle élites economiche, tema che non aveva mai riscontrato un’attenzione paragonabile a quella risalente al classico studio di MilIs (1956). La questione è stata affrontata sia in prospettiva sociologica (v. Savage e Williams, 2008; Mizruchi, 2013), sia in prospettiva economico-politica, come nel bestseller di Piketty (nel panorama italiano v. Franzini et al., 2014; per un’analisi di scala urbana, v. Belligni e Ravazzi, 2013; Cremonesini, Cristante, Longo, 2014. Per una rassegna di analisi europee contemporanee sulle élites, v. Barbera, Dagnes, Salento, 2016a). Anche la pamphlettistica si è cimentata su questi versanti, nei contesti anglosassoni (v. ad es. Freeland, 2012; Jones, 2014) come pure in Italia (dove tuttavia il ceto politico è il bersaglio di gran lunga privilegiato, e il canone dell’analisi è prevalentemente giustizialista: v. per tutti Rizzo, Stella, 2010).
Proprio il rapporto fra processi di accumulazione e disuguaglianza dovrebbe essere è il focus principale di un seminario/convegno che aiuti a ricomporre un quadro analitico oggi disperso fra diverse specializzazioni, mettendolo anche al servizio dell’azione politica e sindacale.
La macroipotesi che il seminario/convegno dovrebbe approfondire è che per comprendere la diversa distribuzione della ricchezza – un vero e proprio mutamento nella struttura stessa della disuguaglianza – è essenziale non soltanto misurare questi fenomeni, ma considerare che essi si generano in un quadro di trasformazioni delle modalità di accumulazione definitosi negli ultimi trentacinque anni. Osservando l’andamento dell’indice di Gini nei paesi europei ci si rende conto che la crescente disuguaglianza non è soltanto il prodotto della crisi dei sistemi di redistribuzione: essa risulta, dagli anni Ottanta, in aumento se calcolata sul reddito disponibile, ossia includendo gli effetti redistributivi della tassazione; ma l’aumento è ancora più consistente se la si calcola sul reddito di mercato. Nel caso italiano, fra il 1985 e il 2010 l’indice di Gini sul reddito disponibile è aumentato del 10%; quello sul reddito di mercato del 30%. Ciò indica che (a) il prelievo fiscale è sempre meno in grado di conseguire una perequazione dei redditi (la disuguaglianza del reddito disponibile aumenta); ma, soprattutto, che (b) perseguire una perequazione è sempre più difficile, perché la distribuzione delle risorse è sempre più squilibrata all ‘origine (la disuguaglianza del reddito di mercato aumenta ancora di più), L’impennata della disuguaglianza, in altri termini, non consegue soltanto a una redistribuzione insufficiente: è soprattutto una conseguenza immediata di una riconfigurazione delle modalità di accumulazione e dei rapporti produttivi. Non casualmente – come risulta evidente quando si osserva l’andamento dell’incidenza dell’ 1% più alto dei redditi sul totale[2] – il processo di “redistribuzione all’inverso” inizia, in Italia come in larga parte d’Europa, all’inizio degli anni Ottanta: ovvero in coincidenza con l’avvio dei processi di deregolazione e depoliticizzazione dell’economia, e con il crescere dell’egemonia politica e culturale del neoliberismo.
Gli studi più evoluti sulla distribuzione della ricchezza – primo fra tutti, per importanza, quello di Piketty (2013) – mettono in luce due aspetti essenziali di questo fenomeno. Innanzitutto, più ancora che la divaricazione dei redditi, di per sé cospicua, appare evidente la crescita e il divario dei patrimoni privati. In secondo luogo, anche i redditi si divaricano in misura crescente[3]: sia perché fra essi aumentano i rendimenti da capitale (ossia di ciò che propriamente si deve considerare rendita: dividendi, interessi, benefit, plusvalenze, canoni di locazione ecc.); sia perché non cessano di crescere le mega-retribuzioni dei manager di vertice delle grandi imprese, retribuzioni a loro volta destinate a promuovere la tendenza dei manager a una gestione aziendale orientata alla massimizzazione dei rendimenti del capitale (v., fra i tanti, Fligstein, 1990; per il caso italiano, Catani, 2010; Salento, Masino 2013)[4]. Benché la crescita della disuguaglianza sembri essere iniziata prima che i processi di finanziarizzazione prendessero piede in maniera massiva, è del tutto plausibile sostenere che l’ipertrofia dei patrimoni privati e la crescita delle rendite e dei redditi legati all’accumulazione fmanziaria abbiano un legame con i processi di accumulazione che vedono il capitale sempre più frequentemente sottratto a un circuito produttivo, ovvero a una funzione di generatore di reddito, di lavoro, di utilità sociale; e, per converso, destinato primariamente a un circuito monetario, ossia alla immediata riproduzione del capitale stesso. Come rilevano Franzini et al. (2014, p. 49), i dati disponibili nelle varie fonti statistiche non permettono di stabilire con esattezza quale sia la consistenza dei redditi dei super-ricchi, e neanche quale esattamente sia la composizione di questi redditi. Tuttavia, come mette in evidenza il rapporto OCSE Divided we stand (OECD, 2011, p. 35), la proporzione di reddito proveniente da investimenti, proprietà e capitale, nei decenni trascorsi, è aumentata, soprattutto per le famiglie più ricche, e larga parte di questo flusso di ricchezza ha subito un prelievo fiscale più ridotto rispetto a quello riservato ai redditi da lavoro.
Il secondo focus del convegno riguarda il futuro della distribuzione della ricchezza. Se la macroipotesi è fondata, infatti, è possibile proporre sviluppi sul piano degli interventi correttivi. I quali non possono essere limitati a pur sofisticate e impegnative ricette di ordine redistributivo. La crescita della ricchezza dei ricchi non è soltanto un malum in se. Se non possiamo permetterei i ricchi (Sayer, 2015) non è soltanto per evidenti motivi di ordine etico e psicologico-sociale. Il problema più serio sono le modalità di accumulazione da cui questo fenomeno emerge. Le tendenze correnti della distribuzione dei redditi e dei patrimoni sono connesse a una concezione dell’azione economica per la quale la produzione di denaro a mezzo di denaro diventa un canale ordinario di produzione di ricchezza, e le imprese stesse, piuttosto che operare come dispositivi di produzione e di commercializzazione di beni e servizi, vengono concepite come dispositivi di masssimizzazione del rendimento del capitale.
Se la disuguaglianza si fonda oggi su una metamorfosi della produzione di ricchezza, l’idea di intervenire sul piano della redistribuzione delle risorse, benché certamente necessaria (e anche impegnativa sul piano politico), non ha la capacità di incidere sulle cause della divaricazione dei redditi e della ricchezza patrimoniale. Se la crescita della disuguaglianza deriva da uno slittarnento delle modalità di accumulazione – e tanto più se questo slittamento produce una fuga dall’economia reale e quindi un indebolimento della capacità dei sistemi produttivi di creare reddito – ne consegue che soltanto un intervento sulle modalità di accumulazione e sui rapporti di produzione può invertire la rotta.
È per questo motivo che – come invita a pensare l’affermazione di Luciano Gallino che abbiamo citato in esergo – per immaginare quali possano essere i rimedi alla crescita della disuguaglianza bisogna sfuggire alla tentazione di pensare che interventi di redistribuzione possano essere sufficienti.
Le linee di riflessione poste dal seminario/convegno su questo secondo piano d’analisi dovrebbero svilupparsi su una doppia dimensione.
La prima riguarda le prospettive della democrazia industriale, ovvero il ruolo del lavoro e dei lavoratori nel coordinamento e nel controllo dell’azione economica. Su questo tema – di per sé meritevole di più ampi approfondimenti – si può comunque sviluppare una riflessione di secondo livello, che faccia il punto sullo stato del dibattito e sulle posizioni delle forze sindacali;
la seconda riguarda la regolazione del rapporto fra impresa e contesto sociale. Configurare una relazione sostenibile fra azione economica e spazio sociale – e ricostruire quindi uno spazio per la democrazia economica latarnente intesa – implica la necessità di portare l’azione economica entro il vincolo di una licenza sociale Come affermava Adolf Berle (1962),
[L’impresa] esiste e ha diritto di esistere sulla base, e soltanto sulla base, di un tacito contratto sociale. Il contratto sociale richiede alla direzione dell’impresa di assumersi certe responsabilità. Il rispetto di queste responsabilità è ciò che dà titolo all’impresa di ricevere alcune prerogative dallo stato e di ottenere il permesso di esistere da parte della comunità economica nella quale opera e alla quale presta servizio.
Riprendere quest’idea novecentesca – senza con ciò aspirare a una replica del compromesso fordista – può essere una traccia di principio, laica e priva di particolari connotati ideologici, per vincolare l’azione economica a svolgersi a beneficio, e non a detrimento, della collettività.
Anche questo versante dell’analisi, manifestamente, è di amplissima portata. Anche in questo caso, il seminario/convegno può offrire una ricognizione degli indirizzi che emergono dalle esperienze più coerenti e radicali di innovazione sociale, rivolgendo l’attenzione in particolare alle esperienze che hanno coinvolto le forze sindacali, ma anche ad approcci teorici evoluti, come le teorie dei beni comuni (Mattei…) o l’approccio dell’economia fondamentale (Barbera, Dagnes, Salento 2016b).
Un’ipotesti di temi per gli interventi:
Prima parte: l’andamento della disuguaglianza dagli anni Settanta a oggi: un’analisi di sfondo in una dimensione nazionale e internazionale; i redditi da lavoro, dipendente e autonomo; la distribuzione dei patrimoni; chi sono i ricchi, oggi; processi di finanziarizzazione e struttura delle disuguaglianze.
Seconda parte: la democrazia industriale in Europa, fra letteratura ed esperienze sindacali; democrazia industriale e controllo delle dinamiche salariali; una responsabilità sociale su basi non volontarie: la licenza sociale; esperienze di innovazione sociale radicale e riconnessione dell’azione economica.
Bibliografia:
BARBERA F., DAGNES J., SALENTO A. (eds.) (2016a), Symposium on elites in Europe, «Sociologica», 2 (in corso di pubblicazione).
BARBERA F., DAGNES J., SALENTO A. (2016b) (a cura di), Declino e reinvenzione del lavoro nell’economia fondamentale, numero monografico di Sociologia del lavoro, 142.
BELLIGNI S., RAVAZZI S. (2013), La politica e la città. Regime urbano e classe dirigente a Torino, Il Mulino, Bologna.
BERLE A. (1962), A new look at management responsibility, Lezione al Bureau of Industriai Relations, University of Michigan, 9 ApriI 1962.
CATANI S. (2010), Manager superstar. Merito, giusto compenso e disuguaglianza sociale, Garzanti, Milano.
CREMONESINI v., CRISTANTE S., LONGO M. (a cura di) (2014), Il salotto invisibile. Chi ha il potere a Lecce, Besa, Nardò.
FLIGSTEIN N. (1990), The Transformation of Corporate Control, Harvard University Press, Cambridge, Mass.
FRANZINI M., GRANAGLIA E., RAITANO M. (2014), Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo, il Mulino, Bologna.
FREELAND C. (2012) Plutocrats: The Rise of the New Global Super-Rich, Penguin, London.
GALLINO L. (2015), Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino.
JONES O. (2014) The Establishment: And How They Get Away with It, Penguin, London.
MILANOVIC B. (2011) The Haves and the Have-Nots. A BriefIdiosyncratic History of GlobalInequality, Basic Books, New York.
MILLS C.W. (1956) The Power Elite, Oxford University Press, Oxford.
MIZRUCHI M. (2013), The Fracturing of the American Corporate Elite, Harvard University Press, Cambridge, Mass. .
NEGRI N. (2007), Disuguaglianze, povertà, esclusione, in M. Regini (a cura di), La sociologia economica contemporanea, Laterza, Roma-Bari, pp. 182-204.
OECD (2011), Divided We Stando Why Inequality Keeps Rising, disponibile in
PIKETTY Th. (2013), Le capitai au XXI siècle, Seuil, Paris (trad. it. Il capitale nel Ventunesimo Secolo, Bompiani, Milano, 2014).
RIZZO S., STELLA G.A. (2010), La casta: Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Rizzoli, Milano.
SALENTO A., MASINO G. (2013), La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro, Carocci, Roma.
SAVAGE M., WILLIAMS K. (eds.) (2008) Remembering Elites, Wiley-Blackwell, Oxford.
SAYERA. (2014), Why wecan’t afford the rich, Policy Press, Bristol.
UNITED NATIONS (2013), Inequality Matters. Report on the World Social Situation 2013, New York.
[1] Come rilevava Nicola Negri nel 2007, «paradossalmente, proprio quando le disuguaglianze si approfondiscono, si smette di parlame e l’attenzione si concentra sull’aumento degli out, del neopauperismo. In tal modo, tuttavia, vengono tagliate fuori dal campo dell’analisi e delle agende politiche proprio le dinamiche che costituiscono la causa dei rischi di esclusione» (Negri, 2007, p. 195).
[2] L’l% più ricco degli italiani ha visto l’incidenza del proprio reddito aumentare sul totale dal 7% nel 1980 frno a quasi il 10% nel 2008 (OECD 2011, tavola 9.1). Nello stesso periodo, la porzione di reddito detenuta dallo 0.1 % della popolazione è aumentata da 1.8% a 2.6%. Secondo lo stesso rapporto OCSE, le aliquote marginali d’imposta sui redditi più alti si sono quasi dimezzate, passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010.
[3] Lo rilevano anche ricerche italiane: v. Franzini et al. 2014.
[4] I rendimenti da capitale, va aggiunto, alimentano a loro volta l’accumulazione di capitale, in un processo ricorsivo. Infatti, «quando il tasso di rendimento del capitale supera in maniera significativa il tasso di crescita [ … ] basta risparmiare una quota anche limitata di reddito del proprio capitale perché quest’ultimo si accresca più in fretta rispetto alla crescita economica nel suo complesso. In tali condizioni, è pressoché inevitabile che i patrimoni ricevuti in eredità prevalgano largamente sui patrimoni accumulati nel corso di una vita di lavoro, e che la concentrazione del capitale raggiunga livelli assai elevati» (Piketty, 2013 [2014, p. 26]).
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