Angelo Gabriele Aiello: Vittorio Capecchi e la disabilità
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Nei primi mesi del 1969 ebbe luogo un evento di portata storica per la vita della nostra collettività. Gli universitari ciechi dell’istituto Francesco Cavazza di Bologna occuparono l’edificio che li ospitava, rivendicando una vita migliore all’interno del convitto e in prospettiva un cambiamento radicale dell’assistenza ai non vedenti. Tra i promotori dell’occupazione c’era un giovane laureando, Antonio Frau, che elaborò una tesi di laurea con un altrettanto giovane professore universitario, Vittorio Capecchi.
Il primo numero di Inchiesta, rivista fondata e diretta da Vittorio Capecchi, avrebbe pubblicato un ampio stralcio della tesi di laurea di Frau, dal titolo “Voci dal ghetto dei ciechi: la testimonianza diretta della repressione più assurda perpetrata ai danni dei ciechi nelle istituzioni totali più «efficienti»”. Questa tesi descriveva l’assurda condizione psicologica e sociale nella quale si trovavano i non vedenti italiani, rinchiusi in strutture ghettizzanti che impedivano di fatto alla gran parte di loro, cioè dei ciechi, una normale vita nella società. Possiamo dire che Capecchi può essere accostato a Franco Basaglia per aver teorizzato, e in gran parte realizzato, un modo diverso di dare risposte a persone con disabilità o disagio psichico.
Quella contestazione del 1969 ha scardinato un vecchio modo di affrontare le problematiche dei non vedenti e dei disabili in generale. Il messaggio che partiva da Vittorio Capecchi era chiaro: non bastava togliere dalle strade i mendicanti disabili e assisterli prevalentemente attraverso la beneficenza, ma doveva essere la pubblica amministrazione con risposte moderne ed efficaci ad occuparsi dell’integrazione sociale di questi ultimi.
Io ho vissuto in prima persona quell’esperienza che ha cambiato la mia vita. Durante quell’occupazione si discuteva della nostra condizione sociale e di come emancipare la nostra esistenza. Furono organizzati gruppi di studio dove si leggevano testi, come ad esempio “Lettera a una professoressa” di Don Lorenzo Milani, che rafforzavano l’idea che quelle lotte erano giuste. A Bologna in quel periodo si respirava un’aria di grande solidarietà sociale: qualsiasi iniziativa, di carattere politico, culturale o organizzativo, veniva supportata dalle diverse confederazioni sindacali e dal mondo delle cooperative.
La contestazione proseguì con le occupazioni di altri istituti per ciechi, durante le quali si verificarono violenti scontri con la polizia: si veda il reportage di un piccolo libro intitolato “La repressione oltre i limiti dell’assurdo: la rivolta degli studenti ciechi di Padova”.
Negli anni successivi gli istituti per ciechi iniziarono a svuotarsi e le amministrazioni locali provvidero ad assistere i disabili nelle loro famiglie, realizzando l’inserimento e il sostegno scolastico. Nella mia tesi di laurea che ho realizzato con Pasquale Bonamassa e Sergio Sacchetti, tesi che ovviamente aveva come relatore Vittorio Capecchi, ci siamo spinti a descrivere la necessità di nuovi sbocchi lavorativi e, in particolare, la prima esperienza di un corso per programmatori elettronici, organizzato a Firenze da un ente professionale legato a un sindacato. Lungo questo solco si può inserire la presa di coscienza delle classi lavoratrici che, in una piattaforma di rinnovo contrattuale degli anni Settanta, rivendicavano particolare attenzione ai genitori e ai figli disabili.
Ma anche le battaglie parlamentari degli anni Ottanta condotte dall’On. Franco Piro, padre della legge 104 e delle prime leggi per l’abbattimento delle barriere architettoniche, si ispiravano all’idea che i disabili andavano supportati nelle loro famiglie, nella scuola e nella società, e che i supporti dovevano essere finalizzati a colmare il più possibile i vari deficit.
Per Vittorio Capecchi quest’ultima considerazione era diventata una nuova frontiera di ricerca: infatti, negli ultimi anni si è occupato di ricerca di strumenti per il miglioramento della qualità della vita, ricevendo un grande riconoscimento a lui attribuito dall’imperatore giapponese, ovvero il collare dell’Ordine del Sol Levante, per i suoi meriti interculturali. Con la sua sensibilità e il suo impegno intellettuale è sempre stato vicino alle problematiche della disabilità, con l’idea di migliorare il presente e con uno sguardo sempre rivolto al futuro.
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