Stefano Boffo, Enrico Pugliese: Giovanni Mottura e l’inchiesta
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Giovanni Mottura e l’inchiesta
di Stefano Boffo e Enrico Pugliese
Il recente libro Giovanni Mottura (Forlì 2023, Una Città) si basa su un’intervista del sociologo scomparso lo scorso anno e ne tratteggia la traiettoria politica e scientifica alla luce dell’attività di inchiesta. Proprio alla tematica dell’inchiesta come pratica di ricerca dominante nella vita pubblica di Giovanni Mottura si riferirà questa nostra nota. Non è casuale il fatto che il Centro di Coordinamento Campano, il gruppo di compagni fondato da Giovanni insieme a Fabrizia Ramondino e altri, e la rivista Inchiesta nascano pressoché contemporaneamente nel pieno dell’autunno caldo e con molte analogie dal punto di vista della ricerca e dell’impegno politico. A Napoli Giovanni Mottura porta la sua esperienza politica e culturale naturata negli anni di intenso lavoro nel Mezzogiorno e a Torino nei Quaderni Rossi.
E’ nel corso degli anni cinquanta che egli si affaccia all’esperienza politica. Anni di dura disillusione di molte delle speranze nate con la Resistenza e la Repubblica e di difficile ripiegamento della sinistra, culminato con la sconfitta della Cgil alla Fiat del 1955, ma anche anni in cui decolla il “miracolo italiano”, in cui il capitalismo nostrano si dirige verso nuovi assetti rispetto alla prima metà del secolo. Questo capitalismo rinnovato sfugge in buona misura alla comprensione della sinistra di allora, soprattutto a quella ancora legata all’idea di un capitalismo arretrato schiacciato sotto il peso soverchiante della rendita. Nasce del resto da questa visione la volontà, più volte sottolineata dal Pci di quegli anni, di un’alleanza della classe operaia di fabbrica e rurale con la “borghesia produttiva” per liberare il Paese dal peso del ruolo dominante della rendita fondiaria. Ma di fronte a questo nuovo capitalismo sorge anche la necessità, per quanti dissentivano da questa visione datata e semplificatrice, di trovare strumenti che consentissero una conoscenza delle nuove condizioni di vita e soprattutto di lavoro delle classi subalterne. Un’esigenza che trova soprattutto ascolto e spazio in quella parte della sinistra che, in dissenso con la risposta del Pci di Togliatti ai fatti d’Ungheria, si interroga intorno alle implicazioni e prospettive che ne derivano per l’affermazione del socialismo in Italia e all’esigenza di porre rimedio alla perdita di contatto con la nuova realtà operaia approfondendo la conoscenza delle sue condizioni di vita e di lavoro. Impegnato in politica già da studente, Giovanni Mottura nei primi anni Cinquanta milita nell’Unione Socialista Indipendente di Cucchi e Magnani e più tardi nel movimento giovanile socialista ed arriva nel 1956 nella Sicilia di Danilo Dolci, condividendo con i disoccupati e con i contadini le esperienze di lotta per l’occupazione (compreso lo “sciopero a rovescio” che lo portò per un mese nel carcere all’Ucciardone) e sviluppando l’attività di inchiesta nei quartieri di Palermo e nei paesi vicini. Un’esperienza fondamentale nel convincerlo della pluralità di attori sociali che occorreva comprendere nella nozione di “proletariato” e, anche per questo, della necessità di perseguire quella che sarebbe stata la “stella polare” di tutto il suo lavoro politico e accademico, l’attività di inchiesta, concepita non solo come strumento di conoscenza della realtà, ma soprattutto come metodo di lavoro tra e con la gente. E’ del resto proprio l’inchiesta che lo porta a Torino all’incontro con Giovanni Carocci (l’inchiesta alla Fiat) e soprattutto con Raniero Panzieri, da cui origina la fondazione dei Quaderni Rossi, sicuramente l’esperienza più significativa della sinistra non comunista di quegli anni. Il gruppo che si riunisce attorno a Panzieri e ai Quaderni si rinsalda proprio a partire dall’esigenza di dare una risposta politica, al tempo stesso teorica e pratica, alla nuova situazione venutasi a determinare nelle classi subalterne. L’inchiesta consente di soddisfare il bisogno di esplorazione delle nuove condizioni di vita e di lavoro industriali che nel quadro del “neocapitalismo” stanno vivendo gli operai ed allo stesso tempo costituisce anche una pratica politica di mobilitazione ed organizzazione di classe. Con i Quaderni Rossi e con le inchieste realizzate in alcune fabbriche dell’area torinese emerge una nuova immagine della classe e del sistema che la governa e la sfrutta. Mottura vi apporta alcuni contributi importanti: anzitutto con una “Cronaca delle lotte ai Cotonifici Valle di Susa” e poi con un articolo sul senso politico del metodo dell’inchiesta e, nello stesso numero, con una nota che estende lo sguardo anche al di là degli operai di fabbrica con un’attenta analisi dei rapporti sociali in agricoltura. Già da allora egli chiarisce che l’attività di inchiesta non può essere limitata alle sole fabbriche, ma che essa è un metodo di indagine e di intervento politico che serve come strumento di conoscenza e come metodo di lavoro nel popolo e con il popolo ovunque esso si collochi, nelle industrie come nelle campagne. Come noterà Vittorio Rieser molti anni dopo in occasione di un convegno su “L’inchiesta sociale in Italia” (2007), il termine “inchiesta operaia” è dunque improprio “…se ipostatizza il ruolo universale della classe operaia o peggio di una sua componente tipo l’<operaio massa>”. C’è in queste parole la sottolineatura della validità del metodo dell’inchiesta, con tutti i soggetti sociali con i quali i militanti-ricercatori intendono operare, come intreccio di azione politica e di indagine sulla società e come opportunità “operativa” che permette di superare visioni preconcette cercando di comprendere, con un rapporto diretto e bidirezionale, la realtà, le aspirazioni e le convinzioni dei soggetti della classe. Nel rapporto che si istituisce con l’attività di inchiesta si apprende da ambedue i lati e lo scambio porta ad un più alto livello di consapevolezza. In questa prospettiva l’inchiesta non è né una tecnica né un’opzione metodologica nell’ambito della sociologia: al contrario, essa presuppone il rapporto con un interlocutore che non è un semplice oggetto di ricerca, ma un soggetto che deve trovare la strada e gli strumenti della propria emancipazione e dalla cui parte ci si schiera. Tutti aspetti che sono ben chiari ed espliciti nell’intervista di Mottura citata inizialmente e che hanno avuto un profondo riflesso sulla sua attività politica non meno che sulle sue ricerche e sui suoi studi teorici. E del resto, essi rendono non casuale la scelta che, successivamente ai Quaderni Rossi, egli opererà optando per mettere al centro dei suoi interessi politici (e scientifici) i contadini ed il Mezzogiorno, ambiti su cui ha dato un apporto certamente innovatore. In relazione alla prima, egli ha prodotto un quadro interpretativo che, nel mostrare la complessità della realtà dell’agricoltura nello sviluppo italiano, è stata capace di superare la contrapposizione, tradizionale nella sinistra anche nel dopoguerra, tra una linea “bracciantilista” ed una “contadinista”.
Per il Mezzogiorno Mottura ha individuato aspetti e termini nuovi della questione meridionale, a cominciare dallo stretto nesso sviluppo-sottosviluppo, dal carattere strutturale della disoccupazione nel Sud e dell’estensività del concetto di proletariato riferito al Meridione. A Napoli Mottura trascorre quasi un decennio che è stato altrettanto fecondo, politicamente e scientificamente, degli anni passati a Torino. Ricercatore presso il Centro di ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno di Portici, egli incontra una tradizione antica di inchiesta e di ricerca sul campo che è quella propria del filone meridionalista, ben incarnato al tempo da Manlio Rossi Doria, che faceva ricerca “sporcandosi le scarpe”, come amava ripetere e del Centro era stato il fondatore.
La convinzione dell’importanza del legame tra lavoro politico e pratica sociale accumuna tutto il gruppo fondatore del Centro di Coordinamento Campano che nasce con l’obiettivo di coordinare gruppi locali che facevano lavoro di inchiesta e intervento politico con radicamento sul territorio fuori da un approccio ideologico, come il collettivo Carlo Marx di Bagheria in Sicilia, molto attivo e originale nella sua capacità di analisi, o il Collettivo di Castrovillari in Calabria. Ma i collegamenti più importanti erano con piccoli gruppi, soprattutto in Campania. In realtà questo obiettivo di coordinamento non si realizzò perché le esigue forze vennero assorbite dal lavoro di inchiesta a Napoli e nell’area circostante e dalla partecipazione a lotte anche importanti in ambienti e su tematiche solitamente trascurate, come la salute in fabbrica o il lavoro nelle piccole imprese del sotto-salario e con una esperienza importante rappresentata dal lavoro politico nell’hinterland napoletano con i braccianti agricoli e altre figure di lavoratori precari. Ma la tematica sulla quale si impegnò soprattutto Mottura (e con lui il Centro di Coordinamento Campano) riguardava la condizione del proletariato precario nella città. Proprio a questo proposito l’insistenza a non parlare di sottoproletariato – come era allora solitamente in uso – ma di proletariato precario non fu espressione di una fissazione ideologica o, peggio, di una diatriba filologica: si trattava al contrario di riconoscere dignità politica e capacità di autonomia a vasti settori degli strati popolari di Napoli, cioè di una parte significativa e molto importante della popolazione della città. Si trattava di contrastare l’immagine prevalente di una Napoli plebea e priva di un’etica del lavoro, proprio mentre in quegli anni il movimento dei disoccupati dava corpo a una immagine alternativa di popolo in lotta per il diritto al lavoro. Il proletariato precario napoletano, fatto di gente che lavorava (come per altro tutt’ora lavora), impegnata in attività saltuarie e malpagate è cosa ben diversa, come ricorda Mottura nell’intervista, dal Lumpenproletariat (proletariato straccione in senso letterale) costituito secondo Marx dagli espulsi di tutte le classi sociali: ladri, vagabondi, piccoli delinquenti: dunque qualcosa da non confondersi con le componenti più povere del proletariato stesso. La questione non è terminologica ma di sostanza. La scelta di fare pratica sociale nei quartieri poveri di Napoli, a partire dai Quartieri Spagnoli e dal Centro Antico, occupandosi di questo settore della popolazione che la sinistra ortodossa, con un’idea restrittiva aristocratica del proletariato, considerava marginale e inaffidabile, ha rappresentato uno degli aspetti di maggiore originalità del Centro di Coordinamento Campano.
E’ sulla base di questo approccio che il Centro di Coordinamento, nel pieno della sua attività, sviluppa un interesse specifico per i disoccupati fin dai primi passi del loro movimento, ignorato o visto con fastidio dalla sinistra istituzionale politica: caso davvero emblematico in un momento in cui i processi di ristrutturazione capitalistica dell’economia cittadina portavano al contempo alla formazione di una moderna classe operaia industriale e alla estensione ed esplicitazione della disoccupazione anche di origine operaia. In quegli anni Napoli era la terza città industriale d’Italia eppure l’interpretazione prevalente della situazione economica e sociale della città (e soprattutto dei quartieri popolari) era basata sulla retorica dell’economia del vicolo, mentre i processi di modernizzazione travolgevano le strutture produttive tradizionali. E non si tratta solo di questo: i piccoli laboratori del sotto salario e delle condizioni di lavoro gravemente insalubri si inserivano in circuiti commerciali nazionali e internazionali. Questi erano i processi di cui si discuteva nelle riunioni del Centro e le riflessioni sui processi di cambiamento e di mobilitazione erano tradotte da Mottura in articoli e saggi variamente pubblicati. Ma dietro c’è sempre stato un lavoro collettivo basato sul metodo dell’inchiesta, in cui capacità di ascolto e rispetto per l’interlocutore sono essenziali. E in quest’ottica si colloca perfettamente l’attenzione per i disoccupati organizzati che esprime un aspetto metodologico fondamentale dell’inchiesta: parlare con i soggetti delle mobilitazioni e comprenderne le condizioni materiali di vita ma anche, i valori, le aspettative e quindi capire il senso della loro lotta.
Un’attività specifica di intervento politico-sindacale nella linea dell’inchiesta condotta dal Centro di coordinamento campano è rappresentata dal lavoro con i braccianti agricoli dell’hinterland napoletano. Così come per il proletariato precario urbano, anche in campo bracciantile non si è mai lavorato in contrapposizione con il sindacato, bensì in funzione di stimolo ed indicazione di una linea di classe, appoggiando l’attività di lavoratori più impegnati e riconosciuti come avanguardie locali. In generale lo studio della questione agraria e della sua articolazione territoriale nel Mezzogiorno -con i problemi indotti dallo spopolamento delle aree interne, tematica tornata di attività in questi anni- è rimasta una costante dell’attività di riflessione politica e scientifica di Giovanni anche dopo il suo ritorno al nord. E negli ultimi decenni il suo impegno a Bologna si è orientato a studi di storia dell’agricoltura e delle organizzazioni sindacali, contadine e bracciantili e del sindacato generale, sempre contraddistinti da uno stile originario, creativo e spesso controcorrente.
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