Raffaele Mazzanti: Qualche cosa di Carlo Doglio a Bologna dal 1970 al 1995

| 26 Novembre 2014 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo questo testo del 26 novembre 2014 relativo alla iniziativa del 27 novembre 2014 per ricordare Carlo Doglio nel centenario della sua nascita. Questo testo è dedicato a Pasquale Culotta

 

Premessa

Parlare della presenza di Doglio a Bologna significa un po’ ripercorrere buona parte della storia culturale bolognese dagli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale alla fine del ‘900, con le interruzioni dei periodi trascorsi lontano dalla città, ma anche con una singolare continuità di rapporti con persone e ambienti intellettuali.

Il suo collocarsi all’incrocio di culture e di saperi diversi si traduce anche a Bologna in una molteplicità di relazioni che influenzano e entrano spesso direttamente nel circolo delle sue esperienze di vita e di insegnamento (nelle quali poi è anche difficile dire dove finiscano o comincino le une e le altre).

Doglio è stato per molti versi un consapevole provocatore di corto circuiti intellettuali mettendo spesso direttamente a contatto conoscenze e frequentazioni in ambito letterario ed estetico con quelle più propriamente scientifiche, con  altre di stampo politico-sociologico, con quelle, infine, nel mondo dell’urbanistica e dell’architettura: il tutto alla luce della sua visione umanitaria e anarchico-non violenta. Un’attitudine che certamente non gli ha giovato sotto il profilo pratico perché la sua personalità è stata di difficile (se non impossibile) classificazione all’interno di categorie specialistiche ben definite (come il mondo di oggi invece ama fare) ma che certamente proprio per questo è stata fonte di stimoli importanti per chi gli fu vicino. Di qualche pezzo della presenza bolognese di Doglio sono stato partecipe: cercherò di darne testimonianza, ben sapendo che si tratta soltanto di qualche tessera di un mosaico del cui complesso disegno d’insieme soltanto lui teneva le fila..

 

1.Il ritorno a Bologna e il nuovo corso (allora) dell’urbanistica bolognese

Doglio torna ad abitare a Bologna alla fine degli anni ’60 del secolo scorso: sono ormai lontani – e non solo dal punto di vista cronologico – gli anni degli studi universitari, dell’impegno nei GUF e nei Littoriali della cultura, della reclusione a San Giovanni in Monte per antifascismo. In mezzo, a cambiare le cose, ad arricchire e completare la formazione della sua personalità, il periodo della Resistenza a Milano e tutto quello che seguì, dall’immediato dopo-guerra in poi: la partecipazione al movimento anarchico, i viaggi, i lunghi soggiorni a Londra e nel sud, i rapporti con mondi culturali e politici diversi, con personalità come Antonio Banfi, Fortini, Adriano Olivetti, George Douglas Cole, Danilo Dolci, Aldo Capitini,  l’insegnamento a Napoli e a Palermo, la collaborazione professionale con Samonà, le attività giornalistiche, editoriali, sindacali, didattiche, professionali, il matrimonio con Diana e la nascita di Daniele, le collaborazioni più svariate, il filo rosso dell’anarchismo umanitario e non violento che lega tutto, le amicizie, tante, profonde, abbellite da un affetto sincero, alcune delle quali durano tutta la vita.

Quando Doglio torna a stabilirsi a Bologna e ne fa la base principale della propria attività, le linee  della nuova politica comunale, avviata fra la seconda metà degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, che si apre con l’arrivo  di Giuseppe Campos Venuti come Assessore all’urbanistica nella penultima Giunta Dozza (poi sostituito nel 1966 da Armando Sarti, nuovo assessore all’urbanistica nella Giunta diretta da Guido Fanti), sono già state tracciate nei loro tratti fondamentali: il Piano PEEP e la costruzione dei primi grandi quartieri periferici nelle zone di espansione del Piano del 1955, il decentramento amministrativo e l’istituzione dei Consigli di quartiere, il rinnovamento dell’Ufficio Tecnico, il piano di salvaguardia della collina, la variante per il centro storico, l’attività del Piano Intercomunale e lo Schema di pianificazione comprensoriale del 1967, l’incarico per il Centro Direzionale e il progetto di Kenzo Tange, la Variante Generale al PRG che riduce drasticamente le previsioni di incremento demografico ed introduce nuovi criteri di dimensionamento degli standards per i servizi; tutte cose che sono ormai dati di fatto.

Con questa situazione di fermento politico urbanistico (che si svilupperà poi  più compiutamente in seguito con le Giunte dirette da Renato Zangheri: con il PEEP del Centro Storico di Cervellati, la realizzazione del sistema dei Parchi collinari, l’impegno per la scuola dell’infanzia e l’assistenza agli anziani, il piano dell’edilizia scolastica, la costruzione dei Centri Civici di Quartiere fino alla crisi del 1977) si confronteranno il pensiero e l’azione di Carlo Doglio, un pensiero ed una azione che si manifestano come acuta e stimolante presenza critica, rispetto alle impostazioni della sinistra bolognese ed emiliano-romagnola basate sul principio della delega e sulla fiducia che il sistema dei partiti possa rappresentare correttamente la complessa articolazione della struttura sociale .

La dichiarata derivazione culturale di Doglio dalle ricerche biologiche ed ambientali di Patrick Geddes, da quelle di geografia e di partecipazione umana al farsi della società di Eliséo Réclus unite all’insegnamento di Kropotkin come scienziato della pianificazione territoriale, insieme all’affermazione della necessità che i singoli agiscano in modo associato  portando  per intero nell’azione il peso della propria individualità di pensiero, fisica e sentimentale, non può non entrare in conflitto con la rappresentazione che del dinamismo e del conflitto sociale danno le strutture politiche imperniate sui partiti, sulle loro matrici ideologiche, sulle loro ramificate strutture organizzative: una rappresentazione che sembra trascurare la specificità biologica e intellettuale dei singoli, dando luogo così, nella visione di Doglio, a forme di partecipazione alienate o, addirittura, mistificate.

Non furono quindi una vicinanza e un’amicizia facili -quelle con Doglio- per chi della politica urbanistica di quegli anni a Bologna fu in qualche modo protagonista: furono comunque uno stimolo a ripensare di continuo criticamente i risultati e gli effetti sociali delle decisioni e delle modalità della loro assunzione: un spinta, a volte scomoda, a rimettersi in gioco, confrontando continuamente pensiero e azioni con la propria singolare ed irripetibile individualità umana, fisica ed intellettuale

 

2.Doglio e il mondo culturale bolognese

E’ proprio sul finire degli anni ‘60 che Doglio inizia a collaborare con l’IUAV a Venezia (dove, nel 1969, è chiamato da Giuseppe Samonà a fianco di Giancarlo De Carlo nell’Istituto di Urbanistica), e con l’Università di Bologna nel nascente Istituto di Sociologia diretto da Ardigò, alla Facoltà di Scienze politiche, dove continuerà a insegnare fino alla pensione.

Bologna, per Carlo, vorrà poi dire anche il “Mulino” (associazione culturale, rivista e casa editrice che aveva già pubblicato nel 1968 “Dal paesaggio al territorio”) con il gruppo degli intellettuali cattolici e liberali attorno a Pedrazzi; il DAMS di Maldonado e Cervellati; la rivista PARAMETRO con Giorgio Trebbi e la sua  redazione; il rapporto mai venuto meno con il Centro Educativo Italo-Svizzero di Rimini diretto da Margherita Zoebeli, o quello con il vasto mondo anarchico romagnolo; l’amicizia e i collegamenti con Delfino Insolera, con Luciano Anceschi, Giorgio Prodi, Andrea Emiliani, Vittorio Capecchi, poi tutte le altre esperienze, tutte le altre relazioni culturali e interpersonali delle quali la sua vita fu straordinariamente ricca.

Su alcune di queste mi soffermerò avendo avuto modo di parteciparvi direttamente, non tanto o soltanto per ricordare chi fu  Doglio, ma anche perché penso contengano insegnamenti tuttora validi e originali circa un modo abbastanza raro, diretto e “vissuto” di interagire con l’ambiente che lo circonda e con i luoghi da parte di un intellettuale colto e raffinato -con qualche tocco addirittura di snobismo- e, prima di tutto, con il mondo dei giovani e degli studenti, sui quali la sua personalità ha esercitato grande attrazione e incancellabili influenze.

Avevo conosciuto Carlo a Firenze all’inizio degli anni ’60, in occasione di un seminario  organizzato con Cervellati per l’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura diretto da Ludovico Quaroni: volevamo saperne di più delle esperienze di Dolci in Sicilia e venne a parlarcene Carlo; il suo nome lo conoscevo già dai documentari che avevano fatto insieme a De Carlo per la Triennale del 1954 (che Quaroni ci aveva mostrato parlandocene pochi anni dopo come di cose ormai lontane e invecchiate), o dalla lettura di articoli pubblicati sulla rivista del Movimento di Comunità di Adriano Olivetti: ero stato colpito dai contenuti e dallo stile di certe sue inchieste sulle cooperative in Romagna, o dal saggio famoso sulle Città Giardino inglesi con il quale aveva vinto il Premio Aldo Della Rocca.

Ci ritrovammo quindi nel 1970, quando anch’io tornai a Bologna per lavorare di nuovo per l’Ufficio Piano Intercomunale, dopo un biennio trascorso ad Algeri all’Ecole Nationale d’Architecture et des Beaux Arts dove ero andato dopo la conclusione del lavoro di progettazione dello Schema di Piano del 1967: avemmo presto occasione di collaborare all’interno del comitato direttivo della rivista PARAMETRO al quale eravamo stati chiamati a partecipare da Giorgio Trebbi: soprattutto lì, nelle lunghe riunioni nella sede della rivista in Via Tovaglie, nelle discussioni sull’impostazione dei suoi primi numeri, nacque e si consolidò quel rapporto di stima e di amicizia che finì per coinvolgere anche le nostre famiglie: ci si vedeva spesso, a Bologna o a Venezia (dove con De Carlo mi avevano chiamato ad insegnare); frequenti  poi, d’estate, le visite domenicali di Diana e Carlo da noi a Sasso Marconi, insieme alla sorella di Diana e al marito, il fotografo Decio Camera.

A volte capitava che si stesse qualche periodo senza incontrarsi, ma Carlo non mancava mai di avvertirmi per telefono di una sua prossima assenza da Bologna alla vigilia delle partenze per la Sicilia o per l’Inghilterra: mi annunciava con gioia che vi avrebbe ritrovato gli amici di sempre; al ritorno, poi, me ne avrebbe raccontato. Fu così che, ancor prima di incontrarli di persona, ebbi modo di conoscere Urbani,  Culotta, Giuliano Leone,  Romano Lanini.

 

3. I rapporti con la cultura cattolica e i Quartieri

Giorgio Trebbi era stato anni prima, insieme a Glauco e Giuliano Gresleri, protagonista dell’attività dell’Ufficio Nuove Chiese creato dal cardinale Lercaro nell’intento di condurre un’opera di evangelizzazione nelle periferie bolognesi allora in rapido sviluppo: all’attivo dell’Ufficio Nuove Chiese (chiuso dopo il discusso “pensionamento” di Lercaro), la pubblicazione della rivista diretta da Luciano Gherardi “Chiesa e Quartiere”, che fu un importante centro di elaborazione e dibattito culturale sui temi dell’architettura e dell’arte sacre negli anni attorno al Concilio Vaticano Secondo: ma anche la realizzazione di molti edifici religiosi e centri parrocchiali di grande qualità, con la partecipazione di alcuni dei migliori architetti italiani dell’epoca. Ad Alvar Aalto si deve poi il progetto della chiesa di Riola portata a termine più tardi; all’attività dell’Ufficio Nuove Chiese aveva collaborato anche don Giuseppe Dossetti, uno dei leader nazionali della sinistra cattolica fin dall’epoca della Costituente, divenuto prete dopo essere stato il capo dell’opposizione nel Consiglio Comunale di Bologna uscito dalle elezioni amministrative del 1956 nelle quali era stato battuto da Dozza, il mitico sindaco comunista della Liberazione che resterà alla guida del Comune fino al 1965.

Dossetti ha avuto un peso rilevante nel dibattito e nell’esperienza politico- amministrativa e urbanistica della città: nel “Libro Bianco” che costituiva il programma elettorale della D.C. nel 1956, era stata proposta l’idea di una nuova articolazione dell’amministrazione cittadina per “quartieri”, intesa a favorire forme di partecipazione popolare alla gestione della città: le nuove Chiese erano quindi per lui anche uno degli strumenti dell’articolazione della vita democratica della città e non soltanto uno strumento di evangelizzazione di periferie “scristianizzate” – come diceva la cultura cattolica dell’epoca – dal prevalere della cultura marxista; questa idea fu il seme iniziale di quell’esperienza dei “quartieri” che costituirà in seguito uno degli elementi di forza e di maggior risonanza anche internazionale della politica amministrativa bolognese negli anni ’70. Nell’elaborazione del “Libro Bianco” del 1956, che aveva condotto una critica spietata nei confronti del Piano Regolatore bolognese adottato nel 1955, un ruolo fondamentale lo aveva avuto il giovane sociologo Achille Ardigò, che chiamerà proprio Carlo al proprio fianco nell’ Istituto di Sociologia dell’Università. Ardigò che era reduce da soggiorni di lavoro in Basilicata a contatto con il mondo olivettiano in cui era allora attivo Ludovico Quaroni, e con l’ambiente attorno a Manlio Rossi Doria.

Dalla singolare convergenza fra le proposte critiche dell’opposizione cattolica  e la revisione dell’impostazione delle politiche comunali della sinistra che trovò nel Congresso Regionale del PCI del 1959 il proprio punto più significativo di espressione  e nel ruolo assunto all’interno di quel Partito da Guido Fanti (che sarà poi Sindaco dal 1966 al 1970 e, in seguito, Presidente della Giunta regionale), matureranno le condizioni politiche per l’istituzione dei Consigli di Quartiere come strutture di partecipazione popolare alla vita  cittadina.

Doglio sarà attento e critico spettatore/partecipe dell’esperienza bolognese dei Quartieri, partendo dal punto di vista del proprio umanitarismo anarchico e dagli ideali di una “progettazione dal basso” di cui fosse protagonista una  comunità di individualità forti e consapevoli: una visione, come detto prima, che non poteva   trovare soddisfazione all’interno delle gabbie delle sovrastrutture partitiche che finivano per condizionare e limitare il reale potere di autogoverno degli organismi di Quartiere.

Giorgio Trebbi, quando nel 1970 fonda Parametro, invita a far parte del suo comitato direttivo persone di formazione culturale, appartenenze e simpatie politiche diversissime: Glauco e Giuliano Gresleri, Scolozzi e altri provenienti da Chiesa e Quartiere,  Doglio, libero pensatore, anarchico non violento,  Enea Manfredini, ormai storico architetto razionalista e cattolico di specie reggiana, Mario Zaffagnini, docente a Firenze teorico della prefabbricazione per componenti, e altri fino a me, laico e non iscritto ad alcun partito (ma vicino ai partiti della sinistra), che di lì a poco sarei stato chiamato dalla Giunta Zangheri a dirigere l’Ufficio Piano Intercomunale: i primi anni di vita di Parametro furono anni di grande operatività e di confronto aperto di idee; la rubrica “I mostri”, curata da Carlo, divenne subito uno dei principali punti di riferimento della rivista, insieme agli editoriali di Trebbi: pezzi brevi, pungenti, che spesso si mettevano di traverso rispetto ai modi con cui venivano trattati i temi di quello stesso numero della rivista.

“I mostri”, un titolo che ripete quello di una rubrica  omonima scritta a Bagherìa (in opposizione allo scempio che di quella bellissima città andava facendo la speculazione edilizia) ispirandosi alle sculture barocche grottesche che dall’alto dei muri di recinzione di Villa Palagonìa irridono passanti e benpensanti: dagli scritti e dall’impegno di Bagherìa ai corsivi di Parametro, “I mostri” costituirono un acuto e affettuoso collegamento Sicilia-Bologna.

La  collaborazione  di Carlo con Trebbi proseguirà poi negli anni ’80 anche nel Comitato scientifico dell’OIKOS, il centro studi sui problemi dell’abitare, di cui Trebbi fu Direttore e Beniamino Andreatta Presidente. In occasione del Corso “La rinascita della città” organizzato dall’OIKOS nel 1982, Doglio curerà una serie di interviste a docenti del Corso poi trasmesse sulla 3° rete RAI-TV.

 

 

4.Dai tavoli culturali alle tavolate conviviali.

Ho avuto l’opportunità di essere presente a incontri e di svolgere comunicazioni nei suoi corsi all’Istituto di Sociologia (dove fui anche correlatore di alcune tesi di laurea), soprattutto in occasione dei seminari organizzati da Doglio con Umberto Bagnaresi, professore di forestazione ad Agraria, seminari che riunivano studenti di provenienze diverse, da Agraria, appunto, a Scienze Politiche, a Ingegneria e dalle Facoltà di Architettura di Firenze e Venezia..

Carlo mi chiamò  spesso a collaborare alle iniziative didattiche e culturali delle quali era inventore e protagonista. Ho avuto modo così di essere presente ai campi estivi di lavoro del Centro Educativo Italo-Svizzero (CEIS) di Rimini diretto da Margherita Zoebeli, ai quali partecipavano molti dei giovani dell’entourage universitario – e non solo- di Carlo ( è lì che conobbi Flavio Baroni, allora giovane architetto ferrarese, animatore della cooperativa culturale “La Carlina” -una delle tante iniziative delle quali Carlo fu in qualche modo partecipe- e curatore del CD sulla giornata di studi dedicata a Doglio a pochi mesi dalla sua morte).

Doglio si trovava al centro di una rete di relazioni nazionali e internazionali fra persone di diverse culture, professioni, appartenenze politiche: tutti prendevano parte con simpatia e grande spirito di amicizia alle sue iniziative: fu così che a Bologna si incrociavano spesso Henri Lefebvre, Manuel Castells, Giancarlo De Carlo, i Samonà, Giuseppe e Alberto, Egle Trincanato, Leonardo Urbani, i vecchi amici inglesi, quelli più giovani del sud, Culotta, Leone, Lanini, e gli altri amici bolognesi di sempre, Anceschi, Delfino Insolera, Cervellati, Emiliani, Ardigò; dovunque poi, nelle aule universitarie o nelle salette delle trattorie che amava frequentare, i gruppi mutevoli degli studenti che gli erano più vicini e lo seguivano affascinati per il suo modo di relazionarsi con gli altri, per le occasioni anche informali di nuove conoscenze e di possibilità di espressione che lui offriva loro.

Negli ultimi anni, dopo il pensionamento, i cicli di incontri che Doglio organizzò con il patrocinio dell’Accademia Clementina (l’antica e prestigiosa istituzione diretta da Andrea Emiliani), fra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, nella sala del Palazzo dei Notai in Piazza Maggiore, furono occasioni importanti per discutere del futuro della città, tanto più importanti perchè a Bologna erano venute meno sedi culturali o istituzionali come l’INU o i Quartieri che erano state attivi centri di dibattito negli anni ’70.

Questa, molto in sintesi, la mia testimonianza personale, sugli anni della presenza di Doglio a Bologna, sul suo modo di fare parte della vita culturale della città, sul suo modo di contribuire alle riflessioni che si stavano facendo a proposito delle relazioni fra la città fisica e la città come luogo di aggregazione, di convivenza, ma anche di scontro sociale, sui modi di amministrarne lo sviluppo. Erano gli anni che ora forse vediamo in maniera un poco mitica (ma forse è soltanto perché allora eravamo giovani) delle esperienze urbanistiche bolognesi più note del dopoguerra: il Piano per la Collina, il Piano e il PEEP del Centro storico, il Piano Intercomunale, i Quartieri e i tentativi di urbanistica partecipata.

Non furono sempre facili i rapporti con Carlo che non nascondeva mai le proprie opinioni, qualche volta anche fortemente critiche, su ciò che si stava facendo: le sue analisi e i suoi giudizi, espressi con grande franchezza e senza timori reverenziali, qualche volta risultavano imbarazzanti, proprio perché partivano da punti di vista diversi, spesso divergenti, rispetto a quelli di chi era occupato nelle cose avendone responsabilità amministrative o risentendo di vincoli di appartenenze o anche soltanto di vicinanze politiche. Per chi si è occupato di urbanistica in quegli anni a Bologna sia a livello tecnico-professionale che politico-amministrativo, il rapporto con Doglio, con i suoi scritti, con le sue opinioni, con le sue iniziative culturali, costituiva però sempre uno stimolo a ripensare criticamente ciò che si stava facendo, così come era stimolante  quel suo  tenere sgombro il linguaggio scritto e parlato dal periodare accademico o dal “politichese” in voga al momento, per avvicinarsi spesso ad una sorta di ermetismo poetico messo in prosa (che aveva il proprio corrispondente “figurativo” nei quasi incomprensibili geroglifici degli appunti).  Un rapporto non comodo, che impediva di crogiolarsi in veri o presunti risultati positivi raggiunti, o nelle lusinghe del grande (ed eccessivo) successo internazionale che le iniziative bolognesi avevano in quegli anni nel mondo di chi si interessava di urbanistica.

Altri aspetti significativi della personalità di Carlo che mi sembra giusto ricordare, riguardano il versante conviviale del suo carattere e l’importanza del ritrovarsi “a tavola” nel suo modo di rapportarsi con gli altri e, infine, l’attitudine al divertimento e al gioco che con lui non veniva mai meno: le cene settimanali nelle quali si riuniva il gruppo degli amici più vicini, il fantomatico “Circolo Luigi Pistrigoni” nome di sua invenzione che fa rima con i “paroloni” ricordati nella lapide affissa nella saletta della trattoria dietro l’Istituto di Sociologia dove i suoi presunti soci si riunivano, non erano fatti accessori, qualcosa in più, accanto o dopo le cose importanti; erano anch’esse espressione del suo modo di “esserci”, di far parte della città reale. Come gli sberleffi dei Mostri appollaiati sul recinto di Villa Palagonìa, quella lapide guardava gli astanti e irrideva dall’alto le loro smanie, il loro voler apparire, mondano o intellettuale, il loro parlare, parlare…: ma lo faceva senza pompa o alterigia, partecipe, con simpatia, della tragicomica festa della vita.

 

5.Paesaggio e territorio: Doglio e il Parco “Prati di Mugnano”.

C’è un’esperienza concreta di pianificazione di quegli anni che servì a consolidare la solidarietà e il feeling con Carlo e a farmi capire meglio cosa intendesse con la parola “paesaggio”.

Dopo il Piano della collina del 1969, il Comune di Bologna aveva svolto una importante politica di acquisizione di terreni agricoli nella collina di Bologna e nei comuni contermini: 6 nuovi  parchi di notevoli dimensioni, per una superficie complessiva di oltre 4 milioni di metri quadri, vennero aperti al pubblico nel triennio 1973-1975: fra questi, il più grande di tutti, il Parco “Prati di Mugnano” nel territorio del Comune di Sasso Marconi.  Fui coordinatore di quel progetto, che mise a punto e diede concretezza operativa ad una formula gestionale che venne poi applicata anche alla realizzazione degli altri parchi e derivava dall’idea elaborata negli anni precedenti di mettere insieme le politiche  del verde pubblico con quelle del rilancio della produzione e dell’occupazione in agricoltura, della difesa del paesaggio agro-forestale, della tutela idrogeologica dei territori collinari, della forestazione, dell’uso agrituristico ed educativo del patrimonio ambientale.

Nacque così quella particolare categoria di verde pubblico che chiamammo dei Parchi agricolo-naturali: la loro gestione veniva affidata non più a giardinieri dipendenti dai Comuni ma a cooperative bracciantili alle quali i terreni venivano affidati in cambio dei servizi di sistemazione e manutenzione delle parti più propriamente destinate all’uso pubblico, mentre sul restante territorio continuavano o venivano attivati usi agro-silvo-pastorali: proprio questa formula consentì di abbassare drasticamente i costi di realizzazione e di gestione del verde pubblico. Gli usi agro-turistici (soprattutto la gestione dei punti di ristoro e di vendita diretta dei prodotti agricoli) e quelli legati alla tutela idrogeologica e del patrimonio forestale, fornivano poi quell’integrazione di reddito necessaria per assicurare una reale vitalità economica alle aziende agricole collinari intrinsecamente meno produttive di quelle della vicina pianura. Tutto questo consentì la costituzione di un così grande numero di parchi di grande superficie in breve tempo: un’esperienza innovativa per quell’epoca (anche dal punto di vista delle metodologie della progettazione) che suscitò grande interesse anche a livello internazionale, tanto che per molti anni il Parco Prati di Mugnano è stato meta di viaggi di studio da parte di Istituti universitari stranieri che si occupavano di pianificazione territoriale e luogo di soggiorni di vacanza-lavoro per gruppi giovanili.

Doglio, costituzionalmente diffidente verso qualsiasi iniziativa che nascesse dalle istituzioni, fu in quel caso affascinato dal fatto che il tutto fosse stato messo in moto inizialmente dalla spinta dei braccianti dell’azienda agricola pre-esistente che i proprietari intendevano mettere in liquidazione per venderne i terreni e le case sul mercato immobiliare (siamo a circa venti chilometri dal centro di Bologna in una situazione di grande qualità paesaggistica); poi dal fatto che quegli stessi operai agricoli fossero diventati i protagonisti attivi di questa nuova fase della vita dell’azienda agricola; da ultimo, credo, da questo fortunato e purtroppo raro incontro avvenuto fra ipotesi teoriche di pianificazione territoriale e movimenti sociali reali: un esempio riuscito di quel binomio “pensiero-azione” da sempre teorizzato ed inseguito da Carlo.

Doglio partecipò attivamente alla vita e alla crescita di quella esperienza, ne fece terreno di studio per i suoi studenti (fra questi Letizia Montalbano laureatasi proprio con una tesi sul movimento cooperativo nella collina bolognese della quale fui correlatore); elesse il posto di ristoro del Parco a sede di incontri periodici conviviali, divenne personaggio conosciuto e amico di operai e dirigenti della cooperativa: una grande sintonia si verificò con l’allora presidente della Cooperativa “Vittorio Marzolini” -che allora gestiva il Parco- Benito Ferrarini, uno dei leader del movimento bracciantile agricolo bolognese nel secondo dopoguerra al quale verrà poi intitolata la scuola di Agraria di Sasso Marconi.

Ho capito allora meglio, nel fare, in cosa consistesse questo passaggio dal paesaggio al territorio: questo interesse che avevamo in comune per un paesaggio che non si risolve nel suo esclusivo aspetto visivo, quasi svuotato da quei contenuti di vita e di lavoro umani che ne intessono e danno sostanza alla realtà della sua figura e della sua evoluzione storica.

Ciò che ci univa era proprio l’interesse per questo paesaggio fatto di terra, di donne, di uomini e di cose: uomini e donne di carne ed ossa, con le loro passioni, le loro aspirazioni, i loro sogni di riscatto, con i piedi piantati in “quel” territorio concreto, di cui si vive e si trasforma la natura, dove si lavora, si producono le “cose”, si soffre, si ama, si fa festa, ci si forma insieme e insieme se ne in-forma il paesaggio.

 

(Queste note riprendono e cercano di chiarire meglio in qualche punto il testo dell’intervento svolto nel 2005 a Palermo e Bagherìa durante il Convegno dedicato a Doglio organizzato insieme a Pasquale Culotta, Nicola Giuliano Leone e Letizia Montalbano: in quell’occasione venne intitolata a Carlo Doglio una piazzetta nell’immediata periferia di Bagherìa )

 

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Category: Editoriali, Politica

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