E’ morto Riccardo Terzi un amico e un collaboratore di “Inchiesta”

| 12 Settembre 2015 | Comments (0)

 

 

Nella notte dell’ 11 settembre appena passata è morto a Milano Riccardo Terzi un caro amico e un collaboratore assiduo di “Inchiesta” . Lo ricordiamo con una sua bella immagine di alcuni anni fa e con due suoi articoli, tutti pubblicati in www.inchiestaonline.it. Nel secondo di questi interventi Riccardo aveva scelto come immagine quella del viaggio. E’ vero, Riccardo, siamo in viaggio ma, senza di te, è un viaggio in cui ci sentiremo più soli. Un abbraccio.

 

1. Riccardo Terzi : La democrazia nel sindacato

(in www.inchiestaonline.it 1 aprile 2015)

La democrazia ha subito uno strano destino: nata come l’irruzione delle energie vitali della società civile nello spazio della politica, sembra oggi capovolgersi nel suo opposto, in un rispetto solo formale e astratto delle regole e delle procedure. Da forza di cambiamento diviene forza di conservazione, e ciò è il segno evidente della sua decadenza e del suo svuotamento.

Tutta la storia  della nostra modernità può essere letta come la dialettica mai del tutto ricomposta tra le due polarità della vita e della politica, della libertà e dell’ordine, del movimento dal basso e della regolazione dall’alto, e il tratto specificamente moderno di questa dialettica sta nel fatto che essa si svolge all’interno di un grande processo collettivo, nel quale è in gioco la dimensione di massa della società. La grandezza e la tragedia del Novecento è nell’estrema radicalità di tutto questo movimento, con tutte le ambiguità e le complicità tra spinte democratiche e spinte autoritarie. Massa e potere sono le due forze in campo, che si fronteggiano e si combinano nelle forme più svariate.

Oggi stiamo assistendo ad un processo di restaurazione dell’ordine politico, e non a caso è la governabilità, la manutenzione tecnica del sistema, l’unica bussola che viene tenuta. E la democrazia stessa viene piegata a questa logica stabilizzatrice.

I partiti politici, nati come i canali di scorrimento dal sociale al politico, sono oggi gli strumenti di un intrappolamento, che impediscono, alla radice, l’esercizio della democrazia come pratica sociale di massa. Vita e politica sono del tutto divaricate, incomunicanti.

Occorrerebbe un grande lavoro di mediazione, ricostruendo pazientemente i fili di una comunicazione tra la sfera sociale, con il suo insopprimibile pluralismo, e la sfera istituzionale,  ma al contrario si lavora per una sistematica distruzione di questi fili, e tutto il disegno delle riforme istituzionali, questo grande mito retorico intorno al quale ruota il dibattito pubblico da oltre vent’anni, non è altro che il tentativo di una estrema concentrazione del potere, liberando finalmente il campo da tutta la rete dei poteri intermedi.

Non c’è dunque, come si vorrebbe far credere, nessun progetto di “liberazione” delle energie vitali della società, ma c’è solo un discorso retorico, con tutta la sua mitologia della velocità, del cambiamento e del coraggio, dietro il quale c’è solo la cruda logica della competizione per il potere. La retorica consiste appunto in questa tecnica di rovesciamento dei significati, e per questo occorre un’operazione di bonifica del linguaggio, ed è un buon criterio quello indicato da Papa Francesco, per cui “dietro ogni eufemismo c’è un delitto”, il che vuol dire che dobbiamo liberarci di tutta la zavorra della corrente ipocrisia.

In questo contesto, nel mezzo di uno sconvolgimento sociale a cui la politica non sa offrire nessuna risposta, dobbiamo domandarci se abbia un senso, e quale, tutto il discorso concentrato sulla contrapposizione di politica e antipolitica, tutta quella rappresentazione delle cose che spinge ad una difesa delle istituzioni, così come sono, contro le ondate irrazionali delle varie forme di populismo. A me sembra una chiave di lettura del tutto deviante.

Ciò che si dice antipolitica è quel groviglio vitale ed esistenziale che reclama di essere riconosciuto e rappresentato, e vedere in questo magma di sofferenza e di rifiuto solo il lato eversivo e distruttivo è l’errore tragico che stiamo compiendo, spingendo così ad una estrema contrapposizione le ragioni della politica e quelle della vita vissuta, con una spaccatura verticale che invade tutte le fibre più delicate del nostro organismo.

Mi sembra essenziale questo sguardo d’insieme sulla nostra condizione presente per chiarire qual’è la vocazione del sindacato e quale il suo approccio al tema della democrazia.

La mia tesi di fondo è che il sindacato non abita nelle sfere della politica, ma sta tutto immerso nella materialità delle condizioni sociali, e per questo il suo rapporto con la politica è sempre un rapporto di sfida e di conflitto, e oggi è più che mai evidente che parliamo di due diversi mondi, ciascuno con la sua logica, e che pertanto non ci possono essere commistioni o sovrapposizioni. La sfera d’azione del sindacato è quella dei mondi vitali nei quali prende forma il nostro essere come persone, dentro una determinata rete di relazioni sociali: il lavoro, la comunità, il territorio.

In questo, la rappresentanza sindacale si discosta radicalmente da quella politica, perché essa rappresenta non un punto di vista sulla realtà, ma la realtà stessa, non una opinione, o un’ideologia, ma una condizione, e per questo essa è per sua natura radicale, perché affonda nelle radici materiali della vita delle persone.

Tutto ciò richiede uno spostamento assai deciso del baricentro organizzativo dall’alto verso il basso, richiede cioè prossimità, vicinanza, continuo e reciproco interscambio tra il rappresentante e il rappresentato, in una logica che appare del tutto rovesciata rispetto alla verticalizzazione che è propria della politica.

Democrazia, per il sindacato, non è altro che questa aderenza alla realtà, questa capacità di rispecchiamento delle concrete condizioni di vita e di lavoro. Qui non c’è nessuna scissione di vita e politica, ma c’è la vita collettiva che si autorganizza.

Il modello democratico ottimale resta quello dei consigli, dove il delegato è l’espressione diretta del gruppo omogeneo, e non c’è propriamente “delega”, ma rapporto fiduciario, affidamento, all’interno di una comune condizione.

Questa è stata la grande forza di quella stagione, perché si stabiliva una totale osmosi tra movimento e organizzazione, e la decisione non veniva dall’alto, o dall’esterno, ma dentro una comune pratica collettiva. Penso che dobbiamo tendere ad avvicinarci il più possibile a questo modello, anche se le condizioni generali sono profondamente mutate, e soprattutto è cambiata la struttura produttiva, e vanno quindi necessariamente sperimentate nuove soluzioni.

Ma ciò che conta è la logica del sistema: se è un sistema incardinato sui lavoratori, o sull’organizzazione, se al centro sta la rappresentanza sociale o viceversa il pluralismo delle appartenenze politico-organizzative.

Le Rsu sono oggi a cavallo tra queste due diverse logiche, ma nulla impedisce che la Cgil, anche in modo unilaterale, scelga per una opzione di tipo “consiliare” ad esempio con primarie aperte a tutti i lavoratori per la scelta dei propri candidati, e con un investimento totale di fiducia nel ruolo contrattuale delle rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro.

I punti più controversi del Protocollo unitario possono così essere, almeno in parte, aggirati con una dichiarazione di intenti che ci impegna a garantire e rispettare il carattere democratico di tutto il sistema. Ma, al di là degli aspetti formali, ciò che conta è la chiara percezione della drammatica crisi sociale e democratica che si è aperta, nella quale tutte le domande di partecipazione non trovano sbocco e rischiano quindi di implodere, e di produrre solo un accumulo impotente di rabbia e di estraneazione.

Anche il sindacato è messo direttamente in gioco, e non può eludere il tema di una sua radicale riforma e democratizzazione.Come, con quale percorso, con quali innovazioni?

Nel sindacato convivono sempre due momenti, quello della rappresentanza democratica, e quello della stabilità organizzativa, il suo essere movimento e il suo essere istituzione. Ma ad un certo punto il peso della struttura burocratica rischia di essere il fattore dominante, dando vita ad una struttura verticalizzata e gerarchica che si frappone ad ogni serio tentativo di innovazione e di sperimentazione.

Accade così che la solidità della struttura organizzativa cessa di essere un punto di forza, di tenuta, e diviene un fattore di inerzia che deve essere superato. Io credo che ci troviamo esattamente in questo passaggio.

Possiamo allora lavorare sulla rete democratica esistente, sui delegati nelle Rsu, e farne il centro di un nuovo tipo di equilibrio, affidando a questa rete le scelte strategiche fondamentali e anche un ruolo primario nella selezione dei gruppi dirigenti, ai diversi livelli.

Le figure di vertice, di categoria o confederali, anziché essere il risultato delle mediazioni inter-burocratiche, potrebbero essere legittimate da una investitura democratica che viene direttamente dalla rete dei delegati. Naturalmente, occorre anche costruire nuove forme di rappresentanza nel territorio, per i pensionati, per l’area del lavoro precario, per le piccole imprese.

E occorre soprattutto un sistema di governo che sia il più possibile decentrato e articolato, senza inseguire il miraggio della leadership carismatica, la quale produce, come dice Max Weber, una sorta di “proletarizzazione spirituale”. In ogni caso, mi sembra indispensabile una nuova ventata democratica, alimentata non dallo spirito gregario, ma dalla partecipazione consapevole, per portare alla ribalta una nuova generazione di quadri dirigenti, se vogliamo scongiurare una possibile prospettiva di declino.

Non basta dire che le regole ci sono, che le procedure congressuali sono rispettate, che migliaia di iscritti sono coinvolti nel processo decisionale, perché è proprio questo attuale modello che lascia aperto un vuoto e lascia irrisolti i nodi di fondo della nostra legittimazione democratica. La prossima Conferenza di Organizzazione può essere una occasione per discuterne.  Ma la discussione, per essere davvero efficace, deve andare alla radice del problema. In un mondo che cambia così velocemente e drammaticamente non possiamo fermarci a metà strada.

Intervento al seminario del 30 gennaio 2015 a Lecco promosso dalla Fondazione Pio Galli

 

 

 

 

2. Riccardo Terzi: La forza del nostro viaggio

in www.inchiestaonline.it 30 aprile 2014

 

Abbiamo scelto l’immagine del viaggio per rappresentare la nostra storia e il nostro lavoro. Il Congresso è una tappa di questo viaggio, un momento di passaggio in cui raccogliere le forze e le idee per il prossimo futuro. Ma spesso accade di essere deviati da più contingenti considerazioni, personali o di gruppo, e allora si resta intrappolati nell’infinito gioco degli equilibri e delle convenienze burocratiche. E’ un errore che non ci possiamo permettere. Nel momento in cui siamo chiamati ad una sfida molto alta ed arrischiata, diviene indispensabile coltivare il senso della responsabilità collettiva, riconoscendo le differenze e facendole agire dentro una cornice unitaria. Nessuno scostamento da questa regola ci sarà perdonato. L’unità di cui abbiamo bisogno non ha nulla di retorico, ma è il faticoso lavoro di sintesi in cui tutte le unilateralità e tutte le parzialità vengono scongelate. Questa è la sfida del Congresso: portare la nostra unità ad un livello più alto, e tenere aperto il dialogo e la collaborazione con Cisl e Uil.

“La forza del nostro viaggio”: in questa formula si racchiude tutto il senso del nostro agire sindacale, del nostro essere una comunità dotata di senso, di identità e di progetto. Siamo in viaggio, verso dove? La risposta non è affatto scontata, perché la società in cui viviamo è segnata dall’incertezza ed è attraversata dall’inquietudine. Non funziona più l’idea di un movimento storico tutto ascendente e progressivo, di un cammino che è già tracciato, incerto solo nei suoi passaggi, ma sicuro nel suo esito finale. E’ la stessa idea di progresso che è divenuta estremamente problematica, e all’orizzonte sembra stagliarsi non il regno della libertà ma il dominio della tecnica. Il nostro viaggiare è un movimento verso l’ignoto, è un processo aperto agli esiti più diversi, e il risultato è affidato alla libera combinazione delle forze che agiscono e che confliggono in questo spazio aperto.

In questo contesto di incertezza, se non vogliamo essere trascinati passivamente dal corso delle cose, dobbiamo affinare e rendere trasparente la nostra soggettività, l’intenzionalità del nostro agire. E abbiamo bisogno, per trovare un filo conduttore, di riscoprire le nostre radici, di attualizzare la nostra storia e la nostra memoria. E’ in questo legame di passato e futuro che diamo forma alla nostra identità. Possiamo allora affrontare le ondate della crisi attuale senza restare schiacciati da un senso disperato di sconfitta, decidendo di essere non dei reduci, dei testimoni di un tempo tramontato, ma degli sperimentatori, dei costruttori di un nuovo ordine sociale. Se siamo sfidati, dobbiamo accettare la sfida, e guardare in faccia la realtà, senza rimpianti e senza rassegnazione.

E’ oggi di moda il culto della velocità, il misticismo dell’intraprendenza e della decisione. Matteo Renzi, che occupa con successo il centro della scena politica, è l’emblema di questa religiosità del fare, del fare tutto e presto. Ma restano irrisolte due domande: verso dove stiamo correndo, verso quale modello sociale, e chi decide la direzione di marcia, dove sta il luogo della decisione, in un processo democratico allargato o in un ristretto centro di comando. A me pare che sia in atto una violenta torsione della vita politica, con il passaggio dalla logica della rappresentanza a quella della governabilità. La politica, se cosi ancora possiamo chiamarla, si riduce all’osso, al nucleo duro della competizione per il potere. Prosciugate e devastate le tradizionali identità, conta solo l’imperativo di vincere, e a questa lotteria per il potere partecipano con pari entusiasmo la destra e la sinistra politica.

Tra la sfera sociale e quella politica si apre cosi un fossato, e si mette in moto una dialettica aspra, tra il modello decisionista e quello partecipativo, tra il potere e la rappresentanza. Tutto il tema dell’autonomia assume allora una nuova radicalità, e dobbiamo saper agire in un contesto del tutto nuovo, come una potenza sociale che non ha sponde politiche a cui appoggiarsi, e che può contare solo sulle proprie forze. Troppe volte ci siamo lasciati irretire nelle tortuosità della politica, finendo per apparire come un anello del sistema di potere. Il nostro è un viaggio nel sociale, nelle sue contraddizioni e nelle sue sofferenze, cercando di scavare anche in quel sottosuolo emotivo e rabbioso che prende le forme dell’antipolitica. La nostra parola non può essere quella dell’ufficialità istituzionale, ma quella dell’incontro con le persone reali e con il loro vissuto concreto.

Per questo, abbiamo bisogno di un nuovo modello organizzativo, perché l’attuale struttura accentrata, verticale e gerarchica non è in grado di intercettare tutta la complessa irrequietezza del tessuto sociale .

Dobbiamo spostare il baricentro verso il basso, e prendere sul serio la scelta del territorio come il luogo di una nuova sperimentazione sociale, e dobbiamo aprire la strada ad una nuova generazione di quadri, premiando l’autonomia e non l’obbedienza, l’innovazione e non la continuità, il lavoro di frontiera e non la corsa ad occupare le posizioni di vertice.

Nell’analisi critica che dobbiamo fare su noi stessi, il metro di misura è quello dell’efficacia, e dobbiamo allora interrogarci sulle ragioni dello scarto che si è aperto tra gli obiettivi e i risultati, sulla scarsa capacità di incidere nei processi reali. E’ questo il segno inquietante di una incipiente burocratizzazione, nel momento in cui si offusca il rapporto tra il mezzo e il fine, e su tutto prevale la stabilità della struttura organizzativa. Per sbloccare questa situazione, occorre agire sia dal basso che dall’alto, con l’energia di una forte spinta democratica, e con la costruzione di un gruppo dirigente che sia in grado di guidare il processo di cambiamento, mettendo cosi in una relazione feconda il momento della spontaneità e quello della direzione.

All’immagine del viaggio abbiamo associato il concetto della forza. E la strategia è esattamente questo: accumulo di forza, spostamento degli equilibri, conquista di una posizione egemonica. La forza non la misuriamo al nostro interno, ma nel nostro rapporto con tutto ciò che sta fuori dai nostri confini. Questa è la confederalità: non una prerogativa burocratica che è riservata al gruppo dirigente centrale, ma la capacità di tutto il corpo del’organizzazione, in ciascuna delle sue articolazioni, di avere uno sguardo aperto sul mondo che sta fuori di noi, partendo dalla nostra parzialità, ma declinandola da un punto di vista generale, universale, per essere cosi una forza propulsiva di tutto il processo democratico.

E oggi, nel mezzo di una tumultuosa trasformazione, abbiamo un bisogno estremo di questa visione allargata, per cogliere e rappresentare il processo sociale in tutta la sua complessità, per entrare in relazione con le nuove domande, con le nuove soggettività, con tutto ciò che si muove nella società reale. Non siamo affatto destinati all’isolamento e all’irrilevanza, perché c’è tutto un vasto territorio sociale che può essere dissodato, e c’è un tessuto democratico non ancora spento che attende di essere rivitalizzato. La forza dello Spi è nel suo essere lo strumento di un presidio democratico del territorio. Nel processo dell’invecchiamento, sia sociale che individuale, si rispecchia il livello di civiltà del paese, la sua qualità sociale. E’ un grande tema politico, perché si tratta di riprogettare i tempi e gli spazi che regolano la nostra vita collettiva, ma su questo versante non si vede all’opera nessuna velocità dell’iniziativa, ma una totale rimozione. Nel modello della società ipercompetitiva, gli anziani sono destinati ad essere solo un residuo marginale. Ecco quindi che l’oggetto della nostra contrattazione assume un rilievo generale, perché si tratta della qualità della vita, per tutti, e della pienezza della cittadinanza, con pari diritti e doveri per tutte le generazioni, in un rapporto di scambio e di dialogo tra giovani e anziani.

Non c’è nulla di corporativo nella nostra impostazione. Possiamo forse dire che noi siamo gli eredi della grande politica, il luogo in cui è ancora possibile la passione delle idee, dove non c’è scissione tra l’agire e il pensare, e possiamo ambire ad essere un luogo di saggezza, un punto di equilibrio e di responsabilità nella vita della Cgil.

Infine, il viaggio è un’esperienza collettiva, è il “nostro” viaggio. E’ utile ricordarlo in questa epoca di narcisismo dilagante, talora arrogante e talora patetico, nel quale l’individuo finisce per essere del tutto svuotato. Il nostro lavoro è la ricostruzione della socialità, delle legature sociali, per dare un’anima allo spazio comune della nostra convivenza. L’identità è viva se sa accogliere e integrare le differenze, mentre all’opposto dalla chiusura e dall’intolleranza si producono identità morte. Noi dobbiamo essere i portatori di un’identità vivente, nella quale ciascuno si realizza dentro una rete allargata di relazioni, e allora il nostro viaggio diventa il cammino di una società intera, che cerca di uscire dalla crisi e di ritrovare il senso di una comune appartenenza.

 

Category: Editoriali

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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