E’ morto a Parigi il 10 aprile 2013 Raymond Boudon
E’ morto a Parigi il 10 aprile 2013 Raymond Boudon che mi ha fatto conoscere Paul Lazarsfeld (abbiamo curato le sue opere io in italiano e lui in francese) e che è stato condirettore della rivista Quality and Quantity che ho fondato nel 1966. Raymond è stato l’amico che mi ha introdotto nella sociologia francese (ha ad esempio curato nel 1964 il francese di uno dei miei primi saggi di metodologia: “Une méthode de classification fondè sue l’entropie”, Revue Francaise de sociologie, n.3 pp.290.306). Lo ricordo insieme a Lazarsfeld a Parigi per le strade di una primavera più di cinquanta anni fa. I suoi libri di metodologia ( L’inégalité des chances, Effet pervers et ordre social, La place du desordre, L’arte de se persuader, Le giuste et le vrai, Les sens de valeurs) mostrano sempre una grande intelligenza ed ironia. Era l’avversario dichiarato di Pierre Bourdieu: Raymond rappresentava la destra liberale e Bourdieu la sinistra che parlava di sociologia come arma di combattimento. Oggi, nel ricordare quegli incontri scontri, ricordo soprattutto la felicità di quelle passeggiate per Parigi con Raymond e PFL che ci osservava con simpatia fumando i suoi sigari avana nella ricerca di un bistrot dove bere qualche aperitivo o bicchiere di vino.
Riporto dal bollettino dell’Università di Trento questo testo di Salvatore Abruzzese scritto dopo che Raymond aveva tenuto in quella università una lezione su “Il relativismo nei valori”
1. Salvatore Abruzzese: Raymond Boudon e i valori. Il sociologo francese ospite a Trento
L’interesse per Raymond Boudon deriva solo in parte dalle opere che ha scritto. La sua proposta dell’individualismo metodologico potrebbe essere schematicamente riassunta nella necessità per la ricerca sociologica di riconoscere all’attore sociale quei margini di interpretazione della situazione così come questa gli si presenta nel contesto sociale, e con le possibilità di soluzione che gli sono offerte dalla struttura che la caratterizza. Riconoscere tuttavia all’individuo dei margini di autonomia nell’interpretazione della situazione, vuol dire ammettere l’impossibilità di ridurre la sociologia alla sola conoscenza dei condizionamenti sociali. Questi, pur restando presenti, cessano di essere il nocciolo della comprensione sociologica. La sociologia studia sì la coercizione delle strutture sociali – comunque intese – sui singoli soggetti, ma solo in quanto elementi del contesto che non bloccano il comportamento dei singoli soggetti sociali nella situazione specifica in cui sono inseriti. I fenomeni sociali perdono così la loro caratteristica di fatti, non sono cioè un dato “esterno e coercitivo” rispetto all’agire dei singoli attori, bensì la sommatoria delle azioni sociali di questi ultimi, azioni la cui logica deve essere compresa attraverso un percorso analitico che ricostruisce tanto i condizionamenti del contesto (environnement) quanto le caratteristiche della struttura del sistema di interdipendenza. La presa di posizione di Boudon è tanto più dirompente quanto più non parte da assunti di carattere ontologico, né da presupposti normativi, ma si appoggia su di una nutrita serie di ricerche empiriche, svolte in gran parte nel mondo anglosassone, ricerche delle quali mostra la fecondità una volta rilette nella chiave dell’individualismo metodologico. Ne consegue che Boudon non è affatto un assertore della libertà del soggetto dinanzi ai condizionamenti sociali, bensì un sostenitore, su di un piano puramente metodologico, della necessità di mettere in bilancio l’autonomia relativa ma inaggirabile della quale il soggetto gode e che sola permette di comprenderne l’agire sociale una volta rintracciati vincoli e condizionamenti sociali.
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Ammettere che il comportamento degli attori sociali non si riduce alla sommatoria delle coercizioni esercitate su di essi ha delle conseguenze estremamente pesanti. In primo luogo un’intera tradizione sociologica fondata sullo studio dei condizionamenti sociali, tesa a mostrare il peso delle strutture economiche, ma anche di quelle politiche e culturali, nel controllare ed a volte annullare la libertà del soggetto, è condannata ad essere, di fatto, puramente descrittiva in quanto si preclude l’ultimo passaggio logico, quello che consiste nel rintracciare la logica degli attori, le loro scelte concrete all’interno dei diversi condizionamenti. La tradizione sociologica che vede la sociologia come elemento di critica sociale, come rilevazione degli intralci e dei vincoli che comunque gravano sul soggetto e ne minano la libertà, conserva il proprio intento critico e la propria legittimità scientifica ma perde completamente la propria capacità esplicativa; per Boudon infatti non si capisce perché il singolo soggetto non sarebbe in condizione di comprendere i condizionamenti che lo vincolano e ci vorrebbe il sociologo per spiegarglielo. In secondo luogo, a ben vedere, è anche la stessa prospettiva sistemica che perde peso e centralità: che senso ha infatti disegnare le macro strutture, sforzarsi di capire i processi di interazione tra queste, produrre una teoria generale di qualsiasi tipo quando la migliore sociologia, in buona sostanza, non nasce che a partire dallo studio di fenomeni sociali specifici? Quando il punto d’arrivo non può essere che a) tanto la spiegazione delle logiche degli attori sociali la cui sommatoria ha dato vita al fenomeno stesso quanto, in seconda istanza e come ricaduta epistemologica, b) la costruzione di modelli interpretativi, utili strumenti d’indagine e di rappresentazione sintetica delle logiche degli attori sociali.
L’interesse per la sociologia di Raymond Boudon deriva quindi in primo luogo dal carattere dirompente di una proposta metodologica che va a disinnescare la significatività scientifica tanto della tradizione di studi sul condizionamento sociale, quanto della sempre ricorrente tentazione a produrre teorie generali sul “come funziona” la società. Al posto della prima e della seconda si costruisce una sociologia di impostazione weberiana, tesa a comprendere l’agire degli attori sociali e, attraverso questa, la spiegazione dei fenomeni concreti visti come semplici effetti emergenti.
Ma in che misura l’agire degli attori sociali è comprensibile? Fin quando si tratta di un atteggiamento orientato all’utilità pratica, a breve, medio o lungo termine sicuramente una tale comprensione è possibile.
Ma quando si esce fuori dai parametri dell’utilitarismo la comprensione si fa sicuramente più opaca: come comprendere l’agire razionale rispetto ad un valore se non attraverso i condizionamenti sociali operati da una rete di credenze ereditate e di nuovo condivise? E se così fosse, che senso avrebbe comprendere il singolo soggetto astrattamente inteso? Non sarebbe forse più fecondo studiare le credenze in quanto tali, colte nella loro genesi storica e nelle loro implicazioni con i diversi contesti sociali, visto che i soggetti sociali non fanno che assumerle dall’ambiente e interiorizzarle? Ma una tale scelta non implicherebbe la liquidazione pura e semplice di ogni “individualismo metodologico”? In realtà per Raymond Boudon il soggetto non delega mai alla propria razionalità: valori e credenze non sono mai fatti propri in modo causale, ma passano costantemente sotto un giudizio di ragionevolezza in virtù del quale i soggetti trovano “giusta” una determinata credenza. L’analisi di Boudon si fa estremamente provocatoria quando arriva a dire che il percorso di significatività logica in virtù del quale un soggetto trova giusta una credenza non è affatto dissimile da quello in conseguenza del quale trova “vera” una teoria. Il mondo di ciò che è “giusto” non è fondato sull’anarchia dei sentimenti e non conosce gli steccati dei recinti delle diverse culture più di quanto non lo conosca il mondo di ciò che è “vero”.
Ma se si ammette questo i valori non sono dei centri di significatività variabili all’infinito; ammettere una prossimità tra il percorso di appropriazione di un valore e quello di riconoscimento di validità di una teoria, significa postulare un universalismo dei valori esattamente come non si esita un istante a decretare l’universalità di una teoria. Il corrente “relativismo” dei valori, per converso, si rivela altrettanto illogico di quanto non possa esserlo un “relativismo” delle teorie di verità. Ed è su quest’ultimo aspetto, il più stimolante, che si è svolta la conferenza nella Facoltà di Sociologia.
Senza voler tentare qui nessuna sintesi che risulterebbe comunque schematica e liquidatoria (tanto vale la pena rinviare all’ultimo testo di Raymond Boudon: Le sens des valeurs¸ Paris, P.U.F. 1999) si possono qui riportare alcune conclusioni particolarmente dirompenti. Infatti, se i valori sono oggetto di riflessione razionale dei soggetti e quindi sono riconosciuti come “giusti” , al pari dei fenomeni oggetto dei giudizi di verità, si apre la possibilità di un’evoluzione dei valori allo stesso modo – e naturalmente con gli stessi limiti e le stesse cautele – con le quali si può parlare di evoluzione delle scoperte scientifiche. Il fatto che, in un determinato periodo storico, i valori appaiono molteplici ed ambivalenti non è affatto un rivelatore della loro relatività più di quanto le dispute scientifiche su teorie opposte non siano stati rivelatrici del relativismo di ciascuna di esse. Se la storia della scienza è la storia dei conflitti tra paradigmi scientifici (e qui il rinvio a Kuhn ed alla sua Struttura delle rivoluzioni scientifiche è d’obbligo) in pari modo la storia dei mutamenti dei valori è la storia delle dispute tra questi. L’attuale pluralismo culturale quindi, più che essere il definitivo rinvio dei valori all’universo del “tutto relativo” è piuttosto il risultato di una società razionale dove il primato moderno dell’uguaglianza (segnalato già da Tocqueville), la convivenza tra gruppi diversi e l’aumento dei processi di comunicazione, fanno del “rispetto dei valori altrui” un principio comportamentale doveroso più che il riconoscimento di un’equivalenza sostanziale.
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Ma se i valori, al pari delle teorie scientifiche, restano “giusti” fino a quando sono convinzioni ragionevoli di fondo
(ad esempio la pena di morte è stata sostenuta in modo quasi plebiscitario fino a quando non è stato dimostrato dai criminologi la sua inefficacia come deterrente contro il crimine) essi si affermano anche quando si acquisiscono nuove informazioni. Il valore dei diritti umani prevale su quello dell’autonomia degli Stati e legittima il diritto di ingerenza quando la violazione dei primi è resa pubblica dagli operatori dell’informazione ma anche da gruppi di volontariato, come può essere stato il caso dell’associazione di Médécins sans frontières.
I valori escono così dall’ambito dei fatti sociali, esterni al soggetto, per diventare oggetto di scelta, l’ambito delle “buone ragioni”, cioè della scelta in ambiti di razionalità limitata, cessa di essere una prerogativa del solo agire strumentale per diventare plausibile anche nell’ambito delle azioni razionali rispetto al valore.
Category: Editoriali, Storia della scienza e filosofia