Charles Peguy: La speranza è una bambina irriducibile
Ho incontrato Charles Péguy la prima volta verso i quindici anni anni a Pistoia nel mondo dei libri, che mia madre mi incoraggiava a costruire senza controllo, attraverso un suo verso “la speranza è una bambina che va a letto e dorme bene” e questa frase mi ha accompagnato fino ad oggi. In questo periodo di uccisioni insensate (raid di Israele a Gaza, esecuzioni di cristiani in Siria, decapitazioni in Iraq, impiccagione di Jabbari in Iran, uccisione di rabbini nella sinagoga a Gerusalemme…) mi è tornata in mente e ho così scoperto, in rete, che quest’anno è il centenario della sua morte avvenuta il 5 settembre 1914. Rimedio subito con tre pezzi: alcuni brani dal suo bellissimo testo sulla speranza bambina, un suo ricordo scritto da Don Primo Mazzolari e un sua breve biografia. La speranza è per Péguy una “bambina irriducibile” molto più importante delle sorelle più anziane (fede e carità) che “va ancora a scuola/e che cammina/ persa nelle gonne delle sue sorelle”. Ma è più importante delle sue sorelle perché “E’ lei, quella piccina,che trascina tutto/perché la fede non vede che quello che è/e lei vede quello che sarà/la Carità non ama che quello che è/ e lei ama quello che sarà/Dio ci ha fatto speranza”. Anche se le immagini che ci arrivano sono di una violenza assurda non bisogna perdere la speranza perché è questa speranza bambina che va ancora a scuola che “vede quello che sarà” e “ama quello che sarà”. Caro Péguy, scusami se avevo dimenticato il centenario della tua morte.
1. Charles Péguy: La speranza bambina
(da Il portico del mistero della seconda virtù, 2011)
La fede non mi stupisce
Non è stupefacente
Risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle.
In tutte le mie creature…
La carità va da sé. Per amare il prossimo c’è solo da lasciarsi andare, c’è solo da guardare una simile desolazione. Per non amare il prossimo bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Riprendersi. La carità è tutta naturale, tutta zampillante, tutta semplice, tutta alla buona. E’ il primo movimento del cuore. E’ il primo movimento che è quello buono. La carità è una madre e una sorella…
Per non amare il prossimo, bambina, bisognerebbe tapparsi
gli occhi e gli orecchi.
A tante grida di desolazione…
Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce.
Me stesso.
Questo è stupefacente.
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano
che andrà meglio domattina.
Che vedano come vanno le cose oggi e che credano che andrà
meglio domattina.
Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia
della nostra grazia.
E io stesso ne sono stupito.
E bisogna che la mia grazia sia in effetti di una forza incredibile.
E che sgorghi da una fonte e come un fiume inesauribile.
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Perché le mie tre virtù, dice Dio.
Le tre virtù mie creature.
Sono esse stesse come le mie altre creature.
Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
La Speranza è una bambina da nulla.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con babbo Gennaio.
Eppure è questa bambina che traverserà i mondi.
Questa bambina da nulla.
Lei sola, portando le altre, che traverserà i mondi compiuti.
Come la stella ha guidato i tre re fin dal fondo dell’Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante.
Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma bucherà delle tenebre eterne…
La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi
e non si nota neanche…
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione
che alle due sorelle grandi.
La prima e l’ultima.
E non vede quasi quella che è in mezzo.
La piccola, quella che va ancora a scuola.
E che cammina.
Persa nelle gonne delle sue sorelle.
E crede volentieri che siano le due grandi che tirino la piccola per la mano.
In mezzo.
Tra loro due.
Per farle fare quella strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono che non vedono invece
Che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne già anziane.
Due donne di una certa età.
Sciupate dalla vita.
E’ lei, quella piccina, che trascina tutto.
Perché la Fede non vede che quello che è.
E lei vede quello che sarà.
La Carità non ama che quello che è.
E lei, lei ama quello che sarà.
Dio ci ha fatto speranza. Ha cominciato. Ha sperato che l’ultimo dei peccatori,
Che il più infimo dei peccatori lavorasse almeno un po’ alla sua salvezza,
Sia pure poco, poveramente,
Che se ne sarebbe occupato un po’.
Lui ha sperato in noi, sarà detto che noi non spereremo in lui?
Dio ha posto la sua speranza, la sua povera speranza in ognuno di noi, nel più infimo dei peccatori. Sarà detto che noi infimi, che noi peccatori, saremo noi che non porremo la nostra speranza in lui?
Dio ci ha affidato suo figlio, ahimé, ahimé. Dio ci ha affidato la nostra salvezza, la cura della nostra salvezza. Ha fatto dipendere da noi e suo Figlio e la nostra salvezza, e anche la sua speranza stessa; e noi non riporremo la nostra speranza in lui?
Mistero dei misteri, che riguarda i misteri stessi,
Egli ha messo nelle nostre mani, nelle nostre deboli mani,
la sua speranza eterna,
Nelle nostre mani passeggere.
Nelle nostre mani peccatrici.
E noi, noi peccatori, non metteremo la nostra debole speranza
Nelle sue mani eterne?
Qual è questa virtù, questo segreto, che cosa occorre dunque che ci sia di così straordinario,
Nella penitenza,
perché questo peccatore,
Perché uno valga cento, o insomma novantanove,
(Per contar giusto,)
Perché questo peccatore valga altrettanto,
Perché questo peccatore, questo solo peccatore che fa penitenza valga altrettanto, rallegri, susciti tanta gioia nel cielo quanto novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza?
E perché questa pecorella smarrita dia tanta gioia al pastore,
Al buon pastore,
Che egli lascia nel deserto, in deserto, in un luogo abbandonato,
Le novantanove che non s’erano smarrite?
In cosa, qual è dunque questo mistero,
In cosa uno può valere novantanove?
Non sia tutti figli di Dio. Ugualmente allo stesso modo?
In cosa, come, perché una pecora vale novantanove pecore.
Bambina, bambina, lo sai, di che si tratta. E’ giusto questo?
E’ che era perita; e che è stata trovata.
E’ che era morta; e che è rivissuta.
E’ che era morta; e che è risuscitata.
Perché bisogna prendere tutto alla lettera, bambina,
Letteralmente come Gesù era morto ed è risorto di tra i morti,
Così quella pecora era perduta, così quella pecora era morta,
Così quell’anima era morta e dalla sua propria morte è risorta
di tra i morti.
Essa ha fatto tremare il cuore stesso di Dio.
Del tremore del timore e del tremore della speranza.
Del tremore stesso della paura.
Del tremore di un’inquietudine
Mortale.
E in seguito, e così, e anche
Di ciò che è legato al timore, alla paura, all’inquietudine
Con un legame che non si può slegare, con un legame che non
si può sfare,
Temporale, eterno, con un vincolo che non si può sfare
Ha fatto tremare il cuore di Dio
Del tremore stesso della speranza
Ha introdotto nel cuore stesso di Dio la teologale
Speranza.
Perché tutti gli altri Dio li ama in amore.
Ma quella pecora Gesù l’ha amata anche in speranza.
Bisogna prendere tutto alla lettera, bambina. Dio ha sperato,
Dio ha atteso da Lui.
Dio, che è tutto, ha avuto qualcosa da sperare, da lui, da quel
peccatore. Da quel nulla. Da noi. E’ stato messo, a questo
punto, si è messo a questo punto, in questa condizione da
aver da sperare, da attendere da quel miserabile peccatore.
Tale è la forza di vita della speranza, bambina,
La forza di vita, la promessa, la vita, la forza di vita e di promessa
che sgorga nel cuore della speranza…
Singolare virtù della speranza, singolare mistero, questa non è
una virtù come le altre, è una virtù contro le altre.
Prende in contropiede tutte le altre. S’addossa per così dire
alle altre, a tutte le altre.
E tien loro testa. A tutte le virtù. A tutti i misteri.
Le supera per così dire, va contro corrente.
Risale la corrente delle altre.
Non è una schiava, questa bambina è irriducibile.
Lei replica per così dire alle sue sorelle; a tutte le virtù, a tutti
i misteri.
Quando loro scendono lei sale, (è molto ben fatto,)
Quando tutto scende solo lei risale e così le doppia, le decuplica,
le allarga all’infinito.
Spaventosa libertà dell’uomo.
Noi possiamo far fallire tutto.
Noi possiamo essere assenti.
Non esser lì il giorno che veniamo chiamati.
Possiamo non rispondere alla chiamata
(Eccetto che nella vallata del Giudizio)
Spaventoso favore.
Possiamo mancare a Dio.
Ecco il caso in cui s’è messo,
Il brutto caso.
S’è messo nel caso di aver bisogno di noi.
Che imprudenza. Che fiducia.
Ben posta, mal posta, questo dipende da noi.
Che speranza, che testardaggine, che partito preso, che forza
incurabile di speranza.
In noi.
Che spoliazione, di sé, del suo potere.
Che imprudenza.
Che mancanza di previsione, di previdenza,
Di provvidenza
di Dio.
Noi possiamo far difetto.
Noi possiamo venir meno.
Noi possiamo non esserci.
Spaventoso favore, spaventosa grazia.
Colui che fa tutto si rivolge a colui che non può far nulla.
Colui che fa tutto ha bisogno di colui che non fa nulla.
E come noi suoniamo a distesa la nostra Pasqua,
A gran distesa,
Nelle nostre povere, nelle nostre trionfanti chiese,
Nel sole e il bel tempo del giorno di Pasqua,
Così Dio per ogni anima che si salva
Suona a gran distesa una Pasqua eterna.
E dice: Ah, non m’ero sbagliato.
Avevo ragione d’aver fiducia in quel ragazzo.
Era una buona natura. Era di buona razza.
Figlio di una buona madre. Era un francese.
Ho avuto ragione di dargli fiducia.
Ugualmente i bambini. Quando andate a fare una spesa con
i vostri bambini
Una commissione
O quando andate alla messa o ai vespri con i vostri bambini
O alla benedizione
O tra la messa e i vespri quando andate a passeggio con i
vostri bambini
Loro vi trottano davanti come cagnolini. Vanno avanti, tornano
indietro. Vanno, vengono. Si divertono. Saltano.
Fanno venti volte il tragitto.
E’ perché in effetti non vanno da nessuna parte.
A loro non interessa andare da qualche parte.
Non vanno da nessuna parte.
Sono le persone grandi che vanno da qualche parte
Le persone grandi, la Fede, la Carità.
Sono i genitori che vanno da qualche parte.
Alla messa, ai vespri, alla benedizione.
Al fiume, nella foresta.
Ai campi, nel bosco, al lavoro.
Che si sforzano, che si agitano per andare da qualche parte
O anche che vanno a passeggio da qualche parte.
Ma i bambini quello che li interessa è solo fare la strada.
Andare e venire e saltare. Consumare la strada con le loro
gambe.
Non averne mai abbastanza. E sentir crescere le loro gambe.
Loro bevono la via. Hanno sete della via. Non ne hanno
mai abbastanza.
Sono più forti della via. Sono più forti della fatica.
Non ne hanno mai abbastanza (Così è la speranza). Corrono
più in fretta della via.
Loro non vanno non corrono per arrivare. Loro arrivano per
correre. Arrivano per andare. Così è la speranza. Non
risparmiano i passi. Non ne verrebbe loro neanche l’idea.
Di risparmiare alcunché.
Sono le persone grandi che risparmiano.
Ahimé sono ben obbligate. Ma la bambina Speranza
Non risparmia mai nulla.
2. Primo Mazzolari: Caro Charles Péguy
Da Tysm Literay Review, 11 settembre 2014
”Padre nostro che sei nei cieli”. Tre, quattro parole, ma beato chi si addormenta sotto la protezione di queste tre, quattro parole. Sono le parole che precedono ogni preghiera, come le mani giunte precedono il volto di un orante». Per Charles Péguy anche la scrittura era qualcosa che poteva approssimarsi, precedere, talvolta sfiorare la preghiera. La scrittura era soprattutto questione di sguardo. Scrive infatti Péguy: «Bisogna dire sempre ciò che si vede. Soprattutto bisogna sempre, e qui è il difficile, vedere sempre ciò che si vede». Questo rigore dello sguardo, questo dovere di guardare sempre e comunque la realtà è l’imperativo che fonda l’etica di Péguy. Anche la speranza – che è sempre speranza di realtà – si fonda sulla presenza di questo sguardo, non sulla sua fuga. Riportano le cronache che il primo “Padre nostro” Péguy lo recitò nel 1908, dopo una grave malattia. Sei anni più tardi – era il 4 settembre del 1914 -, quarantunenne, Péguy cadde in battaglia, in quella che lui credeva (o sperava fosse) «l’ultima di tutte le guerre».
Come Péguy, anche don Primo Mazzolari fu un “interventista democratico”. Come Péguy, Mazzolari e i giovani della Lega Democratica Cristiana non volevano semplicemente e barbaramente “la loro” guerra. Speravano invece di poter mettere fine al militarismo tedesco, che una guerra, prima o poi, l’avrebbe comunque provocata. In guerra, don Mazzolari perse il fratello Peppino e per nove mesi, nel 1918, come cappellano militare, seguì le truppe italiane in Francia. Fu allora che incontrò le parole di Péguy. Parole che ispireranno a Mazzolari il famoso “Tu non uccidere” e che troveranno eco, 30 anni dopo, nel primo editoriale del suo quindicinale “Adesso”: «Adesso, non domani. All’infuori del caso che domani un altro possa fare meglio ciò che io non so fare (la rivoluzione cristiana non fa saltare la corteccia dell’albero con la dinamite), rimandare a domani è neghittosità e vigliaccheria. Adesso è un atto di coraggio. Un uomo d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi “adesso” traditi».
Nel ’48, don Primo Mazzolari scriverà una piccola, intensa prefazione a una raccolta di pensieri dell’autore francese, raccolta pubblicata per la cura di Aldo Pedrone per i tipi della Stefanoni, casa editrice di Lecco. La riproponiamo oggi – in occasione dell’anniversario della morte di Péguy, vista anche la rarità del testo – sperando di fare cosa gradita ai nostri lettori. (marco dotti)
Péguy afferra da solo chiunque lo prende in mano, anche se lo si prende in mano sbadatamente. Ne feci la prova nel luglio del ’18. Stavo a riposo nella foresta di Compiègne, dopo giornate così disumane che all’infuori del Vangelo ogni parola mi riusciva insopportabile.
«Leggete il nostro caro Péguy» insisteva il giovane aumònier dei chasseurs, che accampava a neanche un miglio da noi. «Questo prende: è su misura dell’uomo». Se discorrendo di uno scrittore, gli si può mettere davanti una dichiarazione d’amicizia, il resto non conta. Anche se ogni parola ci fa male, non conta. Péguy mi è entrato così, facendomi male: la vera prefazione delle grandi amicizie, che spaccano sempre il cuore: quasi un innesto, ove l’olivastro deve spaccarsi.
Però non è vero che Péguy sia sgarbato. Egli incide e canta, scalpella e canta, bulina e canta, come un maestro artigiano dei tempi andati: ed il suo canto è piuttosto una sequenza, che ognuno può accompagnare e far sua senza sforzo. Il suo paradosso lirico è cosi limpido e scorrevole che possiamo credere d’averlo pensato noi stessi in un momento di latitudine, per cui siamo noi che ci aberriamo con le nostre stesse mani, e quasi ci si vergogna d’aver visto troppo tardi verità tanto vicine e tanto care, l’unum necessarium.
Péguy stesso pare che non faccia nessuna fatica a scoprire e a raccontare queste grandi cose: pare uno che abbia sempre camminato tranquillamente le dolci strade della sua terra, mentre fu più volte uno sbandato, ed è stato fuori con tutti, e di quella convivenza infelice e provvidenziale porta la memoria, e, nel sangue, l’angusta misura di ogni tenda, da cui si è tolto con la decisione del Prodigo: surgam et ibo.
Battè ad ogni porta, e, ovunque entrò, tenne gli occhi limpidi e fiduciosi dell’uomo libero («io sono l’uomo più libero del mondo») : spezzò il pane con questi e con quelli come uno di casa, e quando use), quando dovette uscirne per rimanere «l’uomo più libero», invece di scuotere la polvere, si portò dietro, a ricordo del soggiorno, ogni cosa buona di ogni casa senza impoverire nessuno. Per questa sua originalissima e fraterna maniera di entrare, uscire e spogliare, molti dei suoi ospiti di ieri credono di averlo tuttora presso il loro focolare, mentre egli è lontano, cittadino di una città senza mura, la sola su misura della sua divina inquietudine.
Qualche commiato è stato violento; però, nell’uscire, non ha sbattuto l’uscio ed egli rimane ospite di ogni tenda, anche se per respirare ha dovuto andarsene; se per capire ha dovuto allontanarsi; se per rimanere socialista ha dovuto farsi cristiano.
La sua statura cresce secondo la linea della cattedrale, come una cattedrale, poiché Péguy non solo appartiene alla razza dei costruttori delle cattedrali, ma lui stesso è una cattedrale con pietre d’ ogni colore, d’ogni cava e d’ ogni epoca, levigate o grezze, le quali si affondano o salgono o si dilatano con magnificenza e ardimento, e splendono sotto il sole o nella penombra con ignei bagliori, poiché certo è il suo amore, continua la sua fedeltà.
Nessuno è più contemporaneo di Péguy, più alla giornata, e nello stesso tempo nessuno più di lui porta inciso il passato e s’affaccio curioso e attonito sul domani. In certi momenti si direbbe che accosti l’eterno come i santi, cui parla il linguaggio dei fanciulli e dei poveri. Nella sua povertà dà la scalata all’Eterno. Di tratto in tratto si sofferma per guardarlo in volto, e gli pare di avere ‘diritto di dargli del tu. perché gli vuol bene, e l’Altro lo sa: «Tu sai tutto ; sai che ti voglio bene».
E quando due si vogliono bene, si chiamino Teresa d’Avila o Charles Péguy, c’è l’equalitas. Che nessun mutamento d’umore può intaccare. Come dialoga con Dio, lui il peccatore, così dialoga, lui il repubblicano, con Joinville. Re Luigi. Giovanna d’Arco, e traduce la politica in mistica per salvarla dall’imperizia dei suoi manovali, come per conservare un po’ di stima del socialismo di Jaurés, si fa cristiano. La cristianità è la sua casa. Qui finalmente respira, si sente a casa sua. Però, anche a casa sua non chiude gli occhi, non si crede un arrivato, molto meno un pensionato. Non vede tutto bello nella casa. Bello è ciò che Dio fa per il suo Cristo, ciò che Cristo fa per la sua Chiesa, anche se le mani sono inchiodate e i piedi sono inchiodati. Nella cristianità, forse più che altrove, c’è da lavorare. Ma qui Péguy sa bene che non occorre il piccone, e usa le mani, i ginocchi, il cuore.
E lo trovi in ginocchio non solo quando prega, ma quando grida, quando s’accorge che Qualcuno gli ha dato la voce del Profeta. Qui non sosta, non è di passaggio ; qui abita, è il cittadino. Gli ingombri non l’affannano le indegnità non gli tolgono la fiducia. Su ogni sgorbio dell’uomo e delle sue fatture, egli vede l’immagine, il sangue, il cuore di Cristo.
E se protesta per ciò che non conviene alla immacolatezza della Sposa, sa che ogni cosa dell’uomo non le conviene mai e canta l’inno di questa nostra povertà che si mette in piedi per camminare su tutte te strade, verso la salvezza. Sulla Marna, dove una cristianità penitente ferma una cristianità orgogliosa, Péguy fissò la ultima tenda, disse l’ultimo amen della sua peregrinatio. Chi muore per la città terrestre è il corpo della città di Dio e della casa di Dio, e sta davanti, sempre. Se ti volti indietro per cercarlo, lo tradisci: se ti fermi sotto le tende ove egli ha soltanto sostato per rintracciare le immagini dei cristiani infedeli, lo tradisci: se ti rivolti con amarezza verso lo squallore di una casa, che è il riflesso del nostro deserto interiore, lo tradisci. Lo tradisci se non preghi, se non canti, se non sei pronto a dare la vita «per quel pizzico di terra» che è indispensabile per la libertà, per il pane dell’uomo. Tutto questo forse è sciocco, ma per non tradirlo bisogna diventare sciocchi, come S. Agostino, S. Paolo, S. Francesco, S. Giovanna d’Arco: come Pascal, come Corneille, come Péguy.
3. Biografieonline.it: Charles Peguy
Charles Péguy nasce il 7 gennaio del 1873 a Orléans, in Francia. Brillante saggista, drammaturgo, poeta, critico e scrittore francese, è considerato un punto di riferimento del cristianesimo moderno, quello più aperto e illuminato che lo ha riscoperto dopo la sua morte, nonostante il suo atteggiamento critico nei confronti dell’autoritarismo papale
Il piccolo Charles nasce e cresce in una famiglia di umili origini, in piena campagna, abituata a vivere del proprio duro lavoro. Il padre, Désiré Péguy, è un falegname, ma muore a causa delle ferite riportate durante il conflitto franco-prussiano, pochi mesi dopo la nascita del suo primogenito, Charles, appunto. La madre, Cécile Quéré, deve imparare un mestiere e si mette a fare l’impagliatrice di sedie, così come la nonna, la quale segue il suo esempio. È con queste due figure materne che Péguy trascorre gli anni della giovinezza, dandosi da fare in aiuto della madre e della nonna, tagliando gli steli di paglia per il lavoro, battendo la segale con il maglio e imparando i rudimenti del lavoro manuale. Dalla nonna inoltre, analfabeta ma narratrice di storie di discendenza orale appartenenti alla tradizione contadina, il giovane Charles impara la lingua francese.
All’età di sette anni viene iscritto a scuola, dove apprende anche del catechismo grazie agli insegnamenti del suo primo maestro, monsieur Fautras, definito dal futuro scrittore come un uomo “dolce e grave“. Nel 1884 ottiene la licenza elementare.
Theophile Naudy, l’allora direttore dell’istituto magistrale, preme per far sì che Charles prosegua gli studi. Con una borsa di studio riesce ad iscriversi al liceo inferiore e nel 1891 sempre grazie ad un finanziamento municipale, passa al liceo Lakanal di Parigi. Il momento per il giovane e brillante Péguy è propizio e decide di prendere parte al concorso per essere ammesso all’università. Bocciato però si arruola per il servizio di leva, presso il 131° reggimento di fanteria.
Nel 1894, al suo secondo tentativo, Charles Péguy entra all’École Normale. L’esperienza è fondante per lui: dopo aver ammirato i classici greci e latini, durante l’esperienza liceale, ed essersi avvicinato allo studio del cristianesimo, il brillante studioso si infatua letteralmente delle idee socialiste e rivoluzionarie di Proudhon e Leroux. Ma non solo. In questo periodo egli incontra e frequenta il socialista Herr, il filosofo Bergson, ma soprattutto comincia a convincersi di essere ormai culturalmente pronto per mettersi a scrivere, per lavorare a qualcosa di suo, di importante.
Ottiene prima la licenza in lettere e poi, nell’agosto del 1895, il baccalaureato in scienze. Tuttavia, passati circa due anni, abbandona l’università e rientra ad Orléans, dove comincia a scrivere un dramma su Giovanna d’Arco, il quale lo impegna per circa tre anni.
Il 15 luglio del 1896 muore Marcel Baudouin, suo amico fraterno. Charles Péguy decide di aiutare la sua famiglia e si innamora di Charlotte, la sorella dell’amico, che sposa nell’ottobre del 1897. L’anno dopo arriva già il primo figlio, Marcel, cui seguono Charlotte nel 1901, Pierre nel 1903, e Charles-Pierre, l’ultimo ad arrivare, il quale nasce poco dopo la morte dello scrittore, nel 1915.
Nel 1897 Péguy riesce a pubblicare “Giovanna D’Arco“, ma viene completamente ignorato da pubblico e critica. Il testo vende appena una copia. Tuttavia in esso è condensato tutto il pensiero del Péguy di quegli anni, impegnato e impregnato di socialismo, concepito però in vista di un desiderio e di una volontà tutta rivolta verso una salvezza radicale, in cui ci sia posto per tutti. La stessa Giovanna D’Arco che descrive nella sua opera è paradigmatica: in lei, il bisogno di una salvezza assoluta che il giovane autore cerca e pretende dalla propria fede politica.
In questo periodo, va aggiunto, mentre insegna e si dà da fare politicamente, Charles Péguy prende anche una posizione attiva nel famoso “caso Dreyfus“, difendendo l’ufficiale ebreo dello stato francese, il quale viene accusato ingiustamente di spionaggio per favorire i tedeschi.
Il fervore socialista di Péguy si spegne. Il giorno 1 maggio del 1898, a Parigi, fonda la “Libreria Bellais” nei dintorni della Sorbona e nella cui esperienza investe forze fisiche ed economiche, compresa la dote della moglie. Il progetto però, fallisce in poco tempo.
Fonda allora la rivista “Cahiers de la Quinzaine”, volta a ricercare e mettere in luce nuovi talenti letterari, pubblicando le loro opere. È l’inizio della sua strada editoriale, la quale si incrocia anche con altri esponenti di spicco della cultura letteraria e artistica francese di quegli anni, come Romain Rolland, Julien Benda e André Suarès. La rivista dura tredici anni ed esce ogni quindici giorni, per un totale di 229 numeri e con uscita d’esordio datata 5 gennaio 1900.
Nel 1907 Charles Péguy si converte al cattolicesimo. E così ritorna sul dramma su Giovanna d’Arco, cominciando una febbrile riscrittura, la quale dà vita ad un vero e proprio “mistero”, come viene scritto nei “Cahiers” del 1909, e questo nonostante il silenzio del pubblico il quale, dopo un breve e iniziale interesse, sembra non gradire più di tanto l’opera dell’autore.
Péguy però va avanti. Scrive altri due “misteri”: “Il Portico del mistero della seconda virtù”, datato 22 ottobre 1911, e “Il mistero dei Santi Innocenti”, del 24 marzo 1912. I libri non si vendono, gli abbonati della rivista calano e il fondatore dei “Cahiers”, si trova in difficoltà. Inviso ai socialisti per la sua conversione, non fa breccia nemmeno nel cuore dei cattolici, i quali gli rimproverano alcune scelte di vita sospette, come quella di non aver battezzato i figli, per venire incontro ai voleri della moglie.
Nel 1912 il figlio minore Pierre si ammala gravemente. Il padre fa il voto di andare in pellegrinaggio a Chartres, in caso di guarigione. Questa arriva e Péguy compie un cammino di 144 chilometri in tre giorni, fino alla cattedrale di Chartres, in piena estate. È la sua più grande dimostrazione di fede.
Nel dicembre del 1913, ormai scrittore cattolico, scrive un poema enorme, che sconcerta pubblico e critica. Si intitola “Eve”, ed è composto da 7.644 versi. Quasi contemporaneamente uno dei suoi saggi più polemici e brillanti vede la luce: “Il denaro”.
Nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale. L’autore si arruola volontario e il 5 settembre 1914, il primo giorno della famosa e sanguinosa battaglia della Marna, Charles Péguy muore, colpito proprio al fronte.
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