Lisa Dorigatti: Ricostruire la rappresentanza del lavoro nelle catene del valore
Una delle più importanti trasformazioni che hanno caratterizzato l’organizzazione dei processi produttivi è stata la progressiva riduzione dei livelli di integrazione verticale delle imprese attraverso esternalizzazioni, outsourcing e l’utilizzo di forza lavoro non impiegata direttamente (come nel caso delle agenzie di somministrazione). I confini delle organizzazioni sono così via via sfumati e alla produzione di un determinato bene o servizio oggi concorrono una molteplicità di soggetti legati fra loro in quelli che vengono comunemente definiti network inter-organizzativi o catene del valore (Marchington et al. 2005a, Gereffi e Korzeniewicz 1994).
La letteratura ha ampiamente evidenziato come questi processi abbiano avuto significative ricadute sulle relazioni di impiego e sulle condizioni di lavoro dei soggetti coinvolti (Flecker et al. 2008). è stato infatti evidenziato come questi processi si siano spesso associati a un deterioramento delle condizioni di lavoro, quali il peggioramento dei livelli salariali, l’intensificazione del lavoro, l’aumento dell’insicurezza occupazionale e dei rischi per la salute e la sicurezza (Grimshaw and Rubery 2005). Ciò è avvenuto soprattutto ai livelli più bassi delle catene del valore, poiché questi processi hanno consentito alle cosiddette imprese focali (o imprese leader della catena) di scaricare all’esterno obiettivi di contenimento dei costi e di riduzione dei rischi.
Accanto alle conseguenze sulle condizioni di lavoro, la frammentazione delle imprese ha prodotto anche un indebolimento della capacità di voice dei lavoratori coinvolti (Doellgast e Greer 2007). Ciò dipende da un lato dalla scarsa presenza sindacale in settori particolarmente interessati da questi processi (quali, ad esempio, i settori delle pulizie, della ristorazione o della logistica). Dall’altro, però, questa difficoltà è associata alla stessa natura dei processi di outsourcing e di disintegrazione verticale e alle relazioni di potere che si instaurano fra le diverse imprese che fanno parte di una stessa catena del valore. Come hanno mostrato diversi contributi, infatti, lungi dal presentare una strutturazione di maggiore orizzontalità nelle relazioni fra imprese, i processi di disintegrazione verticale che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni costituiscono meccanismi di “centralizzazione senza concentrazione” (Harrison 1994). Le imprese leader, infatti, continuano ad esercitare un potere direttivo lungo la catena del valore, indipendentemente dai confini giuridici delle singole imprese che ne fanno parte. Ciò si riverbera, ovviamente anche sulle relazioni di impiego. La forte competizione cui le imprese collocate ai livelli più bassi della catena del valore sono sottoposte riduce fortemente i loro margini operativi e, quindi, anche la loro autonomia nella contrattazione con i propri dipendenti. Si pensi, ad esempio, a tutto il tema degli appalti al massimo ribasso e a quanto queste modalità di affidamento degli appalti impattino non solamente sui livelli retributivi dei lavoratori coinvolti, ma anche sull’efficacia delle negoziazioni dei salari. Inoltre, molti elementi della prestazione lavorativa sono direttamente o indirettamente influenzati dalla relazione contrattuale fra l’impresa in cui sono occupati e l’impresa leader (Appay 1998, Perraudin et al. 2013). Si pensi, ad esempio, al caso in cui un’azienda leader imponga ai propri fornitori l’utilizzo di determinate modalità di organizzazione del lavoro, come ad esempio avviene nel settore automotive rispetto all’utilizzo del sistema WCM (World Class Manufacturing). Il potere sul e nel rapporto di lavoro, quindi, trascende i confini organizzativi della singola impresa e si estende al resto della catena del valore. Come hanno affermato Perraudin et al., infatti, “la proliferazione dei fenomeni di esternalizzazione ha prodotto situazioni di dipendenza economica e finanziaria nelle relazioni fra imprese e ha cambiato la natura delle relazioni di lavoro. Non è più possibile interpretare queste ultime come una relazione bilaterale fra lavoratori e datori di lavoro, poiché i datori di lavoro sono loro stessi parte di reti gerarchiche di relazioni inter-organizzative” (Perraudin et al. 2013, pp. 3). Inoltre, come hanno evidenziato Rubery et al., può accadere che il datore di lavoro formale può non essere colui che esercita in maniera predominante il potere direttivo sul rapporto di lavoro dei propri dipendenti e/o colui che ne influenza in misura maggiore le condizioni di lavoro (Rubery et al. 2005, pp. 65).
L’esistenza di una relazione triangolare fra lavoratori, datori di lavoro diretti e utilizzatori comporta un indebolimento della capacità dei primi di esercitare un’influenza sulle proprie condizioni di lavoro. Nonostante, infatti, le condizioni di lavoro all’interno di un’impresa siano fortemente influenzate dalle relazioni con altre imprese, i lavoratori mancano di canali attraverso cui esercitare influenza su soggetti terzi, dal momento che le tradizionali strutture di articolazione della voice del lavoro sono basate sulla relazione duale fra lavoratore e datore di lavoro e che questi soggetti terzi si situano al di fuori di tale relazione (Marchington et al. 2005b). Inoltre, anche nei casi in cui la contrattazione risulti efficace, il rischio insito in queste strutturazioni è che le aziende perdano la relazione contrattuale con le imprese leader (Wills 2009). Essendo reti di relazione costituite da imprese giuridicamente autonome, le imprese clienti possono sfuggire alle rivendicazioni e alle conquiste dei lavoratori uscendo dalla relazione contrattuale. Questo è dimostrato da un crescente numero di lavori che mostrano come la crescita di azioni sindacali a livello locale abbia spinto i marchi leader del settore tessile alla riconfigurazione della propria catena di fornitura e a rifornirsi di beni in altre aree non sindacalizzate (si vedano a titolo di esempio Bonacich 2000, Bronfenbrenner 2000). In questo senso, quindi, le strutturazioni delle catene del valore consentono alle imprese leader la possibilità di non internalizzare i costi del conflitto, ma di scaricarli all’esterno e i processi di disintegrazione verticale costituiscono strumenti di “deresponsabilizzazione” dell’azienda leader nei confronti del lavoro che essa utilizza all’interno della catena del valore[1] (Speziale 2010).
Nuove stragie nella frammentazione?
Le difficoltà di definire meccanismi di contrattazione per la tutela delle condizioni di lavoro all’interno delle catene del valore ha progressivamente spinto verso la ridefinizione delle modalità di azione del lavoro e l’identificazione di punti di pressione diversi da quelli tradizionali basati sul datore di lavoro formale. Diversi contributi hanno evidenziato l’emergere di forme di regolazione della relazione di lavoro che utilizzano l’impresa focale per definire meccanismi di tutela dei diritti dei lavoratori nelle catene di appalti e subappalti (Riisgard e Hammer 2011, Wills 2009, Wright e Brown 2013, Jaehrling 2014, James et al. 2014). Vale la pena discuterne due: la costruzione di coalizioni sociali per fare pressione nei confronti delle aziende appaltatrici e l’utilizzo della forza contrattuale nelle aziende utilizzatrici per introdurre meccanismi di regolazione delle condizioni di lavoro negli appalti.
In diversi casi, le organizzazioni (sindacali e non sindacali) che si occupano della tutela dei lavoratori impiegati in settori caratterizzati da una forte presenza di appalti hanno dato il via a campagne per fare pressione nei confronti delle aziende appaltanti e migliorare così le condizioni di lavoro nelle aziende appaltatrici. In molti di questi casi, queste campagne hanno coinvolto coalizioni sociali ampie, che comprendevano anche organizzazioni della società civile, organizzazioni religiosi, associazioni di migranti e i clienti delle aziende utilizzatrici. Alcuni di questi casi addirittura non vedevano la partecipazione delle organizzazioni sindacali di settore, ma erano completamente organizzate da soggetti non sindacali. Un caso in questo senso sono le campagne portate avanti da diversi gruppi locali per migliorare le condizioni di lavoro dei pulitori impiegati da diverse università londinesi nel quadro di una più ampia campagna organizzata dalla coalizione London Citizens per introdurre a Londra un “salario minimo vitale”, ossia un livello minimo di retribuzioni a livello cittadino che garantisca la possibilità di vivere con dignità. Nel caso dell’università Qeen Mary, ad esempio, la campagna prende il via nel 2005, attraverso una ricerca sulle condizioni di impiego dei lavoratori delle pulizie attraverso la costruzione di contatti con questi lavoratori. Questi contatti si trasformarono in una serie di assemblee con i lavoratori e portarono alla costruzione di un piccolo gruppo informale. Parallelamente gli attivisti di London Citizens iniziarono a costruire contatti con altri soggetti attivi nell’università e in particolare con le organizzazioni sindacali dei docenti, che portarono alla loro partecipazione a iniziative di denuncia pubblica delle condizioni di lavoro degli addetti alle pulizie. È importante notare che il target delle iniziative non erano le aziende di pulizia, ma direttamente l’Univarsità. La pressione esercitata nei confronti degli organi accademici da parte di diversi soggetti li portò ad accettare le richieste dei lavoratori e a dichiarare, a meno di un anno dall’avvio della campagna, che Queen Mary sarebbe stata il primo living wage campus del Regno Unito (Wills 2009, Hearn e Bergos 2010).
Un caso diverso sono i tentativi di sfruttare la forza contrattuale nelle aziende utilizzatrici per migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori indiretti. Un esempio in questo senso sono le due campagne del sindacato dei metalmeccanici tedeschi, IG Metall, sul lavoro in somministrazione e in appalto. Entrambe le campagne mirano a far sì che i consigli d’azienda delle aziende utilizzatrici si facciano carico della tutela anche dei lavoratori in somministrazione e in appalto, organizzandoli e contrattando a livello aziendale. Nell’ambito della campagna “Stesso lavoro, stesso salario” sul lavoro in somministrazione, sono stati stipulati circa 1.200 accordi aziendali migliorativi (che introducevano limiti all’utilizzo di questa forma d’impiego, percorsi di stabilizzazione e il principio della parità di trattamento) e nel 2012 è stato firmato un contratto di settore che garantisce ai consigli d’azienda maggiori poteri di controllo e ai lavoratori in somministrazione un bonus che ne riducono i differenziali retributivi rispetto ai lavoratori diretti. La campagna sugli appalti è, invece, ancora in una fase iniziale, con alcuni progetti pilota, concentrati soprattutto sui fornitori di servizi logistici per il settore automobilistico, avviati in diverse aree del Paese. Anche qui l’obiettivo è ricomporre la frammentazione del lavoro prodotta dai processi di esternalizzazione, sindacalizzare i lavoratori e stipulare contratti collettivi migliorativi in modo da ridurre il gap nelle condizioni di lavoro fra lavoratori diretti e in appalto, anche attraverso il coinvolgimento dei consigli d’azienda delle aziende appaltatrici, che sanciscano la responsabilità delle aziende appaltatrici nei confronti delle condizioni di lavoro dei dipendenti delle imprese in appalto. Progetti pilota sono stati definiti in diverse zone del paese, fra le quali il parco fornitori dell’Audi a Ingolstadt, i fornitori di Porsche e BMW nella regione di Lipsia e di Daimler nel Baden-Wuerttemberg. In altri casi, questo tentativo di utilizzare la forza contrattuale nelle aziende utilizzatrici per vincolare le aziende in appalto al rispetto di determinati standard sulle condizioni di lavoro dei propri dipendenti si è concretizzato nella stipula di Accordi Quadro Internazionali che si estendono anche ai fornitori delle aziende firmatarie (Telljohann et al. 2009). Nel settore pubblico, invece, questo tentativo ha preso la forma di regole sulle forniture di beni e servizi che vincolassero le aziende partner delle amministrazioni pubbliche al rispetto di determinati standard (Jaehrling 2014).
Nonostante la diversità di queste iniziative, si può evidenziare una comune la logica d’azione: utilizzare le relazioni di dipendenza fra azienda leader e fornitori per la promozione di migliori condizioni di lavoro e per promuovere meccanismi di market-embedding (Jaehrling 2014), ossia di regolazione delle dinamiche di mercato. In questo senso, diverse organizzazioni stanno cercando di trasformare un elemento di difficoltà per i lavoratori e per l’azione sindacale in uno strumento positivo di ri-regolazione e di tutela. Nonostante siano ancora piuttosto limitate e frammentate, quindi, queste iniziative meritano di essere seguite con grande attenzione.
Riferimenti bibliografici
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[1] Va evidenziato come nella dottrina e nella prassi giuridica italiana è ben presente la consapevolezza che “i processi di segmentazione dell’impresa producono lo spiazzamento delle discipline di protezione del lavoro subordinato” (Speziale 2010, pp. 7). Di conseguenza si è sviluppata l’idea che gli stessi committenti debbano essere resi responsabili nei confronti delle condizioni di lavoro di chi opera per i propri fornitori (Perulli 2009, De Luca Tamajo 2007, Salento 2006). Ciò si è tradotto nell’introduzione di forme di tutela che “prescind(ono) dalla titolarità formale del rapporto e che si lega(no) alle caratteristiche concrete con le quali si svolge il lavoro subordinato” (Speziale 2010, pp. 92). Esempi in questo senso sono la responsabilità in solido dell’appaltante (o committente) in tutela dei crediti previdenziali o retributivi dei dipendenti dell’appaltatore oppure le norme che definiscono una responsabilità dell’appaltante per la salute e la sicurezza dei lavoratori che lavorano all’interno del perimetro aziendale (Barbera 2010). Tuttavia, la disciplina della responsabilità solidale è stata fortemente compromessa da recenti interventi normativi.
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