Cristina Biondi: 45 Nuovo dizionario delle parole italiane da “Distanziamento” a ” Assorbente interno”
Glossario 45
Dal «Nuovo dizionario delle parole italiane»
DISTANZIAMENTO
Se mi distanzio, mi isolo, se mi avvicino, mi assembro. Secondo la teoria del giusto mezzo dovrei avvicinarmi distanziandomi, mi riesce bene se il mio è un giardinetto privato, separato da quello del vicino da un muretto o da una siepe. Il problema è come gestire il verde condominiale e la piazza del paese. Grazie al COVID sembra svanita quell’ostilità reciproca che rendeva deserto il cortile condominiale e poco attraente il raduno in piazza, organizzato da chi era nostalgico di forme arcaiche di socialità. Io non sono mossa da entusiasmi comunitari perché sono vecchia, un po’ meno sorda di quanto vado dichiarando e poco disponibile a intrupparmi nella folla. Il mio sospetto è che la nostra propensione a nuocere al prossimo al momento si esprima non solo attraverso diatribe politiche e liti tra vicini, ma ostentando un’olimpica indifferenza di fronte alla possibilità di infettare chiunque ci passi accanto. C’è chi si sente sereno come un Dio tra i mortali, convinto che saranno solo questi ultimi a subire le conseguenze di questa pericolosa frequentazione.
IL LUPO E LA MERENDINA
Non mangio merendine e, non avendo nipoti, gli unici bambini che vedo mangiare dolcetti vari e gelati vivono dentro gli spot pubblicitari. Nella mia infanzia ero malaticcia, magra e nervosa, e mia madre mi concedeva molto cibo, nutriente ma semplice, compatibile con la dieta che dovevo osservare. Quando la febbre era passata, magnificavamo insieme la bontà della patata lessa; l’amore per la mamma e quello per la patata erano inscindibili, sentimenti che dureranno tutta la vita. Non ero vegetariana, i miei erano istinti da lupo, senza sorveglianza avrei predato anche nel piatto degli altri commensali e la mamma era vigile, non voleva che stessi male dopo essermi abbuffata. Nelle pubblicità gli adulti offrono, offrono e offrono, una scatola di biscotti dà a tutti, grandi e piccoli, la stessa gioia leggera di una scatola di costruzioni Lego. Sembra non esserci l’esigenza di porre dei limiti, nessun genitore amorevole ha la necessità di intimare: “adesso basta!”. Mangiando si ride e si balla, tutto è buonissimo, ma senza una vera passione, manca la fame, quell’avidità di chi lotta per vivere, di chi ha superato la convalescenza con la voglia di farcela, di lasciarsi alle spalle la vicinanza al grande mistero che può sfiorare chiunque, anche i bambini. A quattro anni preferivo un cosciotto di agnello a una merendina e avevo le mie buone ragioni.
IL SACCHETTO DI PATATINE
Giorgino, otto mesi, si protende emettendo una serie di gridolini ritmati che esprimono l’eccitazione di un primate che ha visto il cibo. Come essere umano deve superare un grave difetto dell’ambiente in cui vive: il cibo non è mai solo, ma sotto il controllo di qualcuno e di conseguenza non è facile appropriarsene. Ancora non lo sa, non sa ancora stare al mondo, mentre mamma, papà e la signora delle patatine stanno dando prova di tutta l’abilità richiesta da un incontro tra conoscenti. La signora si è resa conto che, avendo il sacchetto delle patatine in mano, ha un ruolo nel gestire la situazione. Gli incontri tra conoscenti non hanno nulla di meraviglioso, quindi lei non si meraviglia del fulminio riconoscimento di Giorgino: il sacchetto, insolitamente rosso (come ha fatto Giorgino a riconoscere le patatine?), è già aperto, ma fluttua leggero sulla sua mano, le sue sono patatine in cerca d’autore, bisogna giocare con gli sguardi e le parole. Tutti gli adulti presenti sanno stare al mondo e i loro occhi, i loro corpi sono congelati in un atteggiamento prudente: per gestire la situazione servono le parole, anche se c’è una profonda precomprensione della situazione.
La signora delle patatine sa di dover rimanere immobile, né nascondere, né offrire con un gesto, ma chiedere il permesso di dare le patatine al piccolo. La voce della madre è incolore come un testo stampato: no Giorgino non può. La signora sa di non aver alcun ruolo nel nutrire quel piccolo d’uomo, bello e cicciotto nel suo costumino da bagno, non gli ha mai dato il seno e non gli darà le patatine: lei sa stare al suo posto. La madre è forse un po’ offesa, il suo seno non è più l’oggetto del desiderio, e si vendica producendo un fiume di parole incomprensibili per un piccolo di otto mesi. Aggiorna la conoscente sul postoperatorio della prozia, la rassegnazione regna sovrana sul destino di umani, il tono pacato della conversazione esonera da reazioni emotive. Il padre tiene in braccio Giorgino e non asseconda minimamente lo slancio del piccolo verso le patatine, è immobile come un candelabro che regga una candela. È sicuro del suo ruolo, si getterebbe tra le fiamme per salvare il figlio dal fuoco, ma non è il momento degli slanci, esercita con tutto il corpo il potere di negare e non proferisce parola, nemmeno sul postoperatorio della prozia di sua moglie. Giorgino continua a vocalizzare, ma non avendo alcuna presa sulla situazione, è scivolato in una ripetizione meccanica: sembra un piccolo automa che stia per scaricare le pile. Tutti gli adulti gli stanno dando una lezione: accetta che le parole ti taglino fuori, tu al momento non sei con noi, sei in quell’altrove dove spesso l’infanzia viene relegata, sei chiuso in una nursery costruita intorno a te, perché gli adulti sanno cos’è un bambino e sono bravissimi, se la situazione lo richiede, a farlo diventare una semplice cosa.
LA ZIA E LA PATATINA
Io sono stata una zia partecipe, sono una zia un po’ assente e defilata di nipoti adulti, aspiro con passione a diventare prozia, ma la passione non basta, perlomeno non basta la mia, ci vuole ben altro. Non sono mai riuscita, né riuscirò mai a pronunciare al cospetto di un bambino a parola “patatina” come si pronuncia “sedia”, “riunione sindacale”, “eventualità” o “postoperatorio”. “Patatina” va pronunciata come “buona”, “promessa”, “regalo”, “fragola”. Le zie sono entusiaste, ma non ingenue: “D’accordo, vuoi che compriamo queste: mah! Certo, c’è sul pacchetto la foto di questa bella cosina rossa: si chiama peperoncino. Assaggerai, ma non è detto che il peperoncino ti piaccia”. È stato un po’ dispendioso fare la zia, ma non ho trovato un’altra via: veder sputacchiare patatine al lime, alla paprika, alla curcuma, al pepe non è stato deludente, tutt’altro. Sull’assaggiare di tutto per me vale il motto: “vietato vietare”; l’importante è provare il commestibile ed evitare le sostanze tossiche. Per capire il cibo ci vuole una buona lingua, come per la musica ci vuole orecchio. Educare al gusto richiede pazienza, bisogna accettare con dolore che la cioccolata (ribattezzata cocciolata dalla piccola degenere) non piaccia, sopportare la spesa di un’infinità di marron glacè, consapevole che un’educazione culinaria aristocratica avrebbe indotto la mia principessa ad avere aspettative troppo alte nei confronti dei doni della vita.
NORMALITÀ E ANTIPSICHIATRIA
Tornare alla normalità dopo il COVID! Come si fa a tornare: scendendo nel fiume del tempo non ci si bagna mai nella stessa acqua; i minuti, i giorni, gli anni della mia vita già trascorsi se ne sono andati per sempre. La normalità è quanto mai desiderabile e io ho passato la vita a chiedermi quali confini la contengano; oltre i suoi limiti ci sono i matti di tutto il mondo, compresi quanti si sono scompensati in corso di pandemia. Il DSMV (V: leggi quinta edizione, non V di Vaso), bibbia della moderna psichiatria, ai miei occhi esaurisce tutte le possibilità del reale e sospetto non contenga alcun profilo dell’uomo normale (presumo, non l’ho letto tutto, per non perdere, cammin facendo, quella sana curiosità che orienta i miei studi). Sarebbe utile stabilire una liturgia per gli addetti ai lavori, con la lettura di un capitolo del manuale ogni venerdì, giorno che manca nella vita dei matti, ma non nella settimana degli psichiatri, in alternativa al progetto, nato in America in ambiente protestante, di giungere a una conoscenza integrale del testo, comprendendo, nel novero dei potenziali pazienti, tutta l’umanità.
POTERI DELLO STATO
La democrazia divide i poteri dello Stato, ognuno ha il suo ambito di azione e non è un triunvirato, dove tre uomini si spartivano i territori dell’impero. Non è mai esistita una coesistenza di poteri senza conflitti: in teoria ognuno dovrebbe restare nel suo ambito, chi legifera dovrebbe essere libero di legiferare, chi giudica, di giudicare, chi esegue, di eseguire. Ma, come i triunviri non sono mai riusciti a non invadere la terra d’altri, così i poteri dello stato non possono fare a meno di entrare in conflitto, perché il potere è il potere e, come disse il saggio, il potere logora chi non ce l’ha o comunque chi ne ha di meno e vede sconfinare nel proprio territorio chi ne ha di più. C’è chi insegue solo i vantaggi personali, chi la propria ideologia, l’oceano della politica è agitato da consensi e dissensi, le maree determinano chi sale e chi scende nei sondaggi e di continuo si confrontano la responsabilità e l’audacia, l’onestà e il crimine organizzato, le utopie e le distopie. Per semplificarci la vita potremmo dimenticare la nostra realtà locale di staterello della vecchia Europa per accettare di vivere all’ombra delle ali di una grande potenza, senza però riuscire a prevedere se sopra le nostre teste volerà un’aquila testabianca o un drago imperiale.
L’AFRICA È NERA
Un italiano è stato recluso in carcere africano, sottoposto a privazioni in un calore infernale, confinato in uno stanzone gremito di altri prigionieri che meglio di lui erano in grado di sopportare la situazione, loro erano africani in Africa. Bisognava assolutamente riportare in patria il nostro connazionale, fargli dimenticare l’orrore e non rimanere implicati nelle faccende locali: hic sunt leones. Perché allora ci interessa il destino degli Uiguri? Certo, è nostro dovere combattere i nemici della libertà, ma solo dove gli aguzzini sono anche i nostri nemici (combattiamo solo e soltanto i nostri nemici per salvaguardare i nostri interessi); nei luoghi sperduti della terra la violenza non ci coinvolge e ci sembra logico che torturatori e vittime se la vedano tra loro, tutt’al più ci affidiamo alla neutralità degli antropologi per avere dettagliati rapporti sulla singolarità dei loro usi e costumi.
ASSORBENTE INTERNO
Oggi mi sono lavata le mani con il sapone studiato per l’igiene intima. Una mano è già stata lavata così ogni mattina, dal momento che le parti intime non si lavano da sole, per l’altra è stata una novità. Mi sono guardata allo specchio, i miei occhi hanno puntato diritto alle pupille, oggi non mi metto la crema antiage, tuttalpiù un collirio. Però non c’è un collirio sulla consolle del bagno. Ieri una pubblicità ha fatto sapere alle ragazzine che gli assorbenti interni non hanno un effetto deflorante. È stato anche utile avvertire che, stando in piedi, il tampone non cade da solo tra le gambe come se fosse un aborto al terzo mese.
Io mi sono sentita indignata, più di quando una bella attrice ha sputato sangue (spero finto, come nelle tragedie shakespeariane) nel lavandino per pubblicizzare un collutorio antiplacca. Sono in menopausa da molti anni, ai miei tempi fanciulle e donne avevano “le loro cose”, loro e di nessun altro. Le madri istruivano le figlie, le compagne di scuola si attardavano nei bagni delle ragazze per condividere piccoli e grandi segreti, ma che gli assorbenti interni radunassero intorno a sé un’intera troupe cinematografica per me era sino a ieri assolutamente impensabile. In spregio agli spot televisivi e relativi consigli, sono tentata dal lavarmi anche il viso con il sapone per l’igiene intima, ma la prudenza mi suggerisce di non farlo, dal momento che non ho un collirio. La perdita del pudore, della riservatezza, dei misteri femminili custoditi di donna in donna mi sgomenta, ma non merita le mie lacrime e credo che non riuscirei a piangere sul latte versato nemmeno costringendomi all’uso improprio di un detergente intimo.
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