Bruno Amoroso, Nico Perrone: Capitalismo predatore. Il paradosso del calabrone.
Dal libro Capitalismo predatore di Bruno Amoroso e Nico Perrone (Castelvecchi, Roma 2014) riportiamo, con il consenso dei due autori la premessa che ha come titolo Il paradosso del calabrone
Nella sua seconda lezione di Roskilde, in Danimarca, Federico Caffè ricordava agli studenti che quando si parla dell’economia italiana è necessario fare riferimento al calabrone, un particolare animale che secondo le leggi della dinamica non potrebbe volare, ma che nei fatti continua a volare. E di questo paradosso Caffè fornì alcune indicazioni centrate sull’attenzione eccessiva data, a suo avviso, agli aspetti congiunturali utilizzati come strumento di «allarmismo economico», con fini economici e politici manipolatori, mettendo così in ombra aspetti strutturali come la distribuzione dei redditi, le politiche industriali, energetiche, dell’edilizia popolare, del problema giovanile, dell’evasione fiscale, dell’agricoltura e dell’occupazione. Una manipolazione alla quale, osservava stizzito, si sono piegati anche i sindacati e le forze politiche progressiste che di questi aspetti dovrebbero essere i maggiori custodi.
In un recente articolo dal titolo Qual è il problema dell’Italia?, l’economista statunitense Paul Krugman rivela di essere al lavoro a un progetto di ricerca che lo appassiona da tempo e che riguarda l’interrogativo su cosa sta succedendo in Italia. Un interrogativo da sciogliere, a suo avviso, perché il confronto che viene spesso fatto con la situazione di Spagna e Grecia all’interno dell’eurozona non è affatto convincente.
I dati economici sono contraddittori, e mentre si presta attenzione al debito elevato e ai deficit non alti, ci si concentra su problemi di regole, ampiezza delle aziende, sulla qualità dell’esportazione trascurando a suo avviso quello che è il fatto più caratteristico, e cioè la continua bassa produttività del sistema economico italiano a partire dalla metà degli anni Novanta. Nonostante le sue esperienze di ricerca e di osservatore e nonostante si parli di un Paese importante, Krugman ammette di non riuscire a capire la situazione. D’altronde le sue sono riflessioni di un osservatore esterno, anche se attento, capace certamente di individuare segnali e indicatori importanti ma con la difficoltà obiettiva di penetrare in cause dovute a fenomeni storico–politici di più lunga durata.
Questi interrogativi non possono che angustiare anche noi che da tempo segnaliamo il carattere pretestuoso dei temi messi ripetutamente al centro del dibattito politico. Temi ai quali si addebitano da decenni le cause della crisi, mentre ne sono i sintomi, e le cause ben più strutturali sono da ricercare altrove. Di fronte alla difficoltà di dare spiegazioni coerenti dei problemi e delle loro cause, ricercatori e osservatori sono stati costretti a ricorrere a strane categorie, come quella del «miracolo», per spiegare passaggi importanti della storia economica dell’Italia. Un Paese certamente brillante sia dal lato economico sia culturale, spesso iniziatore e promotore di grandi cambiamenti culturali e politici e, non da ultimo, di trasformazioni economiche, ma che fattori non percepibili hanno sempre condannato a essere secondo o terzo, o ancora più indietro nelle classifiche dei Paesi europei più sviluppati.
Una constatazione questa che ha provocato sgomento tra le figure più in vista della cultura italiana e tra i maggiori economisti che, come Federico Caffè, facevano spesso riferimento «a questo sventurato Paese». Un’immagine che riflette la percezione che i mali non trovano spiegazione nei vizi e nelle virtù degli italiani, come giornalisticamente si tende in modo affrettato a concludere, ma debbano avere cause esterne più profonde che ne influenzano la vita e i percorsi.
Fu un grande storico, Fernand Braudel (1902–1985), a sottolineare il peso dell’Italia nella cultura europea. Egli affermò che «l’Italia è stata culturalmente il primo Paese d’Europa per molti anni», «il Paese più intelligente», «più nuovo, con ottimi scrittori, con straordinari uomini di lettere, con eccellenti registi e sceneggiatori». Sensibile anche agli aspetti più moderni della cultura, Braudel espresse il suo giudizio in un’intervista, senza avere più l’occasione di lavorarci meglio intorno. Quella sua intuizione aveva il distacco di un giudizio espresso da uno straniero, non sospettabile di spirito di parte. Braudel non toccò gli aspetti economici: che pure esprimevano creatività e cultura, quando non erano limitati a interessi materiali contingenti.
Anche Alcide De Gasperi (1881-1954), fra gli uomini politici, usava mettere l’accento sulla cultura italiana, «per cui», tornando al grande storico, «l’Italia rimane nella storia il Paese più fecondo». Essa «non si è neppure accorta di quel che era, perché non ha sentimenti di superiorità». Quello sviluppo, nel suo insieme, lo hanno vissuto meglio le generazioni successive, ma non sempre esse hanno saputo capirlo nella sua complessa interezza, né difenderlo. In quegli stessi anni l’Italia ha compiuto (1974) il grande balzo con l’ingresso nel G-7, in posizione elevata e per lungo tempo stabile. Il mondo correva verso conquiste materiali, e nessuno stette a sentire Braudel, né mai s’è ricordato di quelle sue parole.
A operare per quella complessa costruzione d’insieme pensarono anche gli uomini politici – una generazione molto creativa che annoverò non soltanto la grande personalità di Alcide De Gasperi, ma anche un leader dell’opposizione della statura di Palmiro Togliatti (1893-1964) –, un tessuto imprenditoriale innovativo con l’Eni e il sistema delle partecipazioni statali, grandi imprenditori come Adriano Olivetti e, infine, la capacità di mobilitazione e generosità di tutto il popolo italiano. Accanto ai promotori veri e propri, ci fu anche l’azione dell’opposizione, che in modo costruttivo operò per limitare gli eccessi di una sorta di monopolio politico-finanziario statale e per indirizzare quell’organismo più positivamente verso gli interessi nazionali, al di là dei calcoli di partito.
In settori diversi della ricerca e dell’impegno politico-culturale – quello della storia e dell’economia – ci siamo rispettivamente impegnati e interrogati sulle occasioni perdute della società italiana, incontrando le stesse frustrazioni e le stesse carenze conoscitive, e questo ci ha spinti a un confronto e a uno sforzo comune di lettura e interpretazione. Il periodo scelto è quello della seconda metà del Novecento, e il tema è la storia delle vicende che hanno caratterizzato l’econo– mia italiana nei loro risvolti politici.
Una storia i cui semi furono posti verso la fine della Seconda Guerra Mondiale con le scelte gloriose e co– raggiose che determinarono la collocazione dell’Italia nella guerra al nazifascismo, nonostante il fallimento delle classi dirigenti e delle istituzioni, e con un contri- buto originale alla ricostruzione e al pensiero europeo del dopoguerra.
Paul Krugman richiama l’attenzione su un aspetto specifico dell’economia, la constatazione della «bassa produttività del sistema italiano», registrata in modo costante dalla seconda metà degli anni Novanta. Il ri- ferimento di un economista alla «bassa produttività» contiene la domanda ben più pesante sulle ragioni dell’arretratezza strutturale del sistema economico italiano. Domanda che può trovare risposta in due direzioni.
La prima, quella più diffusa, ne cerca le cause nell’incapacità imprenditoriale e nella scarsa efficienza, legate all’arretratezza della società italiana nel suo complesso e a tratti culturali «mediterranei» visti come una colpa.
La seconda, alla quale si rifà questo testo, richiama l’attenzione sulla colonizzazione culturale, politica e del suo sistema produttivo alla quale è sottoposta l’Italia a causa della sua grande importanza geo–politica e geo-economica. Una colonizzazione che ha mirato a utilizzare le risorse naturali e umane di cui questo Paese dispone ma tenendolo con la testa a fior d’acqua, per impedirgli di affogare ma anche di prendere una corsa autonoma che lo porterebbe a contestare il ruolo europeo di egemonia svolto arbitrariamente dalla Francia e dalla Germania. Per queste ragioni le osservazioni precedenti degli economisti sono a nostro avviso dense d’implicazioni e la ricerca delle cause costituisce il filo rosso di questo racconto. Racconto, sì, perché non c’è molto da scoprire, i fatti sono pubblici e in parte noti.
L’originalità della narrazione che qui presentiamo risiede nello sforzo di mettere insieme informazioni su episodi e fatti appartenenti ad aree diverse del sapere, e nel senso d’«irresponsabilità» che ci ha animati nel riproporre eventi e interpretazioni che il «sapere convenzionale» rifiuta di ammettere, a Destra per non dichiarabili interessi e complicità, e a Sinistra pensando di ricavare qualche dividendo del potere dalla sua distrazione e con l’omertà rispetto ai numerosi omissis di Stato segretamente custoditi dalle istituzioni.
Diverse letture hanno contribuito a documentare per particolari periodi storici le vicende che hanno bloccato o spinto all’indietro le possibilità del sistema economico e della società italiana nel suo tentativo di liberarsi dalle strettoie di una forma di emancipazione che non fosse la replica dei modelli di sviluppo dettati dagli interessi geo–politici e geo-economici delle maggiori potenze occidentali. Ma la tendenza prevalente è di trovare la causa di queste sconfitte in aspetti particolari, i ritardi nella ricerca o i conflitti all’interno di questa, la politica, la corruzione, ecc., lasciando in ombra quello che è stato a nostro avviso il problema centrale, la madre di tutte le battaglie: il contrasto di interessi nazionali tra i maggiori Paesi europei e gli Stati Uniti da un lato e una potenza emergente come l’Italia dall’altro.
Con questo intendiamo aprire un capitolo trascurato nel periodo seguente al 1945, interpretato tutto in chiave di conflitti Est–Ovest, che è invece quello delle guerre in Occidente, delle quali l’Italia è stata un bersaglio costante. Non si è trattato solo di un fenomeno che ha interessato gli anni dell’immediato dopoguerra, ma è una costante dei conflitti interni all’Unione europea fino ai nostri giorni. È all’interno delle tensioni tra Est–Ovest nel periodo della Guerra Fredda e dell’egemonia americana, di quelle tra Stati Uniti, Germania e Russia dopo l’89, e infine dello scontro all’interno dell’Europa tra potenze «coloniali» (Francia, Gran Bretagna e Germania da un lato e Paesi orientali e Russia dall’altro) che va letta la vicenda italiana per il ruolo autonomo che ha cercato di svolgere.
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