Attilio Andreini: Esiste una “vera” Cina? La “verità” non può essere imposta.

| 8 Marzo 2022 | Comments (0)

 

 

Grande statua (alta 58m) di Guan Yu, incarnazione storica della divinità marziale (武帝 wǔdì), protettore delle arti marziali cinesi, a Jingzhou, Hubei. È una delle statue più alte del mondo,

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Attilio Andreini: Esiste una “vera” Cina? La “verità” non può essere imposta

( da La Lettura del Corriere della sera del 6 marzo 2022)

Esiste una “vera” Cina? Qualsiasi risposta non può prescindere dal riconoscimento del ruolo chiave del Partito comunista cinese (Pcc) e del peso della narrazione che esso offre della Cina stessa. Vi sono altri soggetti legittimati a dare rappresentazioni alternative e autorevoli della Cina? Oppure la via d’accesso alla “vera” Cina è garantita solo dal Pcc? Se così fosse, l’imprescindibilità del Pcc sarebbe spinta fino alle più trionfali conseguenze e ad esso andrebbe imputata la fusione, dagli effetti perniciosi, tra partito e stato, tra governo e società, tra ideologia e cultura. Ciò soffocherebbe ogni dibattito: infatti, se la pervasività del Pcc è tale da saturare ogni spazio critico, qualsiasi giudizio su di esso è destinato a tramutarsi in un giudizio sulla Cina e viceversa.

Personalmente ritengo che un dibattito sia necessario e che un modo efficace per alimentarlo sia accantonare le pretese di verità. Il rischio di derive sinofobiche è dietro l’angolo e mai come adesso si sente il bisogno di offrire letture critiche che prendano le distanze da sbrigative e pericolose identificazioni tra società e governo. Fa riflettere che conclusioni tanto sommarie coincidano, paradossalmente, con la premessa da cui le autorità cinesi si muovono per affermare la loro verità. Credo che ci sia un modo per superare questa impasse e dar vita così a un “vero” dibattito: rinunciare alla “verità”.

La tradizione culturale di cui il Pcc si sente degno erede non ha certo assegnato alla “verità” un ruolo centrale. Sono numerosi i critici (tanto in Cina quanto fuori) convinti del fatto che quel ricchissimo patrimonio speculativo elaborato a partire dalla classicità cinese non abbia effettivamente concentrato l’obiettivo primo della conoscenza verso la ricerca della verità. Seppur articolata in vari modi, l’opinione di fondo condivisa da un folto numero di studiosi poggia sull’idea che i testi filosofici cinesi antichi enfatizzino piuttosto questioni relative all’identificazione e alla traduzione pratica del dao, l’ineffabile principio cui tutto obbedisce, che emana sia le leggi cosmiche sia quei dettami che ispirano il singolo a comportarsi in modo esemplare. Confucio è maestro insuperato nel mostrarci la natura composita e prospettica del dao: si dice che, dopo aver sottoposto ai propri discepoli un determinato aspetto di un problema, essi ne dovessero evidenziare almeno altri tre ad esso correlati, non essendo sufficiente un’unica visione che ignori tutti gli altri possibili punti di vista (Dialoghi 7.8). Anche quei critici che asseriscono quanto una tematizzazione carsica della verità sia pur sempre riscontrabile nel pensiero cinese confermano comunque come “conoscere, comprendere” (zhi) implichi sostanzialmente l’elaborazione di capacità di risposta di volta in volta appropriate nei confronti di una realtà perennemente fluttuante, piuttosto che un saper rappresentare in modo “vero” le cose. La comprensione avviene prima di tutto attraverso una penetrazione del grado d’interconnessione tra le realtà esistenti. A differenza di una pretesa di verità, la percezione del saggio consente di rilevare con acutezza i legami profondi tra i fenomeni, ovvero la loro mutua dipendenza. L’osservazione rivela la dimensione ampia e relazionale delle cose, come invoca, ad esempio, il Classico dei Mutamenti. Condurre un’analisi scrupolosa comporta quindi l’elaborazione di un sistema di rappresentazione della realtà fondato su interconnessioni soggette a costanti ridefinizioni e su rapporti complessi.

La Cina rappresenta una realtà che mal si presta a un’interpretazione riduttiva finalizzata alla scoperta di una verità, soprattutto se unilaterale e preventiva. In tal senso, prendere a modello gli antichi pensatori cinesi e stemperare questa sete di verità potrebbe rivelarsi estremamente fecondo. La verità non pertiene ai fatti e al mondo, ma alla loro rappresentazione, ovvero all’elaborazione di enunciati che possono essere veri o falsi. Epistemologia e ontologia non vanno confuse: la prima si occupa di ciò che sappiamo (e, dunque, anche della verità), l’altra di ciò che esiste, dell’essere. Abbandoniamo ogni pretesa di “verità” unilaterale, quasi che la Cina abbia davvero bisogno di essere “vera” per esistere. Esiste, esiste… eccome se esiste!

Category: Ambiente, Economia, Guerre, torture, attentati, Lavoro e Sindacato

About Attilio Andreini: Attilio Andreini è professore ordinario di Lingua cinese classica all'Università Ca Foscari di Venezia. Si occupa di filologia, paleografia e trasmissione del sapere nella Cina antica. Tra le sue pubblicazioni: Il pensiero di Yang Zhu (IV secolo a.C.) attraverso un esame delle fonti cinesi classiche, Trieste, 2000; Laozi. Genesi del Daodejing, Torino 2004; Il daoismo, Bologna, 2007 (con M. Scarpari); Sun Tzu. L'arte della guerra, Torino, 2011 (con M. Biondi); Laozi Daodejing. Il Canone della Via e della Virtù, Torino, 2018; Grammatica della lingua cinese classica, Milano, 2020 (con M. Scarpari).

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