E’ morto Giorgio Lunghini: un economista di sinistra e un caro amico
La notizia della morte di Giorgio avvenuta a Milano nella mattina del 22 dicembre mi ha addolorato moltissimo. Siamo diventati amici vivendo insieme per quattro anni, dal 1956 al 1961, nel milanese Pensionato Universiario della Bocconi. Ci siamo laureati insieme diventando lui assistente di economia politica con Ferdinando Di Fenizio ed io di statistica con Francesco Brambilla e poi abbiamo continuato a vederci in iniziative organizzate dal sindacato o da”Inchiesta”. Giorgio è stato un economista di sinistra di grande valore, studioso di Marx e di Keynes con grande attenzione alle problematiche sindacali e alla innovazione tecnologica.
Un abbraccio affettuoso a sua moglie anche lei nostra compagna del Pensionato Bocconi.
Per ricordarlo un saluto di Mario Agostinelli e un suo scritto, pubblicato nel Il manifesto del 31 agosto 2001 che è di grande attualità.
1.Mario Agostinelli: Lunghini e la sinistra, critica tagliente all’antipolitica,
Da un po’ di tempo Giorgio Lunghini, così assiduo alle frequentazioni sindacali cui donava la sua lucidità essenziale, non ci regalava quell’affetto che di persona aveva corrisposto a due generazioni contigue: quella mia e quella dei suoi amatissimi studenti.
Un affetto speciale, un po’ tra l’aristocratico dello studioso ricchissimo di talento e la calorosa familiarità di quanti operano fuori Milano, città avara di manifestazioni dei sentimenti.
Agli appuntamenti politici e sociali degli ultimi anni, si era diradata quella sua comunicazione asciutta e densa (scriveva come Pintor, si diceva di lui) che sapeva arricchire ogni passaggio di riflessione della sinistra e del sindacato lombardo.
Ho avuto la fortuna di apprezzare il suo apporto speciale, quando la Cgil Lombardia provava a raccontare «un’altralombardia» e si faceva carico di uno scontro sociale poco ascoltato dalla politica romana e che oggi arriva, purtroppo da vincitore, nelle istituzioni nazionali.
Un confronto difficile con forze ed umori impastati di ostilità verso il pubblico, indifferenza all’accoglienza e impermeabili a forme di solidarietà che non scadessero nel corporativo e non andassero oltre angusti confini.
Lunghini capiva che già qualche decennio fa prendevano forma le derive di un potere che dalle regioni e dalle valli ricche del Nord sarebbe dilagato oltre il Po. Non solo il frutto di Bossi, Salvini e Berlusconi, ma anche quello correo e più trasversale di Formigoni, della borghesia irridente alle devastazioni ambientali, degli industriali di grido di Varese Milano e Brescia, ancora in vista oggi e non certo sofferenti di fronte alle scorrerie anticostituzionali praticate da governanti amici.
A quella rovina Lunghini aveva contrapposto fin dal suo apparire tutta la raffinata potenza del suo sapere ed una elaborazione che si faceva piattaforma rivendicativa. Vedeva lontano, con quel richiamo insistito caratteristico anche dei suoi articoli su Il manifesto (qui e qui dallarchivio storico, ndr) a specifici articoli della nostra Costituzione, in cui individuava obiettivi unitari per la sinistra e che incorporava nelle sue sollecitazioni di fronte ai passaggi più critici.
Forse si era ben accorto che era in atto una violenta torsione della vita politica, con il passaggio dalla logica della rappresentanza a quella della governabilità e, soprattutto per questo, quella politica si allontanava da lui, dal ruolo attivo del sindacato, riducendosi al nucleo duro della competizione per il potere.
Prosciugate le tradizionali identità, contava solo l’imperativo di vincere, e a questa lotteria per il potere molti di noi non hanno più voluto direttamente partecipare. Quando avverrà, sarà a disposizione un materiale straordinario su cui riprendere a pensare e lottare, ricordando la decisione, la critica appropriata e la tagliente gentilezza con cui Giorgio smontava l’antipolitica incombente, ogni volta che comunicava con le persone reali, i suoi studenti o il mondo del lavoro, portatori ciascuno di vissuti concreti.
2. Giorgio Lunghini: Il problema è il governo della complessità. E’ ingenuo contrapporre il modello relazionale, tipico del “popolo di Seattle”, alle forme strutturate di organizzazione
La domanda di Luigi Cavallaro – “Cosa vuole, allora, il popolo di Seattle?” – è una domanda provocatoria soltanto nel senso in cui lo sono tutte le domande intelligenti. Ma è anche una domanda che suppongo rivolta a tutta la sinistra: come governare il processo di globalizzazione?
Circa la fase più recente del capitalismo sembra prevalere l’idea che essa abbia tale carattere di novità, da rendere necessarie nuove teorie economiche per studiarla e nuove filosofie politiche per abitarla. Gli storici ci raccontano invece che la globalizzazione dell’economia (così come la sua finanziarizzazione) risale al XVI secolo e si dispiega tra il 1870 e il 1914 con la Grande Depressione: come scriverà Marshall, con la prolungata “depressione dei prezzi, depressione degli interessi e depressione dei profitti”. Soprattutto dei profitti. La grande teoria economica, da Smith a Marx a Schumpeter, d’altra parte ci spiega che il capitalismo ha vocazione internazionale per il fatto stesso di avere come fine la realizzazione di un profitto; e che la capacità del capitalismo di mutare forma per conservare la propria sostanza è la sua caratteristica principale. Sarebbe dunque ingenuo meravigliarsi dei cambiamenti intervenuti nella dinamica dei sistemi capitalistici, e improvvido rinunciare agli strumenti tradizionali di analisi e di politica economica. Molti sostengono, sia a destra sia a sinistra, che con la fine del ciclo fordista e il conseguente avvento della globalizzazione le forme tradizionali di organizzazione dei movimenti politici e di governo dell’economia e della società dovrebbero essere abbandonate. Io credo invece che i partiti e lo stato avranno un peso decisivo nel contrastare, o nel consentire, la definitiva riduzione della società civile al mercato e del legame sociale al cash nexus. (Quanto sta avvenendo oggi in italia è dimostrazione del secondo possibile esito; e non è incoraggiante ricordare che i partiti e gli Stati europei, dopo la caduta del Muro, per scelta hanno assecondato l’ondata liberista).
“Soprattutto dei profitti”. Secondo Gramsci, che prontamente e meglio di altri ne aveva colto l’essenza, il fordismo risultava dalla necessità di superare il vecchio individualismo economico per giungere alla organizzazione di una economia programmatica, appunto al fine di contrastare la caduta tendenziale del saggio dei profitti. Il programma fordista richiedeva che nell’economia e nella società funzionasse la ‘legge degli sbocchi’ di Say, legge che in verità è un caso particolare e secondo la quale è la stessa produzione, l’offerta di merci, che crea il fondo da cui scaturisce la domanda delle merci. La produzione fordista era infatti produzione di massa di beni di consumo durevoli standardizzati e destinati prevalentemente al mercato interno. Erano necessari grandi investimenti, capaci di cospicui effetti moltiplicativi sul reddito e sull’occupazione. Era possibile, e necessaria, una spartizione tra capitale e lavoro salariato dei guadagni di produttività generati dalla organizzazione tayloristica del lavoro. Il salario, per riprendere la formulazione di Sraffa, non doveva figurare soltanto come il combustibile per le macchine o il foraggio per il bestiame, ma doveva comprendere anche una parte del sovrappiù prodotto. Se il mercato è prevalentemente interno, soltanto con una politica di alti salari la produzione e dunque i profitti possono essere realizzati. Alti salari significano alti costi di produzione, ma rendono possibile che gli stessi lavoratori acquistino le merci da loro prodotte. L’organizzazione tayloristica del lavoro nella fabbrica, d’altra parte, aveva bisogno di essere accompagnata da forme appropriate di politiche economiche e sociali di sostegno. La coercizione doveva dunque essere combinata con la persuasione e il consenso e questo poteva allora essere ottenuto mediante una maggiore retribuzione e altri benefici, che permettessero un tenore di vita capace di mantenere e reintegrare le forze logorate dal nuovo tipo di fatica. L’altra faccia del benessere materiale era uno stretto controllo delle condizioni di vita in generale: “Ford dà 6 dollari al minimo, ma vuole gente che sappia lavorare e sia sempre in condizione di lavorare, che cioè sappia coordinare il lavoro col regime di vita”.
Gramsci pensava che il fordismo potesse essere il punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’industria di superare la legge della caduta tendenziale del saggio dei profitti: “Non appena i nuovi metodi di lavoro e di produzione si saranno generalizzati e diffusi, appena il tipo nuovo di operaio sarà creato universalmente e l’apparecchio di produzione materiale sarà ancora perfezionato, il turnover eccessivo verrà automaticamente ad essere limitato da una estesa disoccupazione e gli alti salari spariranno”. La previsione di Gramsci circa la fine del fordismo (e degli alti salari) si avvera con la crisi dei primi anni Ottanta del secolo breve. Il fordismo, tuttavia, non è “il punto estremo” di quei tentativi di contrastare la caduta tendenziale del saggio dei profitti. Come risposta a quella crisi si apre la fase attuale della globalizzazione capitalistica; nella quale si rompe il nesso tra produzione e occupazione e tra crescita della produttività del lavoro e crescita del salario e nella quale, contro le promesse del liberismo, anziché la diffusione del benessere si afferma l’incertezza circa il futuro dei nuovi working poors e la prepotenza politica dei nuovi e sempre più ricchi rentier. Il mercato delle merci non ha confini e non ha confini la domanda di lavoro. Il capitale non ha nazione e cerca forza lavoro là dove questa costa meno, mentre resta confinata al mercato nazionale l’offerta di lavoro. Il salario viene contabilizzato soltanto come costo di produzione, non anche come domanda effettiva. Un livello elevato di occupazione non è più redditizio. Sono cambiati i termini del rapporto tra capitale e lavoro salariato; e sono cambiati i termini del patto tra capitale e classe politica nazionale per quanto riguarda la configurazione dello Stato sociale. Si potrebbe dire, con una ambigua espressione degli anni trenta, che si tratta di una forma di “razionalizzazione sbagliata”, una razionalizzazione che mentre abbassa i costi di produzione di una impresa singola, eleva i costi sociali di produzione, “arricchendo l’individuo e impoverendo la società”. Si afferma così l’imperdonabile semplificazione per cui quel che va bene per le singole aziende, andrà bene per l’economia tutta e dunque per la società (scontando, con Margaret Thatcher, che “non esiste niente che possa chiamarsi società”, ma che esistono soltanto individui in lotta tra loro).
Circa le conseguenze della tecnologia dell’informazione, è ovvio che per le singole imprese questo tipo di innovazione comporti aumenti di produttività, per il semplice fatto che si tratta di un cambiamento tecnico labour saving nel senso di risparmio di lavoratori. Molti promettono che gli effetti negativi sull’occupazione in alcuni settori saranno compensati da dinamiche di segno opposto in altri settori. Circa i meccanismi di compensazione, tuttavia, io resto dell’idea di Ricardo (che non era un luddita): “sono convinto che la sostituzione delle macchine al lavoro umano sia spesso assai dannosa agli interessi della classe dei lavoratori”; un’idea confermata dagli spostamenti nella distribuzione della ricchezza e del reddito tra paesi ricchi e paesi poveri, e tra ricchi e poveri all’interno dei paesi ricchi. E’ questa una dinamica minacciosa da un punto di vista politico, ma anche da un punto di vista strettamente economico, poiché impone pratiche spietate all’insegna del beggar-my-neighbour e prefigura coincidenti crisi da sproporzione, di realizzazione e da tesaurizzazione. Il rischio è moltiplicato dalla crescente dissociazione tra finanza e economia reale. Prima della fine di Bretton Woods, circa il 90% di tutte le transazioni in valuta estera servivano a finanziare il commercio o investimenti a lungo termine, solo per il 10% erano a breve termine. Oggi le percentuali si sono rovesciate: per oltre il 95% si tratta di transazioni a breve termine. Le conseguenze più importanti dei cambiamenti in atto nelle tecniche di produzione e nelle forme di organizzazione del lavoro sono quelle sull’occupazione e sulla distribuzione del prodotto sociale. Le prime sono diverse nelle diverse aree; le seconde sono universali e conducono a una crescente ineguaglianza, tra paesi e all’interno dei singoli paesi, quanto a reddito disponibile e a condizioni di povertà umana (i dati sono noti o si possono trovare, ad esempio, nel Rapporto Undp 1999 sullo sviluppo umano. La globalizzazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1999).
Il regime fordista era caratterizzato da due relazioni robuste e stabili: tra produzione e occupazione nella sfera della produzione, tra crescita della produttività e crescita del salario nella sfera della distribuzione. Entrambe sono venute meno, e tutte e due a seguito delle nuove forme del cambiamento tecnico e della organizzazione del lavoro. La prima discontinuità rispetto all’epoca fordista può essere riassunta nel seguente fatto stilizzato: è ancora vero che se la produzione cala l’occupazione cala, ma non è più vero l’inverso, che se la produzione riprende anche l’occupazione riprende. Venuta meno la relazione biunivoca e stabile tra occupazione e produzione, viene meno la possibilità di ridurre la disoccupazione tagliando i salari e aumentando la flessibilità del lavoro: l’unico risultato certo sarebbe un aumento dei profitti e delle rendite. Per quanto riguarda la seconda discontinuità rispetto all’epoca fordista (la dinamica salariale non è più commisurata alla dinamica della produttività), essa dipende da due circostanze: la produttività del lavoro è sempre più una manifestazione del general intellect, mentre cresce l’esercito industriale di riserva (oggi composto dai disoccupati e dai lavoratori precari). Diventa perciò possibile continuare a pretendere “gente che sappia lavorare e sia sempre in condizione di lavorare”, senza più dover pagare “6 dollari al minimo”. È il punto di vista di Sir James Steuart: “Considero dunque le macchine come dei mezzi per aumentare il numero di persone industriose che non si è obbligati a nutrire”.
I conseguenti cambiamenti nella distribuzione della ricchezza e del reddito tra le differenti classi della società, d’altra parte, costituiscono la principale causa antagonistica, nella sfera della distribuzione, alla caduta del saggio dei profitti altrimenti associata alla progressiva sostituzione di macchine a lavoratori. Tutto ciò non ha cambiato affatto la sostanza del rapporto tra capitale e lavoro salariato, ha soltanto peggiorato le condizioni di questo in termini di salario e di condizioni di lavoro. Il cosiddetto ‘lavoro autonomo’ non è meno salariato che in passato, poiché tale è qualsiasi lavoro eterodiretto, qualsiasi prestazione d’opera la cui quantità, qualità e remunerazione dipenda dalle decisioni del capitale circa la scelta delle merci da produrre, delle tecniche di produzione e delle forme di organizzazione del lavoro. L’apparente autonomia di molti ‘nuovi lavori’ in realtà nasconde il ritorno a forme di lavoro servile, prive di qualsiasi mediazione o protezione sindacale o istituzionale. La questione dello Stato, della distinzione tra agenda e non agenda, si pone o si svela proprio qui: nella posizione che al lavoro si riserva o si nega nella costituzione formale e materiale di una società. C’è una ragione molto semplice, pratica anziché filosofica, per la quale soltanto allo Stato può essere affidata (o tolta, beninteso) la tutela del lavoro, ed è che soltanto uno Stato può indirizzare a tale fine il governo della moneta, del prelievo fiscale e della spesa pubblica.
Per non annoiarli, non torno su ragionamenti che ai lettori del manifesto ho proposto più volte e che non sono condivisi né dalla destra, né dalla sinistra (“così credo proprio di essere stato capace, una volta tanto, di accontentare tutti”). Mi limito a ricordare che ci sono eccellenti ragioni teoriche, oltre che pratiche, per non credere al principio del laissez faire e per aderire alla Filosofia sociale di un autore, Keynes, non marxista ma più radicale di qualsiasi economista contemporaneo: i difetti più evidenti della società economica in cui viviamo sono l’incapacità a assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito; occorre dunque una redistribuzione, per via fiscale, della ricchezza e del reddito, un governo della moneta inteso all’eutanasia del rentier e una socializzazione di una certa ampiezza del processo di accumulazione del capitale. Dunque occorre non un minore, ma un maggiore intervento dello Stato.
Il “popolo di Seattle”, cui si rivolge in prima istanza la ‘provocazione’ di Luigi Cavallaro, è il primo movimento dopo la caduta del Muro. Ciò ne conferma l’importanza, ma ne spiega i limiti. Esso si confronta con un capitalismo non più costretto a qualche cosmetica prudenza e con il disegno americano di una nuova Età imperiale. Di questa globalizzazione ha colto gli aspetti autoritari, militari e di rapina, e dunque reclama democrazia e pace tra gli uomini e con la natura; della globalizzazione esso sembra però vedere piuttosto le conseguenze che non le cause, le conseguenze distributive dei nuovi assetti produttivi piuttosto che le determinanti di questi, il crescente divario tra ricchi e poveri anziché le nuove forme del rapporto tra capitale e lavoro salariato. Dunque il discorso non è più argomentato con le categorie dell’economia politica e della sua critica, ma con una qualche forma di teoria (liberale) della giustizia; così consentendo a uno dei suoi massimi esponenti, A. Sen, di scrivere che “le proteste contro la globalizzazione non sono sulla globalizzazione: i cosiddetti contestatori ‘anti-globalizzazione’ difficilmente possono essere, in generale, contro la globalizzazione, dato che queste proteste sono tra gli eventi più globalizzati d’oggi. I contestatori di Seattle, Praga, nel Quebec, Göteborg provenivano da tutto il mondo”.
Alla domanda di Cavallaro si potrebbe forse rispondere che i contestatori semplicemente si ribellano a questa globalizzazione e si oppongono al suo governo a-democratico e ai suoi effetti. Nessun uomo di buona volontà potrebbe contestarne le ragioni e le istanze; ma proprio per questo è ingenua e rischiosa la loro speranza di affermarle contrapponendo il modello relazionale alle forme strutturate di organizzazione, anziché cercare una integrazione tra i due modi di fare politica. La reazione può essere, anziché lo Stato sociale, una nuova legge sui poveri (che, come si sa, prevedeva che sotto forma di elemosina la parrocchia integrasse il salario nominale fino alla somma minima richiesta per la pura e semplice vegetazione dell’operaio); oppure quella suscitata dai Ludditi: “la distruzione in massa di macchine nei distretti manifatturieri inglesi durante i primi quindici anni del secolo XIX offrì, sotto il nome di movimenti dei Ludditi, il pretesto per violenze ultrareazionarie al governo antigiacobino d’un Sidmouth, Castlereagh, ecc.”.
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