Forum sociale mondiale di Tunisi: 2. Uscire dalla crisi
Diffondiamo da “Inchiesta” 180, aprile-giugno 2013, la seconda parte del Dossier curato da Alessandra Mecozzi sul Forum Sociale Mondiale di Tunisi 2013
1. Antonio Tricarico : Debito e strapotere delle multinazionali
Antonio Tricarico coordina la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, fa parte del board di Bank Track (rete europea che lavora sulla finanza pribata) e di Eiurodad (rete europea su debito e sviluppo), scrive regolarmente su Sbilanciamoci.
Istantanee del World Social Forum, dove i temi del debito e dello strapotere delle multinazionali hanno tenuto banco durante la tre giorni di seminari al campus universitario. Di particolare attualità la questione del debito in un Paese come la Tunisia, visto che nei 25 anni di regime Ben Ali e della sua famiglia l’esposizione con i creditori internazionali è passata da 3,4 miliardi di euro nel 1987 a 10,80 miliardi nel 2009. Un enorme fardello per la esangui casse del paese dopo la rivoluzione. L’indebitamento ha rappresentato uno strumento di potere per la dittatura. Le banche del paese prestavano senza remore ai notabili, distribuendo denaro che spesso non veniva ripagato. In un secondo momento la Banca centrale tunisina interveniva ad appianare i fallimenti bancari, contraendo prestiti a livello internazionale, sia dai paesi occidentali e dalle istituzioni internazionali, che da banche private. Gli interessi venivano ripagati e talvolta la quota di capitale riscadenzata. In questo modo il regime si basava sul controllo del credito, ottenendo il consenso delle élite e imbrigliando gli interessi stranieri, presenti soprattutto nel campo delle infrastrutture. Tali opere erano spesso di dubbia utilità o costruite in maniera non appropriata, con pesanti impatti sulla popolazione. Si pensi allo sfruttamento minerario, o all’agricoltura intensiva, entrambi funzionali solo all’export verso l’Europa.
E’ stata proprio l’assenza di credito per le classi più povere, private dei mezzi fondamentali di sussistenza che ha portato poi alla rivoluzione popolare.
Sin dai primi mesi dopo la cacciata di Ben Alì, il tema del ripagamento del debito è entrato nell’agenda politica. In diversi hanno paventato la possibilità di definire gran parte del debito come “odioso”, ovvero che non va restituito in quanto accumulato da un dittatore contro gli interessi della sua popolazione. Il caso più recente è stato quello del debito di Saddam, di fatto annullato dopo la caduta del regine iracheno nel 2003. In Tunisia la società civile ha chiesto l’apertura di una commissione ufficiale per l’audit da parte del governo per esprimere un giudizio sul debito. Nel 2012, il presidente Moncef Marzouki ha sostenuto tale istanza, probabilmente per cercare di scalzare il potente governatore della banca centrale, Mustapha Kamel Nabli, ex ministro di Ben Ali e direttore alla Banca mondiale. Il Fronte Popolare, che riunisce entità politiche di sinistra, ha presentato una legge per l’istituzione di una commissione di audit con poteri investigativi. Nonostante l’Ecuador, che nel 2008 ha realizzato un storico audit del debito annullandone una parte, abbia offerto il suo aiuto tecnico-legale al governo tunisino, la proposta si è impantanata nel Parlamento Costituente in seguito all’impasse sulla stesura della nuova Carta. Il governo islamista ha una posizione ambigua sulla questione, con il ministro delle Finanze che continua ad assicurare la comunità internazionale sulla capacità della Tunisia di ripagare il servizio sul debito.
Molti rappresentanti delle elite che sono ancora ai vertici dei ministeri, o si sono riciclati in diversi partiti politici, non hanno alcun interesse a scoperchiare un vaso di pandora che farebbe emergere responsabilità non solo della comunità internazionale e di investitori stranieri, ma anche di attori locali. Lo scorso 20 marzo il presidente tunisino si è recato in Germania per negoziare una conversione del debito con Berlino. La Germania è disponibile a trasformare 30 milioni di euro in investimenti nel settore idrico e altri 30 da allocare in un nuovo fondo per le infrastrutture, che l’esecutivo locale userebbe per favorire nuovi investimenti di imprese tedesche. In pratica l’ennesima apertura a investimenti estrattivi dannosi per l’ambiente e a solo vantaggio dell’export globale e delle piccole elite. Anche la Francia, già l’anno scorso, aveva caldeggiato una soluzione per la conversione del debito con Tunisi. Si aggiunga che dai primi mesi del dopo rivoluzione il paese è stato subissato di finanziamenti da parte dei governi occidentali, mediorientali e di Banca mondiale, Banca africana di sviluppo e Fondo monetario internazionale. Soldi utilizzati per facilitare investimenti stranieri in grandi opere, con il rischio di generare a breve ulteriore debito.
Le prospettive sono tutt’altro che incoraggianti. Nelle parole di Fathi Chamki di Attac Tunisia, la strategia di gestione del debito scelta dal governo porterà a breve il paese al collasso e a una nuova colonizzazione. Per questo è necessaria da subito una moratoria sul ripagamento, così da permettere un’audit pubblica e partecipata.
Se nel caso del debito tunisino le responsabilità e le connivenze soprattutto europee sono palesi, altrettanto evidente è come le multinazionali occidentali facciano il bello e cattivo tempo in Africa, godendo troppo spesso di incredibili agevolazioni fiscali.
Un esempio illuminante è quello del Malawi, come hanno raccontato a Tunisi esponenti di Afrodad. Lo sfruttamento minerario lì è in crescita esponenziale. Se nel 2009 incideva solo per l’un per cento sul pil nazionale, ora è già al 10 ed entro il 2018 arriverà addirittura al 30. In Malawi sono stato scoperti importanti giacimenti di uranio, tanto che la quantità cavata fuori dalla terra del prezioso minerale si è impennata del 58 per cento negli ultimi tre anni. Insomma, un business fiorente, con grandi imprese internazionali coinvolte e impegnate a negoziare lucrosi contratti con il governo locale. Tra questi la multinazionale australiana Paladin, che però per investire in Malawi ha strappato all’esecutivo di Lilongwe uno sconto consistente sul suo contributo fiscale (il 27,5 per cento invece del 30 per cento) e ampie concessioni sul pagamento delle royalties (in alcuni casi di solo l’1,5 per cento per i primi tre anni di attività).
Come se non bastasse, Afrodad ha il forte sospetto, per il momento non sostanziato da prove schiaccianti, che tramite il solito reticolo di società sparse per vari Paesi la Paladin favorisca la fuga di capitali verso paradisi fiscali.
A fronte di questi introiti in parte ridotti, il Malawi si deve accollare gli impatti ambientali delle attività estrattive. Impatti che, specialmente nel caso dell’uranio, sono devastanti. È il caso della miniera di Kayelekera, nel distretto settentrionale di Karonga. Negli ultimi mesi si sono registrate già varie proteste contro il progetto, che tuttavia continua ad andare avanti.
La società civile africana, però, non sta con le mani in mano. Lo scorso anno l’Economic Justice Network (EJN) ha riunito tutte le realtà continentali che si battono contro i sussidi e i “trucchi” fiscali permessi al settore minerario per creare una rete e formulare delle strategie comuni. Un passaggio fondamentale per capire nella sua interezza la complessa struttura della mining economy. Michelle Pressend dell’EJN è convinta che solo così si possa mettere un limite all’impunità delle corporation, facendo allo stesso tempo pressione sui troppo compiacenti governi locali. Michelle è sudafricana e non si può esimere dal ricordare i tanti problemi che il comparto minerario sta vivendo nel suo Paese.
Ancora fresco è il ricordo della strage della miniera di platino di Marikana accaduta in Sud Africa lo scorso agosto, quando le forze di polizia uccisero 34 minatori in sciopero contro le pessime condizioni lavorative. “C’è bisogno di ripensare radicalmente il concetto di gestione delle risorse naturali, ma nel frattempo le società che operano in territorio africano devono pagare la giusta porzione di tasse e non devono spostare impunemente capitali nei paradisi fiscali” ha spiegato la Pressend, che ha chiuso il suo intervento in un workshop molto affollato con una forte critica alla responsabilità sociale d’impresa, “solo un altro modo per eludere i veri problemi presenti sul campo”.
2. Sergio Bassoli: Serve un’alleanza globale anche al sindacato
Sergio Bassoli fa parte del Dipartimento Politiche Globali della Cgil e rappresenta la Cgil nel board di Solidar e nella commissione per la cooperazione della Csi
Il Forum di Tunisi, che per molti ha ripreso lo spirito iniziale nato a Porto Alegre nel 2001, riuscendo a trasmettere nuovamente quella “iniezione di speranza collettiva” di cui, da tempo, si sentiva il bisogno, è anche una importante occasione per affrontare alcune valutazioni sulla presenza, sulla partecipazione e sul ruolo delle organizzazioni sindacali nella dinamica del Forum Sociale.
Volendo fare una valutazione di processo, da Porto Alegre a Tunisi, il movimento sindacale, pur avendo avuto una presenza rilevante, in alcuni momenti e di certe realtà sindacali, a partire dalla CUT del Brasile, tra i fondatori del Forum, il COSATU del Sud Africa, la stessa CGIL, la CGT francese, i sindacati canadesi, belgi, marocchini, e tanti altri sindacati che hanno partecipato ed animato i Forum, non ha colto pienamente la sfida del forum sociale, non si è contaminato e non ha contaminato. L’alleanza tra le diverse realtà della società civile che, nelle conferenze e nei congressi, a livello nazionale ed internazionale, sempre si propone come una alleanza strategica, nella pratica risulta essere una vera e propria spina nel fianco del movimento sindacale internazionale.
La Confederazione Europea dei Sindacati (CES) e la Confederazione Sindacale Internazionale (CSI), ed ancor prima la ICFTU/CISL, ben rappresentano questa difficoltà nella pratica di alleanze con i movimenti sociali, mantenendo una posizione di interlocuzione e di diffidenza, che non ha giovato a nessuno, se non ad un indebolimento dell’azione complessiva della società civile organizzata e della sua capacità di crescere, di maturare, di incidere nelle politiche e sulle istituzioni.
L’esempio è dato dalla tradizionale assemblea sindacale a cui abbiamo assistito in tanti Forum, organizzata sempre il giorno prima dell’apertura del Forum, a segnalare un’estraneità ed una alterità con il programma e con le dinamiche di dialogo e di confronto con le altre culture ed espressioni di società civile presenti. Dialogo e confronto delegato alle singole e spontanee iniziative dei sindacati a promuovere e/o partecipare ai seminari autogestiti, con una evidente perdita della dimensione e della rappresentanza complessiva, globale, internazionale del movimento sindacale che è sempre rimasto ai margini e, spesso, non ha rinunciato ad esprimere critiche o dubbi sulla validità dello spazio Forum e della sua “governance”.
La CUT brasiliana è andata oltre, organizzando nelle edizioni tenutesi a Porto Alegre ed a Belem, la “tenda sindacale”, con una propria programmazione, seminari, incontri, eventi culturali, all’interno del Forum. Essendo tra i soggetti fondatori del Forum partecipa da sempre ad ogni istanza di coordinamento del Forum, per ultimo è stato uno dei soggetti che ha reso possibile il primo Forum Tematico Palestina Libera, realizzatosi a Porto Alegre, lo scorso mese di novembre. Tanto sforzo, però,va detto, non è riuscito ad incidere sulla posizione e sul coinvolgimento delle istanze sindacali regionali (continente americano) e su quella globale (CSI). Sembra essere stato, piuttosto, un impegno prodotto da un contesto politico e sociale locale, frutto di quello stupendo intreccio di lotte sociali che ha permesso la vittoria di Lula e della democrazia partecipativa in Brasile. Non è un caso che il Forum sia nato proprio dall’esperienza brasiliana, per la combinazione di forze sociali che si sono trovate d’accordo nell’intraprendere la strada del cambiamento, dando vita a quell’alleanza tra mondo del lavoro, rappresentato dal sindacato, e movimenti sociali più diversi; donne, indigeni, ambientalisti, “sem terra”, contadini, afro-discendenti, migranti, organizzazioni non governative. Alleanza oggi in crisi, ma che ha prodotto, in oltre un decennio, grandi risultati, tra i quali va annoverato lo spazio ed il processo del Forum Sociale.
Quello che è avvenuto in Brasile, non è avvenuto in altre latitudini, ma soprattutto, non è avvenuto a livello internazionale. Ed occorre riflettere su questo, perché senza questa alleanza globale, risulta impossibile fare quel salto di qualità che permetterebbe alle tante minoranze del pianeta – numericamente maggioranza della popolazione -, ma, se divise, alla mercé delle politiche dominanti neo-liberali, quindi incapaci di costruire un movimento globale di rilevanza politica in grado di operare cambiamenti. Va ricordato che lo stesso movimento sindacale, senza alcun dubbio la parte di società civile organizzata quantitativamente più importante a livello mondiale, rappresenta poco più del 7% delle lavoratrici e dei lavoratori del pianeta. La sfida a livello globale, per garantire il riconoscimento ed il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro e nel lavoro in ogni angolo del pianeta, è la lotta al lavoro senza diritti, informale, al nero, precario, che coinvolge circa il 75% della forza lavoro mondiale, quasi tre miliardi di persone, tanto per dare una idea della dimensione del problema! Una lotta che nessuna organizzazione può affrontare da sola, per cui l’alleanza e le convergenze tra le diverse reti, soggetti, attori, tematici e territoriali, è sempre stata e sempre sarà fondamentale. Ed è in questa direzione che, a mio parere, i sindacati debbono valutare, il processo e lo spazio del Forum Sociale: unica istanza, autonoma ed indipendente, della società civile organizzata.
La stessa esperienza del Forum Sociale di Tunisi conferma questo ragionamento. In Tunisia vi è stata la saldatura tra movimenti sociali e sindacato nelle lotte sociali che hanno portato al cambiamento della società verso la democrazia. Questa alleanza si è riprodotta nella organizzazione e nella gestione del Forum, con i risultati che tutti hanno potuto vedere. La strada è segnata, piena di difficoltà e di aggiustamenti da fare, ma sarebbe da ciechi non vederla.
E tuttavia, la critica che evidenzia i limiti dell’esperienza del Forum, dal suo avvio ad oggi, nella sua debole capacità di fare sintesi, nella assenza di regole che permettano un processo decisionale e partecipativo trasparente e democratico, sono ampiamente condivisibili e debbono essere oggetto di reciproca e collettiva analisi e valutazione. A condizione però, che nessuno se ne chiami fuori, addossando alle altre parti le responsabilità dei fallimenti e delle critiche, o senza voler utilizzare questi limiti a giustificazione delle proprie assenze o delle prese di distanza.
Così facendo, avremmo come conclusione o l’obbligo di proporre alternative al processo ed allo spazio Forum, o dichiarare la propria contrarietà all’alleanza tra le diverse anime della società civile organizzata nei diversi livelli territoriali e tematici, dichiarando implicitamente di voler fare da soli.
L’esperienza di Tunisi ha cercato di far tesoro delle esperienze passate, già a partire dalla fase preparatoria, dove le organizzazioni sindacali hanno partecipato in modo attivo, spinte soprattutto dal processo delle rivoluzioni arabe e dal ruolo che i sindacati hanno assunto nella regione, arrivando a concordare la creazione di una dinamica sindacale interna al Forum che consentisse la realizzazione di una assemblea di convergenza sui diritti del lavoro e sulle risposte da dare alla crisi globale.
La presenza sindacale al Forum si è fatta sentire e vedere, con due momenti importanti: l’incontro organizzato dalla UGTT (Unione Generale dei Lavoratori di Tunisia) con la presenza di oltre 200 rappresentanti di oltre 50 organizzazioni sindacali, provenienti da ogni parte del pianeta, e l’Assemblea di convergenza, realizzatasi a conclusione del Forum, da cui per la prima volta è uscito un documento che rappresenta la posizione dei sindacati nei confronti delle politiche di austerità e neo-liberiste, e la volontà di riprendere con vigore la strada delle alleanze con i movimenti sociali, proponendo un Forum Mondiale Tematico sui diritti del lavoro.
Ora, si tratta di dare continuità agli impegni ed alle dichiarazioni di volontà manifestatesi a Tunisi, coinvolgendo i livelli internazionali, dalla CES alla CSI, affinché assumano nelle loro agende politiche l’impegno a confrontarsi ed a costruire strategie condivise con le altre espressioni organizzate e responsabili della società civile globale.
Contestualmente, si dovrà confermare e rafforzare l’azione sindacale internazionale a sostegno dei sindacati indipendenti, senza i quali la difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e il consolidarsi della democrazia sono impossibili. Non è un caso se il sindacato in Tunisia, smarcatosi dal regime di Ben Ali, già con le lotte dei minatori nel 2008, è diventato prima il riferimento per il movimento che ha travolto il sistema dittatoriale, ed ora è il principale bersaglio delle forze reazionarie e fondamentaliste che stanno cercando di instaurare un nuovo sistema di potere repressivo ed autoritario, individuando nel sindacato indipendente una forza sociale da controllare o eliminare. E’ la stessa situazione che abbiamo visto in altri paesi dell’area, dove le dittature,i militari e le forze religiose fondamentaliste colpiscono i sindacalisti, reprimono i sindacati indipendenti, creano organizzazioni da loro controllate e comandate.
E’ una storia che si ripete, ma che oggi, forse, abbiamo la possibilità di cambiare, con il nostro impegno e con una politica chiara di alleanze e di sostegno alle libertà ed ai diritti di ogni uomo ed ogni donna, ponendo al centro la dignità ed il rispetto, mediando sulle politiche, ma non sui principi e sui valori, questo è quello che ci chiedono i giovani, le donne,i sindacalisti che sono scesi nelle piazze e nelle strade della Tunisia, dell’Egitto, del Sahara, del Marocco, della Libia, dell’Algeria, della Siria, del Bahrein, della Palestina. L’iniezione di speranza che è uscita dal Forum di Tunisi, sta in questo messaggio!
3. Marica Di Pierri e Matilda Cristofoli: Giustizia ambientale per salvare il pianeta
Marica di Pierri e Matilde Cristofoli fanno parte della Associazione A SUD (www.asud.net)
E’ la prima volta che un FSM si svolge in un paese arabo e precisamente in Maghreb. Simbolo del processo di democratizzazione dal basso, il Forum di quest’anno ha puntato l’attenzione sui popoli del mediterraneo, la loro richiesta di riappropriazione dello spazio pubblico e della scena politica e la volontà di uscire dai confini nazionali e costruire reti di solidarietà e lotta comune. La piattaforma di riflessione e azione del Social Forum si è riunita per dare sostegno a tutti i processi che rivendicano giustizia ambientale, sociale e democrazia. La parola d’ordine scelta per questo Social Forum è stata dignità, dignità da restituire alle persone, al lavoro, alla terra.
Nonostante la centralità del tema dei diritti e dei processi di democratizzazione in corso nella regione, anche a Tunisi la crisi ecologica e climatica e le risposte da mettere in campo per affrontarle sono state al centro di molti panel ed incontri. Uno degli spazi permanenti del FSM2013, il Climate Space, ha ragionato durante le giornate di lavori di proposte concrete per far fronte all’emergenza climatica, mettendo insieme i temi della terra, dell’energia, del modello produttivo, delle politiche di adattamento, etc. e svelando l’inadeguatezza delle false soluzioni proposte dagli organismi di governance.
Terra e sovranità alimentare: la frontiera del land grabbing
Uno dei temi nodali è quello della terra e le questioni ad esso collegate: sovranità alimentare, economie locali, modello di produzione e consumo. Indipendentemente da latitudine ed emisfero, il saccheggio delle terre da parte della produzione agricola e alimentare, gli effetti sempre più lampanti del cambiamento climatico e le sempre più aggressive pratiche di estrazione rendono necessaria una continua e profonda riflessione dettano l’agenda di comunità rurali e movimenti. I movimenti contadini sono diffusi ormai ovunque e le loro parole d’ordine sono le stesse: sovranità alimentare, accesso alla terra, tutela dei semi. Emerge dirompente il tema del land grabbing, nuova frontiera dello sfruttamento della terra. Il land grabbing – letteralmente “accaparramento di terreni” – consiste nell’acquisto o nell’affitto di terreni nei paesi più poveri da parte di multinazionali o governi stranieri, in particolare quelli con una grande crescita della domanda interna di prodotti alimentari. Quando gli investitori stranieri arrivano sui terreni delle comunità si passa dall’agricoltura tradizionale basata sulle varietà locali, all’agroindustria basata su monocolture destinate per lo più all’esportazione (olio di palma, soia etc.) che comportano un massiccio uso di composti chimici e lo stravolgimento dei ritmi di vita delle comunità, dei terreni e degli animali. Ben 1 miliardo di malnutriti del mondo proviene da aree rurali dove l’aumento del prezzo dei generi alimentari compromette la sussistenza di interi popoli. Non è un caso che l’aumento del prezzo del grano sia stato tra gli elementi propulsori delle mobilitazioni che sono poi sfociate nelle così dette “primavere arabe”.
La terra coltivabile è al momento una delle risorse più preziose e perciò fa gola ai più incattiviti speculatori mondiali. Il fenomeno del land grabbing si sta diffondendo a una velocità incredibile, specie nel continente africano. Ad alimentare questa condizione, la Politica Agricola Comune implementata dall’Unione Europea, arrivata sull’area mediterranea come una scure a causa dell’ abbassamento dei prezzi dei prodotti agricoli che comporta. Il land grabbing si aggiunge ad un lungo elenco di minacce alle terra: secondo Actionaid, su 4 miliardi di ettari di terra coltivabile, più della metà è compromesso da urbanizzazione, desertificazione e conseguenze dei cambiamenti climatici.
Accesso alla terra e migrazioni
Il sistema economico attuale sfrutta l’ecosistema e abusa delle risorse naturale spingendo il pianeta terra al limite. Aridità, desertificazione, inondazioni, uragani, tifoni, incendi delle foreste, scioglimento dei ghiacciai sono tutti segnali che l’attuale ritmo di sfruttamento delle risorse naturali non è sostenibile. Tali variazioni estreme producono conseguenze nella vita quotidiana degli esseri umani, prima fra tutte la perdita dei mezzi di sussistenza, l’erosione della cultura e delle colture originarie, fino alla delocalizzazione involontaria di intere comunità. Una volta persi i mezzi di sussistenza alle comunità rurali non resta che migrare. Dalle campagne alle periferie delle città, dai paesi del sud al miraggio del benessere europeo, fornendo in ogni caso manodopera a prezzi stracciati che ingrossa le fila degli sfruttati nel disumano meccanismo dell’economia globale. A tal proposito, l’assenza a livello internazionale di uno status giuridicamente riconosciuto di rifugiato ambientale aggrava ulteriormente la condizione delle vittime di crimini ambientali costringendoli ad entrare nell’ombra della migrazione clandestina, dei respingimenti alle frontiere, delle morti in mare. Le migrazioni sono insomma strettamente legate al modello economico che abbiamo imposto ai paesi del sud. Lo dimostrano i 2 milioni di persone che ogni anno tentano di entrare illegalmente in Europa. Nel caso del Nord Africa, ciliegina sulla torta sono le politiche migratorie repressive e criminali attuati dai paesi dell’UE.
Il fracking (gas di scisto)
Tra le questioni più urgenti che racchiudono le criticità socio-ambientali del nostro tempo c’è la lotta alle false soluzioni contro il cambiamento climatico approntate dagli organismi internazionali. Ecco perché, come emerso dal Forum Sociale, le reti sociali diffidano delle pseudo-tecnologie “verdi” promosse negli ultimi anni. Tra le altre le nanotecnologie, gli organismi geneticamente modificati, gli agrocarburanti, l’uso industriale delle biomasse (spacciate per energia pulita), o la fratturazione idraulica (frIl fracking – “fratturazione idraulica”, pratica estremamente invasiva che consiste nell’estrazione di gas naturale attraverso un processo di perforazione multilivello, prevede l’esplosione di rocce in profondità per creare fessure dalle quali far passare il gas naturale, spinto fuori dalla roccia dall’iniezione di grandi quantità d’acqua a forte pressione. Le acque iniettate, piene di sostanze altamente tossiche, contaminano non solo le falde acquifere ma anche i suoli sui quali ha luogo la perforazione. Nessun impianto di depurazione attualmente esistente riesce a trattare efficacemente una quantità tale di acqua. Oltre al gravissimo impatto legato al sovrautilizzo delle risorse idriche, questo processo estrattivo produce livelli di emissioni di Co2 nettamente maggiori rispetto ai processi convenzionali di estrazione del gas, del petrolio e del carbone. Nati all’inizio degli anni 2000, i progetti di fracking si stanno rapidamente espandendo. Di fatto le grandi lobbies petrolifere mondiali vedono avvicinarsi il picco estrattivo del petrolio e considerano il fracking una buona ed economica alternativa energetica mondiale, peraltro pubblicamente sponsorizzata come tecnologia green. Ad oggi numerose imprese in diversi paesi stanno conducendo studi di prospezione per implementare progetti di questo tipo. Tra queste Eni, Shell, Exxon, Chevron, solo per citarne alcune. Dal canto suo la società civile chiede a gran voce di fermare questa pratica: in Europa, Hollande ha esteso per altri 5 anni la moratoria sul fracking. Olanda e Lussemburgo ne hanno sospeso le trivellazioni. I tentativi di fare lo stesso in Germania sono stati sconfitti in Parlamento nel dicembre scorso. In Repubblica Ceca la pratica è stata bandita tramite moratoria, procedimento ora in corso in Bulgaria, mentre la Romania ha recentemente revocato il suo divieto, spinta dalla vicina Russia a compiere un tentativo di emancipazione energetica. L’allarme è globale e persino il parlamento europeo ha riconosciuto gli impatti negativi dello sviluppo di queste attività.
Dalla riflessione dei movimenti sulle emergenze ambientali sempre più drammatiche e diffuse emerge in definitiva la necessità di tenere assieme diritti umani, tutela del territorio, della salute, diritti dei lavoratori e tutela delle condizioni di vita dei migranti. Tutti questi elementi sono utili a comprendere come la difesa dei territori, dei diritti e dei beni comuni siano elementi di una battaglia, più grande, per invertire la corsa che abbiamo intrapreso verso la distruzione del pianeta, inversione che passa forzatamente dalla costruzione di processi di riconversione del modello sociale, economico ed energetico attuali.
4. Edda Pando: Migranti di tutto il mondo…
Edda Pando è peruviana e ha fondato l’Associazione interculturale “Todo Cambia” di Milano, fa parte del Coordinamento Nazionale Immigrazione dell’Arci.
Perché il movimento dei e delle migranti e delle associazioni che li sostengono non riesce ad affermare una sua forza nei confronti di chi quotidianamente (governi, stati, organismi sovranazionali) non riconosce e violenta i diritti e la speranza di un’umanità in movimento?
Perché nonostante tutto l’impegno di migliaia di attivisti nel mondo la voce dei migranti e di chi li sostiene non ha la risonanza necessaria per contrarrestare la “guerra” in atto nei confronti di chi esercita il diritto a cercare una vita migliore?
Erano queste le domande che mi risuonavano in testa mentre partecipavo al Forum Sociale Mondiale delle Migrazioni (FSMM) a Manila a novembre del 2012 in rappresentanza dell’associazione Arci.
Durante il Forum avevo apprezzato il coraggio delle donne immigrate impiegate nel lavoro domestico in Sudafrica o Arabia Saudita che con grande determinazione affermavano di non essere schiave ma lavoratrici e quindi esigevano il riconoscimento dei loro diritti e la ratifica della “Convenzione sulle lavoratrici e i lavoratori domestici”. Avevo rincontrato i migranti subsahariani venuti dal Marocco che con tenacia e non senza contraddizioni, continuano il loro percorso di autorganizzazione. Avevo ascoltato con ammirazione la storia della Carovana dei parenti dei migranti scomparsi, in maggioranza centroamericani, che da dieci anni organizza il Movimiento Migrante Mesoamericano (M3) lungo il territorio messicano.
Che altro dobbiamo fare per riuscire a provocare l’indignazione delle società civili nel mondo di fronte al fatto che i migranti possiamo essere privati della libertà, senza aver commesso un reato, e quindi rinchiusi nei più svariati luoghi di detenzione che sempre di più contraddistinguono le politiche migratorie degli Stati del nord del mondo e non solo?
Come riuscire a coinvolgere sempre più persone per contrastare le politiche nazionali e continentali che considerano i migranti soltanto manodopera da usare e gettare?
Convergenza! Era questo il concetto che continuavo a ripetermi. Banale, potrà dire qualcuno. In effetti forse lo è. Il detto l’unione fa la forza esiste in tutte le lingue del mondo.
Tuttavia però nella pratica i movimenti spesso non riescono a far prevalere sufficientemente questo aspetto nel loro operato. Non è che le organizzazioni dei e delle migranti e le organizzazioni in solidarietà con essi non facciano delle cose. Ne fanno e tante! Ma ciò che servirebbe è uno sforzo maggiore affinché si faccia prevalere i punti di accordo e si incrocino e condividano maggiormente le iniziative. Ed è ciò che abbiamo cercato di realizzare nell’ultimo FSM a Tunisi.
Queste domande le avevo condivise con Sarah Klingeberg, attivista italiana, migrata in Belgio e Francois Soulard, francese emigrato a Buenos Aires, tutti e due tra i promotori del processo della Carta Mondiale dei Migranti, avviatosi nel FSMM a Madrid nel 2006 ed approvata a Dakar nel 2010 nel quadro del FSM. Sarah ne fece partecipe anche Driss El Korchi, figlio di migranti marocchini, cresciuto in Belgio e fondatore dell’associazione N’oura. E usando la tecnologia, che di positivo ha l’avvicinare incredibilmente le frontiere, abbiamo provato a ragionarci collettivamente e senza grandi budget finanziari che, sebbene necessari spesso condizionano troppo la realizzazione dei progetti, siamo partiti.
Il primo passo é stato quello di pensare e lanciare un appello per la realizzazione di un’Assemblea Mondiale dei Migranti, delle persone di origine immigrata e delle associazioni di solidarietà (AMM) con l’obiettivo di favorire lo scambio di informazioni e la convergenza.
Al gruppo iniziale (Arci, Comitato Internazionale per la promozione della Carta Mondiale dei Migranti e N’oura) si sono sommate altre organizzazioni: il Conseil des migrants subsahariens, il Collectif des Communautés Sub-sahariennes e l’Organisation Démocratique du Travail – Section Travailleurs Immigré tutte e tre in Marocco; la Confédération Générale des Travailleurs della Mauritania, Espacio Sin Fronteras del Brasile, la Rete Primo Marzo in Italia e il network Welcome to Europe.
Inoltre l’iniziativa della AMM si è sin da subito legata all’idea promossa dai compagni e compagne di Faldi (rete di associazioni in maggioranza francesi ma non solo) che sin da giugno 2012 avevano iniziato a lavorare per costruire uno spazio a Tunisi in cui potessero essere insieme fisicamente tutte le organizzazioni impegnate nella battaglia per i diritti dei migranti.L’assemblea si è svolta il 29 marzo ma sono stati realizzati tre incontri preparatori il 25, 27 e 28 marzo nei quali sono stati discussi collettivamente le ragioni, gli obiettivi e la metodologia da utilizzare. È stato quindi chiesto ad ogni associazione di portare le conclusioni dei loro workshop affinché si potesse elaborare un documento in cui fossero raccolte tutte le raccomandazioni emerse durante il Forum in merito alla tematica delle migrazioni. La stessa metodologia è stata utilizzata per costruire un’agenda comune.Il giorno dell’assemblea rappresentanti di tutte le associazioni hanno presentato il documento e l’agenda finali (http://assemblee-migration-2013.net/). La discussione plenaria ha contribuito a precisare alcuni aspetti e si è dati appuntamento al prossimo Forum Mondiale delle Migrazioni (nel 2014 a Johannesburg) non più per elaborare una nuova dichiarazione ma bensì per fare un bilancio di ciò che si è riusciti a fare, o non fare, rispetto al documento approvato a Tunisi.
Questo elemento può rappresentare un salto metodologico per l’insieme del movimento, che troppo spesso negli incontri internazionali si limita a elaborare dichiarazioni senza che poi ce ne sia un riscontro o una verifica di quanto viene in esse scritto.
Come si dice nel documento finale dell’Assemblea Mondiale dei Migranti, non possiamo limitarci a resistere: più che mai è necessario proporre, osare creare. Bisogna continuare con le battaglie per riformare leggi e procedure che impediscono le migrazioni, ma bisogna anche guardare oltre.
Gli essere umani in migrazione pongono delle contraddizioni al ordine degli Stati Nazionali. Elementi basilari alla loro fondazione quali territorio, frontiera, cittadinanza vengono, nei fatti, travolti e messi in discussione da un’umanità in movimento.
Il contratto sociale che gli Stati stipulavano con quelli considerati loro cittadini in quanto residenti nel loro territorio, salta in aria perché in questi territori risiedono soggetti ai quali i diritti di cittadinanza non vengono riconosciuti, ma che tuttavia li pretendono e rivendicano una “cittadinanza di fatto”.
Le migrazioni pongono in discussione l’ordine degli Stati cosi come lo abbiamo sinora conosciuto e ci costringono a ragionare ad ipotesi alternative e complessive di riorganizzazione sociale. Per affrontare questa sfida bisogna quindi continuare a favorire lo sviluppo di reti a livello internazionale, continentale e nazionale, la convergenza intorno a dei contenuti basilari e sopratutto lo sviluppo di azioni comuni.
5. Monica Di Sisto: L’iniquo commercio tra UE e riva sud del Mediterraneo
Monica Di Sisto è vicepresidente dell’associazione Fairwatch. insegna Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma
Dicembre 2010: scoppia la Primavera araba. Mohamed Bouazizi si dà fuoco per protesta nella città tunisina di Sidi Bouzid, e da quel rogo si sprigionano rabbia, speranza e voglia di democrazia che scuotono la sponda Sud del Mediterraneo. L’Unione europea proclama il suo appoggio e sostegno alla società civile dei Paesi coinvolti. Fiumi di retorica scorrono su quanto la loro lotta sia stata imprevedibilmente efficace contro regimi totalitari che, anche grazie al sostegno di Paesi come il nostro, sembravano inamovibili. Questo si traduce quasi immediatamente nell’avvio di un nuovo ciclo di negoziati di liberalizzazione commerciale, i (DCFTAs, Deep and Comprehensive Fair Trade Agreements), che vengono subito presentati come un’opportunità imperdibile di ripresa economica e sociale per Paesi tanto martoriati. Peccato che, però, molti di quei Paesi si fossero sollevati anche per una crisi economica e sociale gravissima in atto, alimentata dai vecchi Accordi commerciali di Associazione (AA), stretti proprio con l’Unione europea a metà degli anni Novanta. E che questa nuova ondata “ampia e approfondita” di liberalizzazioni tuttora in corso, se portata a termine, provocherà loro, per ammissione della stessa Commissione Europea, ulteriori danni sociali e ambientali.
Era il dicembre 1995 quando l’avvio del Partenariato Euromediterraneo faceva sperare nella creazione di uno spazio di pace e stabilità nell’area che avrebbe dovuto condurre, entro il 2010, all’apertura di una zona di libero scambio tra Europa e sponda Sud. Come strumenti-ponte per la creazione dell’area furono elaborati degli Accordi di Associazione bilaterali tra l’Europa e ciascuno dei Paesi coinvolti: Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, l’Autorità palestinese, Tunisia e Turchia. L’uccisione di Yitzhak Rabin, però, raggelò le speranze e l’ambizione del processo e il tutto si ridusse a puro business. Nel 2004 l’Europa mise in campo una nuova “visione strategica”, la Politica europea di vicinato, comune alle relazioni nel Mediterraneo e a quelle con l’Europa dell’Est, che prevedeva la continuazione del progetto precedente su binari meramente economici.
Gli Accordi di Associazione, in questa nuova prospettiva, avrebbero dovuto promuovere “democrazia, stato di diritto, buon governo e rispetto dei diritti umani insieme ai principi che presiedono all’economia di mercato, al libero scambio, allo sviluppo sostenibile e la lotta contro la povertà”. Non sfuggirà a nessuno che i trattati che entrarono in vigore con Tunisia (1998), Marocco (2000), Giordania (2002) ed Egitto (2004) furono sottoscritti proprio da alcuni di quei tiranni che la primavera araba ha destituito, e la Commissione europea non si sognò mai di sospenderli in nome della difesa dei diritti umani. Anzi: l’obiettivo prefissato era quello di mettere in piedi ad ogni costo entro il 2010, come previsto, l’area di libero scambio tra Europa e Mediterraneo abbattendo progressivamente le barriere tariffarie e non tariffarie su prodotti agricoli e manifatturieri. Solo la ribellione popolare ha frenato quel processo, ma gran parte dei danni era già fatta.
“Con la Primavera araba abbiamo abbattuto la dittatura, ma non siamo ancora riusciti ad azzerare il modello di sviluppo della dittatura – ci ha spiegato in un incontro organizzato nell’ambito del Forum Sociale Mondiale di Tunisi, il rappresentante della Fseg, già segretario nazionale del settore scuola e università della Tunisia – . La Tunisia ha firmato i primi accordi perché erano sostenuti da un Rapporto della Banca mondiale in cui si diceva che ci avremmo guadagnato un 3% di Pil, oltre ad attirare investimenti esteri. Al tempo il coordinamento degli imprenditori protestò per non essere stato consultato, e previde che 1/3 del tessuto economico della Tunisia, parliamo di 120.000 imprese, sarebbe stato danneggiato. Una stima che si è regolarmente dimostrata vera”. E’ evidente che in un Paese in cui il 30% del bilancio pubblico arrivava dalle tasse sulle importazioni, le liberalizzazioni con i relativi abbattimenti delle tasse su import ed export hanno prosciugato le casse dello Stato. Un altro prezzo per l’invasione dei prodotti stranieri la gente lo paga tuttora in posti di lavoro: nonostante il dato sia stato segretato, si stima che ci sia ad oggi nel Paese un 18,23-20% di disoccupazione, che per le donne arriva al 25,6%, e al 35 per i diplomati e/o laureati, con picchi fino al 51% in area rurale.
Senza curarsi dei danni già fatti con questa prima fase di liberalizzazioni, come anticipavamo, nel dicembre 2011 i Paesi membri hanno dato mandato alla Commissione Europea di avviare i negoziati per nuovi Accordi di Libero Scambio Ampi e Approfonditi (DCFTA) con quattro Paesi dell’area: Egitto, Tunisia, Marocco e Giordania. “Stiamo offrendo loro una progressiva integrazione economica nel mercato unico dell’UE e vogliamo migliorare le loro condizioni di accesso al nostro mercato se si impegnano in un processo di riforme democratiche ed economiche”, ha detto all’epoca il Commissario Ue al Commercio Karel De Gucht. In realtà la decisione di aprire le nuove trattativa rappresenta una minaccia terminale per le aspirazioni sociali delle rivolte “arabe”, e sfida seriamente la credibilità della volontà dell’Unione europea di sostenere quei popoli nella loro lotta democratica verso una nuova strutturazione politica, ma anche economica visto che li inchioda ad un modello di crescita vincolata alle esportazioni, aumentando così la concorrenza tra i lavoratori locali e le loro controparti in Europa e, indirettamente, in altre regioni, come il Sud-Est asiatico.
Questo non lo dennciano i sindacati, i movimenti, ma le stesse Valutazioni d’impatto dei trattati euro mediterranei (EMFTA SIA cioè Euro Mediterranean Free Trade Agreements Sustainability Impact Assessment) condotte dalla Commissione UE in materia di sviluppo sostenibile. Si prevede, infatti, a fine processo una ulteriore perdita occupazionale di circa il 3% per la Giordania e dell’8% in Egitto, Marocco e Tunisia, con una pressione al ribasso sui salari e un conseguente aggravamento della povertà. L’industria manifatturiera nei Paesi interessati si prevede che si ridurrà drasticamente a seguito della soppressione delle tariffe, rispettivamente del 29,6% in Giordania, il 69,6% in Egitto, il 64,1% in Marocco e il 65% in Tunisia. Il SIA prevede un calo significativo della produzione di macchinari, legno, mobili, carta e stampa. In settori importanti come il cibo e le bevande, il tessile, l’abbigliamento, cuoio e calzature, il SIA prevede una riduzione di oltre il 90%. L’altro grave danno collaterale viene individuato nella distribuzione del reddito, perché il poco benessere che si genererà andrà prevalentemente a beneficio dei consumatori ricchi, piuttosto che dei segmenti più poveri della società e i piccoli produttori. Da ultimo, gli accordi prevedono dei meccanismi di protezione degli investimenti stranieri in questi Paesi che porterebbero i loro Governi a poter essere processati e condannati a sanzioni economiche ancora più pesanti di quelle abitualmente comminate dall’Organizzazione mondiale del commercio, se volessero limitare l’azione delle imprese estere sul loro territorio, anche a ragione, legando di fatto le mani di tutti quelli che volessero anteporre i diritti di tutti ai profitti di pochi
Queste previsioni, tenute in sordina, la stessa segretezza dei negoziati e dei testi legali degli accordi fino alla loro approvazione delineano uno scenario dannoso che difficilmente si sposa con le luminose sorti promesse dall’Europa ai suoi coraggiosi partner d’oltremare. In una risoluzione del 10 maggio 2012, infatti, il Parlamento europeo ha giudicato “indispensabile che tutte le forze sociali, e in particolare le Ong e le organizzazioni sindacali, vengano coinvolti e consultati dopo al lancio dei negoziati commerciali”. Ma se questo non succede, tocca a ciascuno di noi informarsi e mobilitarsi.
6. Dichiarazione contro le grandi opere inutili e imposte
Questa dichiarazione è stata preparata da associazioni e movimenti che lottano contro la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali (di trasporto di persone o di merci, energetici, turistici, urbanistici e militari) riuniti al FSM di Tunisi per unire le loro forze e per alzare la voce, essendo i problemi gli stessi in tutto il mondo.E’ stata adottata dal FSM di Tunisi il 29 marzo 2013
Noi, cittadine e cittadini, associazioni e movimenti che lottano contro le Grandi Opere Inutili e Imposte. Constatiamo che:
-questi progetti costituiscono per i territori interessati un disastro ecologico, socio-economico e umano, la distruzione di aree naturali e terreni agricoli, di beni artistici e culturali, generano nocività e degradazione, inquinamento ambientale con gravi conseguenze negative per gli abitanti,
-questi progetti escludono la partecipazione effettiva delle popolazioni dal processo decisionale e le privano dell’accesso ai mezzi di comunicazione,
-di fronte ai gravi conflitti sociali che questi progetti generano, i governi e le amministrazioni operano nell’opacità e trattano con disprezzo le proposte dei cittadini,
-la giustificazione ufficiale per la realizzazione di queste nuove infrastrutture si basa sempre su false valutazioni di costi/benefici e di creazione di posti di lavoro,
-la priorità data alle grandi infrastrutture è a scapito delle esigenze locali,
-questi progetti aumentano la concorrenza tra i territori e si indirizzano verso il sempre “più grande, più veloce, più costoso, più centralizzato”,
-il sistema economico liberale che domina il mondo è in crisi profonda, i Grandi Progetti Inutili e Imposti sono strumenti che garantiscono profitti esorbitanti ai grandi gruppi industriali e finanziari, civili e militari, ormai non più in grado di ottenere tassi di profitto elevati nel mercato globale saturo,
-la realizzazione di questi progetti inutili è sempre a carico del bilancio pubblico, produce un enorme debito e non genera la ripresa economica, concentra la ricchezza e impoverisce la società,
-i grandi progetti permettono al capitale predatore di aumentare il suo dominio sul pianeta, generando così danni irreversibili all’ambiente e alle popolazioni,
-gli stessi meccanismi che aumentano il debito dei Paesi più poveri dalla fine della colonizzazione diretta sono ora utilizzati anche nei paesi occidentali.
Contestiamo: 1. la logica della concentrazione geografica e funzionale che non permette lo sviluppo locale equo e i meccanismi che minacciano la sopravvivenza delle piccole e medie imprese e del sistema economico locale; 2. le infrastrutture sovradimensionate per la produzione di energia non rinnovabile, la costruzione di enormi dighe la cui tecnologia comporta forte inquinamento del suolo, dell’acqua, dell’aria, dei fondali marini e la scomparsa di interi territori che compromettono la sopravvivenza delle generazioni future; 3. le modalità di finanziamento di tali progetti che generano enormi profitti garantiti dalla disponibilità di denaro pubblico assieme ad architetture giuridico-finanziarie scandalose, a favore di imprese le cui azioni di lobby influenzano le decisioni politiche fino ad ottenere misure eccezionali per aggirare tutti gli ostacoli giuridici; 4. il supporto a questi progetti da parte dei vari livelli delle strutture politiche, locali, nazionali, sovranazionali e dalle istituzioni finanziarie globali che si oppongono ai diritti, ai bisogni e alla volontà dei popoli,
la militarizzazione dei territori e la criminalizzazione dell’opposizione.
Affermiamo che le soluzioni si possono trovare: 1. nella manutenzione e nell’ottimizzazione delle infrastrutture esistenti che rappresentano quasi sempre l’alternativa più accettabile dal punto di vista ambientale e dei costi rispetto alla costruzione di nuove infrastrutture, che devono rispondere all’interesse pubblico e non al profitto; 2. nella profonda trasformazione del modello sociale ed economico oggi in profonda crisi, dando la priorità alla prossimità e alla rilocalizzazione dell’economia, alla tutela dei terreni agricoli, alla sobrietà energetica e alla transizione verso le energie rinnovabili decentrate, nostre priorità; 3. nell’attribuzione in ultima istanza del processo decisionale alle popolazioni direttamente interessate, fondamento della vera democrazia e dell’autonomia locale nei confronti di un modello di sviluppo imposto, anche attraverso adeguate proposte legislative; 4. attraverso nuove relazioni di solidarietà tra i popoli del sud e del nord che rompano definitivamente con la logica del dominio e dell’imperialismo.
Affermiamo la nostra solidarietà alla lotta contro tutte le Grandi Opere Inutili e Imposte e il nostro desiderio comune di recuperare il nostro mondo.
7. Dichiarazione dell’assemblea sul debito
Dichiarazione finale dell’assemblea sul debito al SFT il 29 marzo 2013 (www.rivoltaildebito.org)
Considerato che il debito è stato, sin dal XV secolo, il principale strumento storico della colonizzazione per saccheggiare, dominare, sottomettere, umiliare e distruggere i popoli e le loro tradizioni
Considerato che il debito del Sud del mondo è già stato rimborsato più volte e che rappresenta – al Sud come al Nord – un potente trasferimento di ricchezza dal lavoro verso il capitale;
Considerato che il debito è anche lo strumento essenziale dell’ingerenza straniera e dei poteri finanziari in collusione con le élite dominanti, che provocano una violazione della sovranità nazionale, l’impoverimento delle popolazioni e la brutale degradazione dei loro diritti economici e sociali;
Considerato che le multinazionali e i paesi industrializzati hanno provocato un’irreversibile sconvolgimento dell’equilibrio climatico e ambientale che rappresenta un vero e proprio debito ecologico nei confronti dei popoli, verso i quali hanno il dovere della riparazione;
Considerato che in tutto il mondo, i meccanismi del debito peggiorano in particolare la vita delle donne aggravando la loro indipendenza economica, che rappresenta un pilastro della loro emancipazione politica e socia
Noi, organizzazioni e movimenti sociali, ispirato dall’esempio del combattente Thomas Sankara, lottiamo per la liberazione dei popoli dalla schiavitù del debito:
Affermiamo che i popoli arabi e maghrebini hanno riacceso la fiamma della lotta per riprendere in mano il proprio destino e affermare la volontà di emancipazione secondo propri standard per costruire una vita libera e degna;
Sosteniamo con forza e determinazione tutte le lotte esistenti al mondo per la liberazione dei popoli dalla schiavitù del debito;
Rifiutiamo le politiche di austerità applicate in tutto il mondo;
Sosteniamo tutte le campagne di audit cittadino che si propongono di individuare e cancellare senza condizioni la parte odiosa e illegittima di tali debiti e chiediamo audit femministi (di genere) del debito che tengano conto del debito sociale di cui le donne sono creditrici;
Rifiutiamo qualsiasi conversione di debito che definiamo lavaggio del debito odioso e illegittimo;
Condanniamo con forza tutte le pressioni e i tentativi di impedire l’adozione di proposte legislative in materia di audit del debito in Tunisia come altro
Non abbiamo nulla, non dobbiamo pagare nulla!
Primi firmatari della dichiarazione: ACET (Auditons les Créances Européennes envers la Tunisie); Cadtm International (Comité pour l’Annulation de la dette du tiers monde); Jubile Sud Ameriques; Popular Campaign to Drop Egypt’s Debt; Afrodad; Attac Genre;
Green House;El Intersindacal Valenciana Estado español; Jubile Sud Ameriques Latin idad; World March of Womens; Nie Nasz Dluf (Not our Debt); Plataforma Auditoria Ciudadana de la Deuda (PACD); Estado español; Popular Campaign to Drop Egypt ‘s Debt; Sud BPCE; Zukunftskonvent.
Category: Osservatorio Palestina, World social forum
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