Claudio Sabattini: Contro la “politica dello scambio” come perdita di potere del sindacato (1998)
Intervento al convegno Gastone Sclavi e la stagione dei Consigli, tenutosi a Brescia nel 1998 e pubblicato su Studi bresciani, numero 11/2000 dei Quaderni della Fondazione Micheletti. Questo intervento fa parte del dossier pubblicato da “Inchiesta” ottobre-dicembre 2012 ed è stato curato dalla Fondazione Claudio Sabattini per l’iniziativa del 25 gennaio 2013 a Roma sul tema “C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro?”
[…] Io penso che l’esperienza compiuta negli anni Settanta sia stata una esperienza non esaurita, bensì stroncata alla fine di quel decennio con la vicenda dell’Eur e con le sue inevitabili conseguenze; del resto non fu un caso che fossero contrari all’Eur ed alla sua strategia, fin da allora, quelli che si erano incontrati giovanissimi nel ’68-’70.
Gastone ed io venivamo dalla fase precedente, dei primi anni Sessanta, attraversata da molte discussioni, molte analisi del processo sociale in Italia. Perciò, in una certa misura, arrivavamo al ’68 e al ’69 preparati rispetto ad un’esplosione sociale che, per la verità, manifestò tutta la sua spontaneità rispetto al sindacato e che il sindacato non accolse mai come tale. Del resto, il sindacato nel suo complesso rimase quello che era, soprattutto nei suoi vertici confederali che non mutarono per nulla di fronte all’esplosione del ’68-’69 e che semmai, a partire dalla Cgil, cercarono di cavalcare quella fase, considerandola inevitabile. Anche se, va ricordato, nel 1970, la Cgil sancì che i Consigli di fabbrica erano la struttura di base del sindacato, gli stessi consigli non ebbero alcuna influenza rispetto alle strategie essenziali che la Cgil elaborò successivamente.
Dico non a caso questa esperienza fu stroncata nella seconda metà degli anni Settanta, prima politicamente con la vicenda dell’Eur e poi conclusivamente con la battaglia molto dura e difficile, e la sconfitta, altrettanto dura, subita in quella vertenza Fiat che inaugurò la fase delle grandi ristrutturazioni.
Questa ristrutturazione dell’organizzazione produttiva e della forza lavoro, arrivata da noi in ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, diventò l’asse fondamentale della ricostruzione del potere del capitale e in generale del potere padronale rispetto al lavoro, alla sua condizione e a tutto cià che strategicamente conquistato all’interno delle fabbriche. Ma proprio per questo, io credo, proprio per il fatto che l’esperienza degli anni Settanta è stata stroncata, in una certa misura questa esperienza mi è rimasta addosso.
È verissimo, come molti pensano, che ciò che abbiamo vissuto dalla metà degli anni Settanta sia stato un periodo dominato totalmente da un processo il cui unico obbiettivo era la ricostruzione del potere padronale attraverso la liquidazione di molte conquiste ottenute dai lavoratori. Prima di tutto le conquiste di democrazia.
Vorrei ricordare che negli anni Ottanta non venivano stipulati accordi: l’unico concluso alla Fiat, nel 1986, fu un accordo separato, senza che una parte del sindacato, la Fiom di Torino, potesse manifestare un proprio punto di vista, se non quello di rifiutare, in una fase difficile e complessa, quella conclusione.
Il primo obbiettivo conseguito fu dunque la liquidazione della democrazia con l’assoluta centralizzazione: ciò serviva a determinare le condizioni perché in Italia si recuperasse molto di quanto si era perduto in rapporto diretto tra sindacato, lavoratori e sistema delle imprese.
Fu in questa assoluta centralizzazione che iniziò, nel 1977, la “politica dello scambio”, su cui stiamo ancora combattendo. Questa politica era basata su un criterio che le Confederazioni accettavano: l’ipotesi del contenimento salariale in funzione del fatto che non ci sarebbe stato un taglio occupazionale.
Il contenimento salariale ci fu e il taglio occupazionale fu tra i più tremendi che avvennero nella storia sociale italiana. Non era paragonabile nemmeno al primo grande processo di innovazione tecnologica e organizzativa che si compì a metà degli anni Cinquanta.
Quel passaggio rappresentò proprio la resa dei conti con l’elemento chiave di quello scontro di potere, cioè i lavoratori e le lavoratrici. A questo proposito furono elaborate anche delle teorie che ipotizzavano addirittura la fine della classe operaia e quindi la sua totale sostituzione attraverso le macchine e la robotizzazione; queste rappresentarono, poi, in una certa misura, le condizioni culturali che permisero di considerare i lavoratori e le lavoratrici come fatto puramente marginale nel processo produttivo.
Debbo dire che sono diventato segretario generale della Fiom per caso. Dico anzi che non mi sento nemmeno segretario generale della Fiom, almeno non come lo si sono sicuramente sentiti Trentin, Galli… Diventare segretario della Fiom nel 1994 voleva dire fare i conti con un periodo in cui la cosiddetta “politica dello scambio” consisteva semplicemente in una restituzione di poteri. Dello scambio non c’era traccia e del resto non è un caso che ancora oggi la cultura della Cisl, non dico della Uil, ma certamente della Cisl, sia fondata sulla possibilità di realizzare questo scambio. Nel 1994 sostenevo un nuovo corso, dicendo che lo scambio era ciò che noi avevamo vissuto negli anni Ottanta, ma che ormai non c’era più nulla da scambiare: la restituzione era avvenuta a un punto tale che non rimaneva più nulla da barattare, se non iniziare, anche formalmente, ad abbassare i salari e quindi a ricondurre il lavoro, i lavoratori, al “loro posto”.
Non c’è mai stato culturalmente un processo così ossessivo, fino ad arrivare, non a caso, a un punto di massimo compromesso con l’accordo del ’93, che venne addirittura con una dicitura diversa da parte sindacale e da parte confindustriale.
Il sindacato lo denominò “accordo sulla politica dei redditi”, la Confindustria invece “sul costo del lavoro”. In verità sono due tesi non così contrapposte, però non c’è dubbio che l’ossessività sulla riduzione del lavoro, del salario, delle condizioni del lavoro, da fattore vivo a puro costo, è forse l’operazione culturalmente più straordinaria che il ceto politico italiano abbia compiuto, proprio a partire dagli inizi degli anni Ottanta, dalla sconfitta operaia alla Fiat. Fu l’inizio della fase della politica di concertazione tra governo e sindacati che doveva raggiungere l’obbiettivo di riequilibrare la situazione fino a un punto in cui fosse liquidata definitivamente la scala mobile insieme a qualsiasi possibile garanzia sindacale.
Fatta questa premessa, che considero di una certa importanza almeno per ciò che riguarda il mio pensiero, io ritengo che questo periodo sia finito molto rapidamente: ha avuto il suo furore culturale in Italia tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ma credo che questa fase sia esaurita.
Noi abbiamo avuto l’avventura, come per fortuna ho avuto io, di lavorare con i meccanici. Il padronato meccanico è un padronato sincero che, magari con qualche esagerazione, dice sempre quello che intende fare, anche se di certo non si tratta di una controparte con atteggiamenti particolarmente comprensivi.
La nuova fase che stiamo vivendo è stata inaugurata da un opuscolo molto importante che ci è stato consegnato dal segretario generale di Confindustria. In esso si spiega che si produce per aumentare il valore e che i lavoratori sono pagati in rapporto all’aumento del valore che determinano, che i passaggi di categoria si fanno solo nel caso in cui ciò realizzi un aumento di valore.
In sostanza, con questi ragionamenti, si ritorna classicamente alle categorie tipiche dell’analisi capitalistica, e cioè che i lavoratori sono molto importanti se producono valore e se non lo producono vanno licenziati per il bene loro e dell’impresa.
Per inciso, io mi ricordo benissimo che a Bologna, come a Brescia e a Roma, dentro il sindacato ci sono sempre stati quelli che pensavano che stavano vivendo nel migliore dei mondi possibili. Da questo punto di vista noi abbiamo sempre fatto una lotta politica interna, e anche quando eravamo ai vertici delle organizzazioni sindacali, come nel caso di Gastone, siamo sempre stati in minoranza. Per questo ho detto che casualmente sono diventato segretario della Fiom in un momento di crisi della Fiom.
Insomma, la Fiat dice che se non si produce per aumentare il valore, o per accumulare profitto, è inutile produrre e quindi coloro che non aumentano il valore non esistono più per l’impresa e vanno semplicemente licenziati. Così quei giovani che costano la metà o anche un terzo dei lavoratori anziani debbono sostituire questi ultimi: questo è uno dei modi per far calare repentinamente il costo del lavoro.
Inoltre, se voi considerate la vecchia linea, cellula di base del taylorismo, vedete che oggi viene spezzettata, esternalizzata, mentre all’impresa vera e propria rimangono solamente i poteri tipici del comando, cioè la progettazione, la struttura finanziaria, il marketing e la commercializzazione. Il resto può essere fatto in qualsiasi modo, quindi l’impresa perde l’unità di tempo e spazio. Si produce a Torino o a Brescia, come in Malesia: cioè non ha più importanza. Così la Volkswagen produce automobili in Spagna,ma il motore viene dal Brasile.
Questo per dire come questa unità di tempo e di spazio sia in realtà assolutamente divaricata: ci si trova davanti, non al superamento del taylorismo in termini di disciplina, ma ad un modello industriale del tutto nuovo rispetto al passato ed eccezionalmente flessibile, dove contemporaneamente in un continente si produce per un altro continente, e di cui la logistica è l’aspetto decisivo. In questo senso, la prima operazione strategica che ha fatto la Fiat è stata quella di esternalizzare la logistica in modo tale da non esser più nemmeno responsabile di chi produce i componenti che poi vengono assemblati.
È da qui che nasce la battaglia di fondo: io credo che oggi noi stiamo cercando di fare una scelta giusta perché se non recuperiamo oggi la riduzione d’orario nel settore manifatturiero non la recupereremo più. Se la Fiom, i meccanici, non ripartono dalla essenzialità della prestazione di lavoro, dalla condizione di lavoro, non è possibile ricostruire la strategia sindacale.
Ed è per questo che noi pensiamo di realizzare una riduzione di orario che parta proprio dalle condizioni più pesanti della prestazione: questo deve essere il criterio secondo cui va dimensionata la riduzione dell’orario, fino ad arrivare al fatto che per alcuni, come gli impiegati e i tecnici, ci sono altre rivendicazioni,ma non quella della riduzione di orario.
In realtà si tratta di una strategia sulla prestazione di lavoro, sul controllo del tempo, perché di fronte a un impresa che si sta ridimensionando, il controllo del tempo diventa una funzione essenziale del potere sindacale, senza il quale esso è nudo di fronte a qualsiasi condizione.
Il secondo argomento, che riguarda sempre la prestazione, deriva da un’altra osservazione apparentemente diversa, anche se non lo è. È diverso il modo in cui noi oggi vogliamo affrontare, come vi ho detto, la riduzione dell’orario rispetto all’esperienza del ’69, che si tradusse nella liquidazione del sabato. Oggi noi pensiamo ad una riduzione inversamente proporzionale alla struttura gerarchica dell’impresa. La seconda diversità, che invece è anche una continuità, è il modo in cui noi possiamo concepire l’eguaglianza: io continuo a pensare che sia il valore fondamentale del sindacato, senza il quale non è possibile un sindacato. Noi oggi la concepiamo come l’eguaglianza nella diversità. In questo senso si apre un’apparente contraddizione rispetto a quegli anni in cui l’eguaglianza era “dare a tutti la stessa cosa”. Per noi oggi vuole dire dare a coloro che sono considerati deboli condizioni più favorevoli di quelli che sono considerati meno deboli.
Perché se l’uguaglianza non si fonda sulla diversità, la parificazione fra uomo e donna ha un significato solo apparente, ma non reale, uguaglianza, così come la parificazione fra un operaio che lavora alle linee di montaggio e un progettista, che lavora appunto a un progetto: le due condizioni non sono assimilabili tra di loro se non diversificando le rivendicazioni che sostengono e che vogliono migliorare la loro condizione.
Questa è in fondo la considerazione che mi fa pensare che persone, amici come Gastone, non abbiano esaurito la loro funzione: mai come in questo momento quelle esperienze, allora compiute, possono essere ridefinite reinterpretando il presente nella sua peculiarità nella riproposizione possibile della strategia dell’uguaglianza – oggi io dico – nella diversità.
Questa è la condizione per una politica sindacale che voglia affrontare la complessità dell’attuale mondo sociale e quindi le sue articolazioni, che apparentemente sono fra di loro contraddittorie, ma che possono essere modificate in un disegno di uguaglianza.
Allora ripartire, oggi, significa avviare nelle nuove condizioni l’operazione che fu compiuta alla fine degli anni Sessanta, con i lavoratori e le lavoratrici protagonisti della loro storia e della lotta sociale. Ed è in questo senso che considero assolutamente necessaria una continuità con quell’esperienza e in questo senso mi ritrovo, allora come oggi, nella stessa posizione.
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