Vito Mancuso, Rosanna Virgili : Dibattito su Islam, Cristianesimo e la polemica sul burkini

| 12 Settembre 2016 | Comments (0)

 

Diffondiamo il dibattito tra Vito Mancuso e Rosanna Virgili  pubblicato su la Repubblica e su Avvenire tra il 26 agosto e il 12 settembre

1. Vito Mancuso: L’Islam, il Cristianesimo e la polemica sul burkini

Diffondiamo da la repubblica.it del 26 agosto 2016

 

La querelle sul divieto del burkini e la polemica sulle suore in spiaggia ha avuto di certo il merito di richiamare la comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne. Ha avuto quindi una felice intuizione l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, nel pubblicare sulla sua pagina facebook, come commento, una foto di alcune religiose al mare? Per giudicare basta leggere ciò che al riguardo ordinava san Paolo (in questo artcolo mi si scuseranno le lunghe citazioni, ma credo sia importante): «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10, versione ufficiale Cei) …

 

Qui san Paolo dice tre cose precise: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.

L’islam ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime» (4,34). Quanto alla finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano: «Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale innegabile centralità maschile. Da qui, come già per san Paolo, per il Corano discende il tipo di abbigliamento cui deve conformarsi il corpo femminile: «Profeta, di’ alle tue moglie e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole» (33,59).

Appare quindi chiaro che, sia per il cristianesimo sia per l’islam, l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione né tanto meno di gusto, ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima. Non è certo un caso che in Occidente l’affermazione della piena parità giuridica uomo-donna abbia avuto come conseguenza la mutazione dell’abbigliamento femminile da cui è scomparso ogni segno di subordinazione, compreso il velo in testa a cui, stando alle severe disposizioni di san Paolo, erano tenute tutte le donne in chiesa fino a solo qualche decennio fa. Dietro il burkini quindi, e in genere dietro ogni tipo di velatura più o meno ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui sottomessa. Per questo a mio avviso non ha torto il premier francese Manuel Valls ad affermare che il burkini «è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna» e che quindi «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». E dato che la parità uomo-donna è anche un nostro valore, io penso che quel costume, e in genere l’abbigliamento che esso traduce, non sia compatibile neppure con il nostro paese. È semplicistico dire che alla libertà di andare in spiaggia con il bikini deve corrispondere quella di andarvi con il burkini: nel primo caso infatti si assiste a un movimento di liberazione del corpo, mentre nel secondo di asservimento. E la libertà, se la si intende seriamente, non è mai solo astratta, cioè fare quello che si vuole, ma sempre concreta, cioè fare quello che è giusto e fa bene, e non ci sono dubbi che la liberazione del corpo sia un bene, anche per la liberazione della mente che ne consegue.

Il cristianesimo e l’islam, così come l’ebraismo e le altre religioni, sono quindi uno strumento di oppressione? Lo possono essere, non ci sono dubbi, c’è la storia a dimostrarlo, come del resto la storia mostra che possono diventare anche strumento di liberazione se vissuti correttamente: una liberazione dall’oppressione sociale (si pensi alla teologia della liberazione in America Latina) e una liberazione dal proprio egocentrismo e dalle proprie cattiverie, si pensi alla storia della santità e della mistica. Il punto essenziale è comprendere che siamo inseriti tutti in un processo di cui nessuno, neppure ovviamente la laicità francese, detiene il punto di vista assoluto e alla cui evoluzione tutti sono chiamati a contribuire. Diceva il grande teologo Raimon Panikkar che «le religioni si devono convertire». È vero: le religioni si devono convertire all’idea di non rappresentare il punto di arrivo dell’umanità, ma di essere uno strumento a servizio del bene e della giustizia, i quali sono i veri punti di arrivo cui continuamente tendere.

L’imam di Firenze ha accostato le suore cristiane alle donne musulmane, ma ha dimenticato che le suore rappresentano un gruppo particolare di donne che ha liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza, e il cui abbigliamento richiama il loro stile di vita alternativo. Sono ben lontane però dal rappresentare tutte le donne occidentali, le quali hanno altrettanto liberamente orientato se stesse secondo ben altri stili di vita e di abbigliamento. L’islam, che non ha suore, in un certo senso tende a rendere un po’ suore tutte le donne che vi aderiscono. Il che però non è compatibile con l’idea di donna cui l’Occidente è giunto. E di questo i musulmani e le musulmane che vogliono vivervi dovrebbero, a mio avviso, prendere atto.

 

 

2. Rosanna Virgili: Burkini e velo alle donne: non è una storia cristiana

“Avvenire” dell’1 settembre 2016

Citare un testo biblico ‘tagliando’ è un fatto inevitabile, lo sanno i liturgisti. Ma prendersi la libertà di farlo dove si creda, è un trucco antico, caro ai vecchi dogmatici e poco rispettoso verso le scienze bibliche: a seconda di dove metti le forbici, infatti, il tessuto che resta assume un senso, fa passare un messaggio, fonda una verità.

Un vizio altresì, trasversale, a credenti e laici, quello di estrapolare un versetto dal suo contesto per eleggerlo – nudo e crudo – a legge universale e necessaria. Qualcosa del genere fa Vito Mancuso su un passo di Paolo, tornato di grande interesse per i fatti relativi al burkini e al velo delle donne di religione islamica. L’approccio a questo argomento, utilizzato in un articolo apparso su ‘Repubblica’ del 27 agosto scorso, si fonda su una tesi, quella della «comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne». Un’identità suffragata dalla citazione di otto versetti della Prima Lettera di Paolo ai Corinti (1Cor 11,3-10) che vengono messi in una sorta di sinossi con altrettanti testi del Corano ad attestare come «sia per il cristianesimo, sia per l’islam l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione (…) ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima».

La stessa cosa, insomma. A partire dalla citazione di Paolo: «l’uomo non deve coprirsi il capo, dal momento che è immagine e gloria di Dio; dall’altra, invece, la donna è gloria dell’uomo…» il teologo conclude: «Qui San Paolo dice tre cose precise: 1. Che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente 2. che la donna non solo è sottoposta, ma è addirittura finalizzata all’uomo nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata ad essere la ‘gloria’; 3. che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta». E finisce col dire: «L’islam rappresenta la medesima impostazione». Non so se teologhe e teologi di religione islamica ed esperti del Corano sarebbero d’accordo su tale «medesima impostazione», ma veniamo a Paolo. Sulla prima cosa «precisa» (che la donna è sottoposta all’uomo) c’è un primo ostacolo: nei versetti seguenti a quelli citati Paolo conclude: «Tuttavia nel Signore non c’è donna senza uomo, né uomo senza donna. Come infatti la donna proviene dall’uomo, così l’uomo è mediante la donna. Tutto poi viene da Dio» (vv.11-12). Il commento che fa Rinaldo Fabris – uno dei più grandi biblisti italiani ed esperti di Paolo – è questo: quanto Paolo dice che: «capo della donna è l’uomo e capo dell’uomo è Dio» risale al racconto della creazione di Genesi e al diverso rapporto dell’uomo e della donna con Dio che lì è descritto (cf Genesi 2,20ss), ma: «Questo argomento viene integrato con una riflessione che rileva la reciprocità dell’uomo e della donna nell’ottica cristiana – nel Signore – e davanti a Dio» (Prima Lettera ai Corinti, Paoline, 1999, p.142).
C’è insomma uno sviluppo dal testo di Genesi a quello di Paolo e le cose non sono, poi, così ‘precise’. Un altro testo fa vacillare ancor più la tesi in questione ed è questo: «La moglie non ha potere sul proprio corpo, bensì il marito e, allo stesso modo, anche il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie» (1Cor 7,4). Chi, allora, ha potere su chi? Quale esclusiva sottomissione del corpo della donna al marito? E, mentre il testo citato del Corano dice di «battere» le proprie mogli (4,34), nella Lettera agli Efesini si legge: «Voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo amò la Chiesa e diede sé stesso per lei» (Ef 5,25). E ancora, in merito alla morale coniugale: «Non sottraetevi l’uno all’altro se non di comune accordo temporaneamente per dedicarvi alla preghiera e per stare, poi, di nuovo insieme» (1Cor 7,5): nella coppia è previsto un vicendevole rispetto e una piena reciprocità! Che dire? Sulla seconda cosa «precisa» secondo Mancuso (la donna addirittura finalizzata all’uomo) si trova un altro ostacolo, sempre nella Prima Corinti: le parole rivolte alla «donna non sposata»: «Chi è sposato si prende cura delle cose del mondo, di come piacere alla moglie ed è diviso. E anche la donna non sposata e la giovane si prende cura delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; invece quella sposata si prende cura delle cose del mondo, di come piacere al marito» (1Cor 7,33-34). Uomo e donna vengono messi sullo stesso piano e la donna – che senza un marito viveva all’epoca una oggettiva precarietà – assume la stessa dignità dell’uomo dinanzi a Dio e alla comunità. Non è certo ‘finalizzata all’uomo’, al contrario, è libera di accedere autonomamente a Dio. Molta letteratura del femminismo cristiano contemporaneo considera la condizione delle ‘vergini’ come una vera esperienza di emancipazione della donna.
Anche il caso della vedova che «è legata al marito per tutto il tempo in cui egli vive, ma quando il marito muore è libera di sposare chi vuole» documenta tale nonsubordinazione della donna al marito, nella scala che sale fino a Dio. Infine, sulla terza «precisazione» di Mancuso: la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta. Gli ostacoli sono almeno due: uno scritturale e l’altro di sociologia delle Chiese delle origini. Lo stesso Paolo dice, infatti, nella lettera ai Galati: «rivestiti di Cristo non c’è più giudeo, né greco, schiavo, né libero, maschio, né femmina» (Gal 3,28). L’umanità nuova in Cristo fa decadere qualsiasi gerarchia: quella antropologica, della superiorità di genere – del maschile sul femminile; quella socio-economica – del padrone sullo schiavo; e perfino quella dell’elezione: la superiorità del popolo di Abramo su tutti gli altri. Questo testo rappresenta un vero ostacolo per i detrattori di Paolo, circa l’accusa di misoginia. Ma anche il rilievo sociologico che l’epistolario paolino – specialmente quello considerato autentico – insieme al libro degli Atti degli Apostoli permette di fare, esprime una chiara dignità delle donne. Pensiamo a Priscilla, moglie di Aquil , nella cui casa a Corinto visse Paolo: insieme a suo marito Priscilla era docente di Vangelo per gente come Apollo (cf At 18,26). E a Lidia, che ospitò la prima chiesa di Filippi, in Macedonia, o ad Evodia e Sintiche, grandi collaboratrici di Paolo che, della stessa chiesa, divennero responsabili. A Maria, madre di Giovanni Marco che governò la prima chiesa-casa di Gerusalemme, o a Febe, diacona della chiesa di Cencre. A Giunia, apostola ‘insigne’ del Vangelo, che aveva preceduto Paolo stesso nella fede; alla ‘sorella Apfia’, al cui indirizzo è inviato – tra gli altri – l’incantevole biglietto a Filemone.
Non si può negare una presenza autorevole e per nulla ‘sottoposta’ delle donne nelle comunità cristiane, che indossassero o meno il velo quando pregavano, o che tacessero durante le assemblee. L’esegesi scientifica invita a tener conto dei condizionamenti culturali in cui nasce e cresce la Bibbia, così come delle ragioni catechetiche e teologiche dei suoi contenuti. Nessuno può limitarsi a darne una lettura parziale e letterale. Il pensiero di Paolo sulle donne e sul loro capo che andrebbe velato non si può dedurre dai versetti 3-10 della Prima Corinti, ma occorre sottoporre a un’analisi critica ogni passo delle sue lettere, accettando che non si troverà mai una definizione ‘precisa’ e univoca per essere servita come un precetto eterno e immutabile. Tra i suoi testi, infatti, ci sono differenze, incoerenze, molte contraddizioni. Questo vale per tutta la Bibbia. Non c’è esegesi senza ermeneutica. Mancuso fa cosa molto buona se ricorda a tutti come alcuni passi della Scrittura siano stati utilizzati da diversi sistemi religiosi – anche nelle loro elaborazioni teologiche – per sottoporre le donne al potere maschile e negar loro la piena dignità. Ma fa cattiva informazione biblica quando utilizza quanto è scritto in pochi versetti come sacra dottrina senza il vaglio di una critica e ragionevole mediazione. Grazie a Dio e grazie anche ai preziosi stimoli culturali dei Paesi dove essa vive, la Chiesa cattolica ha ormai da più di mezzo secolo, ufficialmente fatto propri i canoni dell’esegesi biblica con la Costituzione conciliare Dei Verbum. Ispirandosi ai metodi storico-critici questa invita a distinguere – nei testi sacri – la «parola di Dio» dalle «parole umane» in cui essa si esprime. Di queste ultime anche il velo delle donne fa parte e le donne cattoliche lo hanno imparato da tempo. La scomparsa del velo dal capo delle donne non è dovuta solo all’ «affermazione della parità giuridica tra uomo e donna in Occidente», ma anche alla Riforma Liturgica dello stesso Concilio Vaticano II. Perché non aggiungere questo, magari come nota, sotto una citazione?

3. Vito Mancuso: L’occidente condizionato da alcuni suoi versetti

Diffondiamo da L’avvenire  del 12 settembre 2016

Questa la replica del prof. Mancuso. A seguire nell’ordine: il primo articolo della prof. Rosanna Virgili e la successiva risposta alla replica:

Penso che abbia completamente sbagliato bersaglio la professoressa Rosanna Virgili nel criticare aspramente su Avvenire del 1 settembre il mio articolo redazionalmente intitolato ‘L’islam, il cristianesimo e la polemica sul burkini’ apparso su Repubblica del 27 agosto scorso. L’obiettivo del mio contributo infatti non era in alcun modo l’esegesi e l’ermeneutica del controverso pensiero di san Paolo riguardo alle donne, quanto piuttosto una riflessione sulla differenza tra Occidente e Islam a partire da tre fatti inequivocabili: 1) che per secoli e secoli nel mondo occidentale e nel mondo islamico si è avuta una palese sottomissione della donna al potere maschile; 2) che oggi nel mondo occidentale quella sottomissione della donna non c’è più; 3) che l’abbigliamento è un chiaro indice di tale evoluzione, visto che prima le donne occidentali non mostravano gambe e braccia in pubblico e portavano il velo in chiesa, mentre oggi agiscono del tutto all’opposto …

A mio avviso la sottomissione femminile del passato non può non avere una radice anche nel testo che per quei secoli era il punto di riferimento indiscusso, cioè la Bibbia, Nuovo Testamento compreso, così come oggi la condizione della donna nel mondo islamico si spiega anche in base al Corano. Intendendo negare questa mia impostazione e affermare invece che la sottomissione della donna non ha fondamento biblico, Virgili mi accusa di scorretta informazione, presenta alcuni testi di san Paolo e poi conclude: «Non si può negare una presenza autorevole e per nulla ‘sottoposta’ delle donne nelle comunità cristiane, che indossassero o meno il velo quando pregavano, o che tacessero durante le assemblee». Assumendo per buona tale affermazione, penso ci si debba chiedere: poi però cosa è successo? Come mai quella presenza autorevole e per nulla sottoposta delle donne nelle comunità cristiane è quasi subito del tutto sparita? Come ha potuto la gerarchia ecclesiastica del cristianesimo configurarsi come unicamente maschile?

A meno di sostenere che la tradizione ecclesiastica abbia operato un tale travisamento della Bibbia da configurarsi come tradimento, è evidente che la lettura tradizionale aveva la possibilità di ritrovare nella Bibbia non solo quanto afferma Virgili sul ruolo delle donne, ma anche il suo contrario. Ed è esattamente il caso del passo di san Paolo in 1Corinzi 11,3-10 da me riportato nell’articolo in questione e che alla mentalità dell’epoca presentava tre precisi concetti: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta, ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la ‘gloria’; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.

Il fatto che Paolo altrove dica altre cose riguarda il suo pensiero in sé e per sé, non la storia degli effetti prodotti da alcune sue affermazioni. Ci sono i secoli di storia colmi di subordinazione femminile, c’è un preciso diritto matrimoniale che sanciva l’inferiorità della moglie rispetto al marito, a testimoniare gli effetti prodotti da un testo come 1Cor 11,3-10. Non ha quindi nessun senso, nel contesto del mio articolo, dire che san Paolo non la pensava sempre così, perché il merito del mio ragionamento non riguardava san Paolo in sé ma l’evoluzione dell’Occidente riguardo alla condizione femminile.

Virgili poi mi accusa di aver tagliato in modo indebito il passo di 1Corinzi e di fare «cattiva informazione biblica», ma si tratta di un’accusa infondata e che peraltro può essere rigirata a lei stessa. È infondata perché gli 8 versetti paolini sono da me riprodotti integralmente senza alcun minimo taglio e perché i versetti che seguono su cui Virgili insiste (11-12) non mutano per nulla la questione della sottomissione femminile a livello ecclesiale: la parità ontologica proposta da san Paolo a livello mistico in quei versetti non produce per lui parità ecclesiastica. Prova ne siano i successivi versetti 13-16 nei quali san Paolo riprende l’argomento della differenza uomo-donna per dire che la donna deve avere il capo coperto e l’uomo no. L’accusa di tagli indebiti poi può essere rigirata alla stessa Virgili, dapprima perché non cita i versetti di 1Cor 13-16 a completezza della pericope in oggetto, e soprattutto perché, assumendosi il ruolo di avvocato difensore di san Paolo, richiama alcuni testi paolini (1Cor 7, Ef 5, Gal 3,28) ma omette i più imbarazzanti a proposito delle donne, come 1Cor 14,34-35 e 1Tm 2,11-15.

Ecco il primo: «Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea». Ed ecco il secondo: «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza». È da testi come questi che proviene nell’arte occidentale la frequente raffigurazione del Serpente tentatore con il volto di donna, come anche l’assetto istituzionale maschile della Chiesa per mutare il quale le teologhe e le bibliste contemporanee giustamente lottano, teologhe e bibliste che sono una chiara contraddizione del pensiero paolino perché il Paolo storico non avrebbe permesso loro di insegnare.

Virgili afferma che «non c’è esegesi senza ermeneutica». È verissimo, ma la questione decisiva riguarda l’intenzione che anima l’ermeneutica. Perché per molti secoli i testi sopra citati venivano fedelmente rispettati, e oggi invece fanno problema alla coscienza al punto che ci imbarazzano e ne faremmo volentieri a meno? Virgili rimanda al Concilio Vaticano II, ma si tratta di una risposta parziale perché il Vaticano II fu a sua volta la conseguenza di un processo iniziato molto prima e che si chiama modernità. È stata la modernità a far evolvere la coscienza occidentale verso la parità uomo-donna e quindi a far sentire l’inaccettabilità di alcune espressioni bibliche, tra cui quelle di san Paolo sopra richiamate. Ed è sempre la modernità a segnare la più grande differenza tra mondo occidentale e islam, abbigliamento femminile compreso. Il Vaticano II ha chiamato la modernità «segni dei tempi» e ha visto in essa il lavoro dello Spirito di Dio che sempre assiste l’evoluzione del mondo.

Essere moderni in ambito teologico non significa essere genericamente progressisti. Significa piuttosto assegnare il primato non più all’autorità del testo, ma al bene dell’essere umano, a servizio del quale si giunge anche a piegare il testo biblico e il patrimonio dottrinale della Chiesa, perché si ritiene che non c’è nulla di più prezioso della vita umana e della sua fioritura. È da qui che nasce l’intenzione che nutre quell’ermeneutica capace di una nuova e più liberante esegesi su cui Rosanna Virgili ha messo l’accento nella sua infondata critica contro il mio articolo.

 

4. Rosanna Virgili: Schemi superati e parziali. È già stata fatta autocritica

Diffondiamo da  “Avvenire” dell’11 settembre 2016

Un esercizio critico è quanto di più utile e civile ci sia al mondo ed esprimo il vero piacere di poter condividere un secondo passaggio di tale nobilissima e rara pratica, nel dibattito con il professor Vito Mancuso. Vorrei chiarire che uso l’aggettivo ‘critico’ nell’accezione filosofica di ‘razionale’, che è il modo in cui credo di averlo applicato a quanto il teologo scrive. Questo tipo di critica non si fa contro, ma circa un argomento, per valutarne la solidità, ma anche per allargare gli orizzonti. Chi ama il cuore delle cose apprezza questa critica; essa non tende, infatti, a dare un giudizio di valore, a disprezzare l’autore, né tanto meno a cancellare le sue tesi; non si misura in termini di asprezza, né di mitezza, perché è semplicemente una questione di metodo.

Non a caso lo studio scientifico della Bibbia utilizza – da Spinoza in poi – proprio dei metodi con dei criteri e delle tecniche approvate dai collegi degli esperti; essi sono: diacronici, sincronici, storico-critici (condotti con lo strumento della ragione, basati sulle scienze storiche, attenti agli studi comparati e vincolati ai suffragi tratti dall’archeologia); redazionali, narrativi e semiotici, strutturali, canonici e teologici. In tutti questi metodi, la prima indicazione per leggere un testo riguarda la sua delimitazione. Non ho criticato Mancuso di aver tagliato il testo, ma del criterio utilizzato per farlo e dell’uso immediatamente dogmatico dei versetti citati.Lo studio scientifico della Scrittura è frequentato nelle Chiese cristiane riformate e non solo ammesso ufficialmente nella Chiesa cattolica, da più decenni, ma esigito nella formazione culturale dei futuri preti, i quali debbono sapere chi fossero Schleiermacher e Martin Noth, se vogliono conseguire il Baccalaureato in Teologia, necessario per l’accesso ai ministeri ordinati. Ma anche i futuri insegnanti di religione studiano Bultmann e leggono Nietzsche, così come Levinas e Ricoeur.

Sanno che Paolo sulle donne ha detto tutto e il contrario di tutto: «Il giudizio di Paolo circa il posto delle donne nella Chiesa è stato il campo di battaglia nel quale le questioni ecclesiali femministe sono state e sono, oggetto di scontro. La sua autorità è stata addotta, sia per ridurre le donne al silenzio, sia per promuoverne l’avanzamento nel ministero». È l’introduzione di un volumetto scritto da grandi teologhe e bibliste come Cettina Militello e Maria Luisa Rigato insieme a Jerome Murphy-O’Connor, uno dei più noti specialisti delle Lettere ai Corinti (Paolo e le donne, 2006, p.11). Credo che sia più doveroso informare sugli attuali approcci alla Scrittura, piuttosto che reiterare gli schemi usati in passato, come fossero ancora attuali. Concordo pienamente con Mancuso quando dice che «la sottomissione femminile del passato non può non avere una radice anche nel testo biblico» e non mi sognerei mai di affermare che «la sottomissione della donna» non sia stata fondata anche su quelli, anzi ho scritto a chiare note che spesso i testi sono stati arbitrariamente utilizzati dai «sistemi religiosi »; non v’è dubbio che qualcosa debba essere successo per cui la «presenza autorevole delle donne nelle comunità cristiane è quasi subito del tutto sparita». Critico, invece, che Mancuso non faccia minima menzione dell’auto-critica che la Chiesa cattolica stessa ha fatto a proposito di questo modo di procedere, in relazione alla Bibbia. Un testo del Magistero come la Mulieris Dignitatem è stato commentato da una teologa seriamente critica, come Lilia Sebastiani, la quale scrive: «L’adiutorium simile sibi è stato soggetto a tanti equivoci di stampo patriarcale e androcentrico in passato. Se i Padri della Chiesa, non diversamente dai rabbini tradizionalisti, leggevano solo la donna come aiuto dell’uomoe non viceversa – per cui la donna finiva con il ritrovarsi essere aggiunto, complementare, pressoché ‘supplementare’ (…), la Mulieris Dignitatem riconosce e ufficializza quello che l’esegesi del secolo XX e soprattutto la riflessione biblica al femminile avevano già evidenziato, spesso in modo marginale e sospetto, rispetto alla predicazione più ufficiale. La donna e l’uomo sono creati da Dio come aiuto reciproco e non in vista di una funzione (…). Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione» (Consacrazione e Servizio, 5/2008).

Nella sua replica Mancuso chiarisce definitivamente: «È stata la modernità a far evolvere la coscienza occidentale verso la parità uomo-donna e quindi a far sentire l’inaccettabilità delle espressioni bibliche, tra cui quelle di san Paolo». Lo è stato sicuramente per molti aspetti. Ma ogni fenomeno va guardato anche in controluce. Il Concilio ha visto e accolto i «segni dei tempi», ma è stato, a sua volta, un grande «segno dei tempi». Tra il ’700 e il ’900 sono sorte in Europa migliaia di famiglie religiose femminili che si occupavano di welfare, quando ancora gli Stati non avvertivano affatto la responsabilità sociale e non garantivano né la salute, né l’istruzione, né il lavoro. Quanta profezia e ‘modernità’ in quelle donne! E che dire delle Abbadesse medievali che reclamarono il diritto di autonomia nel governo delle cose spirituali e materiali? Già nel primo secolo dell’era cristiana, i Vangeli si posero contro lo strapotere maschile nell’istituto matrimoniale, difendendo il diritto della donna di non essere ripudiata per qualsiasi capriccio del marito, o di non essere lapidata a motivo dell’adulterio (cf Mt 19Gv 8). Delitti contro le donne ancora atrocemente attuali che le Scritture cristiane denunciano e ripudiano fortissimamente da almeno due millenni! Perché non dire anche questo, e, anzi, oggi, soprattutto questo?

Mancuso invita ad «assegnare il primato non più all’autorità del testo, ma al bene dell’essere umano, a servizio del quale si giunge anche a piegare il testo biblico». Sì, se con ciò si intenda il criterio dettato da Gesù: Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Il testo biblico non va piegato, ma capito e fruito nelle sue intrinseche ragioni; in quell’anima che è la Parola di Dio che modella e trasforma il suo Corpo nelle varie sintassi della storia. In un autentico auspicio di «fioritura dell’umano », la Scrittura va, certo, liberata e «fatta crescere» – diceva Gregorio Magno – ma non cestinata.
Infine, giusto per togliermi dall’imbarazzo, vorrei sdrammatizzare, con due curiose note autobiografiche, la questione dei testi che Mancuso mi addebita di non aver citato. Il primo: «Le donne nelle assemblee tacciano, perché non è loro permesso parlare» (1Cor 14,34-35). Ben diciotto anni fa nella prima ora di lezione sul Corpus Paulinum aprii proprio con questi versetti, con evidente stupore degli studenti. Dissi che chi avrebbe tenuto loro il Corso era una persona non legittimata a farlo, ma, proprio per questo, la più vicina a Paolo, il quale si era trovato, a sua volta, in tali condizioni. Dalle sue Lettere, infatti, si evince che mai fosse stato pienamente legittimato come Apostolo, non facendo parte dei Dodici e che molte fossero le discussioni, i rifiuti, i contrasti che sostenne per affermare la verità del Vangelo e il diritto di annunciarlo. Volli mettere subito in chiaro che, al di là dei contenuti, simile al mio era il pulpito biblico da cui veniva la predica.
Il secondo testo, quello della Prima Timoteo: «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare (…) Ora lei sarà salvata partorendo figli…» (2,11-15). Per uno strano scherzo della vita sono stata la prima donna a tenere una Relazione per la Settimana Biblica Italiana, nell’Aula Magna del Pontificio Istituto Biblico, col pancione… mio figlio nacque dopo un mese, era il lontano 1998! Chissà se Paolo, quel giorno, si rigirò nella tomba; da parte mia sono certa che la salvezza verrà dai figli e spero che sia per tutti, non solo per chi li partorisce.

 

 

 

Category: Culture e Religioni, Donne, lavoro, femminismi

About Vito Mancuso: Vito Mancuso. Nato nel 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani, è dottore in teologia sistematica. Dopo il liceo classico statale a Desio (Milano), ha iniziato lo studio della teologia nel Seminario arcivescovile di Milano dove al termine del quinquennio ha conseguito il Baccellierato, primo grado accademico in teologia, ed è stato ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini all’età di 23 anni e sei mesi. A distanza di un anno ha chiesto di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo studio della teologia. Dietro indicazione del cardinal Martini ha vissuto due anni a Napoli presso il teologo Bruno Forte (attuale arcivescovo di Chieti e Presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede della Cei), sotto la cui direzione ha conseguito il secondo grado accademico, la Licenza, presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino”. Vito Mancuso è un teologo italiano. E' stato docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano dal 2004 al 2011. I suoi scritti hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico, in particolare L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007),Io e Dio Una guida dei perplessi (Garzanti, 2011), Il principio passione La forza che ci spinge ad amare (Garzanti 2013), tre bestseller da oltre centomila copie con traduzioni in altre lingue e una poderosa rassegna stampa, radiofonica e televisiva. Il suo pensiero è oggetto di discussioni e polemiche per le posizioni non sempre allineate con le gerarchie ecclesiastiche, sia in campo etico sia in campo strettamente dogmatico. Dal 2009 è editorialista del quotidiano “la Repubblica”. I suoi ultimi libri: "La vita segreta di Gesù" (Garzanti Editore, aprile 2014) e "Io amo: Piccola filosofia dell'amore( Grazanti Editore 2014). Da marzo 2013 è docente di "Storia delle dottrine Teologiche" presso l'Università degli Studi di Padova.

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