Rosi Braidotti: Il femminismo post umano

| 18 Maggio 2015 | Comments (0)
Diffondiamo due recensioni del libro di Rosi Braidotti
1. Claudia Landolfi: Il femminismo postumano di Braidotti nel capitalismo avanzato: con o senza genere?
da www.noidonne.org 18 maggio 2015
Il postumano di Braidotti  (edito da Derive Approdi, 2014) è un libro di etica. Un libro che può risultare, di primo acchito, difficile. Per conquistare delle chiavi di accesso interpretative e orientarsi nella multiforme e intenzionalmente frastagliata proposta teorica, è utile rimandare al dibattito interdisciplinare che è stato prodotto negli ultimi decenni nell’ambito dei Gender Studies, Postcolonial Studies, Media Studies e Cultural Studies. Inoltre, il testo presuppone anche una certa familiarità con le problematiche e le pratiche critiche introdotte dai movimenti femministi, ecologisti-ambientalisti, animalisti. Non mancano riferimenti importanti all’avanzamento nell’ambito delle biotecnologie, al capitalismo cognitivo, al post-strutturalismo, alla ‘svolta affettiva’, alla nozioni di biopotere, bios, zoe, solo per citarne alcuni. Poiché il quadro di riferimento teorico, com’è evidente, è troppo ampio per poterne dare conto in questa occasione, ci limiteremo ad analizzare alcune parole chiave del complesso lavoro di Braidotti. Innanzitutto ‘postumano’. Che cos’è il postumano?

 

 

Postumano è una traccia che registra una serie di fenomeni che si presentano nella contemporaneità e che sono difficilmente ascrivibili al modello tradizionale occidentale di anthropos (e ai suoi logoi). Quando pensiamo all’anthropos, infatti, si para innanzi alla nostra mente subito un’immagine, una rappresentazione che ha un potere evocativo universale, una capacità di impressione sul mondo. Un modello, appunto, che si presuppone essere la forma dell’ente umano al contempo già presente e inscritta nel nostro naturale esistere e ciò a cui tendere, in un movimento finalizzato a un continuo perfezionamento delle modalità di adesione e raggiungimento di questo modello. Anthropos è stato pensato, quindi, come facies essenziale dell’umanità a partire dalla quale si dà la misura di tutte le cose. Braidotti, non a caso, infatti, analizza nel suo libro il modello dell’Uomo Vitruviano e le sue deformazioni nella contemporaneità. Funzionando da strumento di misurazione e valutazione del mondo, nonché da scopo dello sforzo umano nel costruire cultura, non poteva non essere caratterizzato secondo permanenza e non contraddizione.

Per fare un esempio di immediata comprensione e calare il discorso in un orizzonte comunemente esperito, pensiamo al Pater Familiae. Chi più anthropos di lui? Il Pater Familiae è una faccia storico-giuridica dell’anthropos il cui scopo è…realizzare l’Anthropos, cioè l’immagine di sé attraverso l’esercizio di potestas sugli altri membri della famiglia, giungendo al grado massimo di sviluppo lineare e unidirezionale, completezza e solidità a partire dal quale tutto si tiene. Dunque, per procedere con il ragionamento, di un Pater Familiae non si può predicare, al tempo stesso, la virilità e la transessualità perché ciò entrerebbe in contraddizione con l’assunto di unicità, coerenza e uniformità – in tutte le sue parti – del modello. Inoltre, il Pater Familiae è uno e unico: che succede se immaginiamo una moltiplicazione di patres in un nucleo familiare? Da questo esempio discendono almeno due considerazioni: che quell’anthropos posto a fondamento e misura di tutte le cose, del mondo maturale così come di quello gnoseologico ed epistemologico (pensiamo ai saperi disciplinari/ti come antropo-logia, antropo-sofia, o alle tendenze culturali poste sotto il segno di un antropo-morfismo, antropo-centrismo etc.) è inequivocabilmente maschio, annientando e delegittimando tutto ciò che non gli è proprio. Maschio, con cui viene fatta coincidere, tout court, l’umanità intera. Da qui l’incipit del libro di Braidotti: “Non tutti possiamo sostenere, con un alto grado di sicurezza, che siamo sempre stati umani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo.

Alcuni di noi non sono considerati completamente umani ora, figuriamoci nelle precedenti epoche della storia occidentale sociale, politica e scientifica.” Infatti non si dà, nella storia del pensiero occidentale, un corrispettivo termine femminile o neutro che abbia la stessa funzione fondante e teleologica (da telos, fine, scopo) riconosciuta ad anthropos all’interno di una struttura socio-politica e se pensiamo a ghiunè (donna in greco antico) il rimando più ovvio è al gineceo come assegnazione limitata di spazi e di possibilità ai non-anthropoi, e non certo a una disciplina epistemologica o a una dottrina giuridica o a un modello in base al quale plasmarsi. Inoltre, dal caso del Pater Familiae deduciamo anche che la sfera della sessualità ha una forza dirompente che richiede la convergenza di molti sforzi pedagogici e istituzionali per essere contenuta onde evitare contraddizioni, con conseguente produzione di nevrosi nel maschile. Pensiamo anche alla valenza soggettivante della teoria dell’invidia del pene di Freud – che pone il pene come ineludibile e irraggiungibile elemento di confronto tra uomo e donna e che decreta l’incompletezza di quest’ultima- e alla necessità di istituire, al fine di conservare l’orizzonte sessuale duale che, guarda caso, nella cultura occidentale è anche gerarchico, teorie, abitudini, linguaggi orientati in tal senso.

La sessualità dell’anthropos moderno non può, in un regime di visibilità, oscillare e attraversare stadi metamorfici (ma non così nella Grecia antica, soprattutto in riferimento alle pratiche sessuali), ma solo scivolare verso zone d’ombra che si sottraggono allo sguardo della famiglia e della societas (Bachtin e la legge diurna e quella notturna, la tresca e la tregenda…). Dunque non si può predicare di un ente anthropos al tempo stesso (ma ciò sarebbe possibile invece in infra-tempi, in tempi multidimensionali, in tempi spazializzati, sincronici e molto altro ancora) virilità, femminilità, transessualità, volontà, vuoto di (nulla di) volontà, decisionalità, intenzionalità e inintenzionalità, pena la fine della famiglia intesa non come composizione di relazioni ma come nucleo -figura conchiusa e circolare- attorno cui costruire altri nuclei: la societas come separata dal mondo animale, lo stato-nazione, l’occidente (la superiorità di…). Anthropos è quindi un progetto politico ordinante che si impone su altre forme di vita e che si è configurato come cardine di una sovranità dispotica, di un apparato tipicamente occidentale, moderno, eurocentrico, colonialista, maschilista, nazionalista.

Possiamo allora dire che il postumano di Braidotti è innanzitutto post-antropocentrico, con tutto ciò che ne consegue sul piano del ripensamento dei saperi e delle pratiche di attraversamento istituzionale. Crediamo di poter dire che questo ‘post’ è da intendersi non come un ‘dopo’, perché modelli oppressivi sono ancora da scardinare, ma come ‘critica a’, così come ci insegna il ‘post-colonialismo’ a cui Braidotti fa, infatti, riferimento. Post-colonialismo come critica al colonialismo, quindi come pensiero attivo e non ‘cecità’ di fronte alle dinamiche colonialiste ed ‘entusiastica’ autoconvinzione che sia tutto finito. Allo stesso modo crediamo di poter intendere il postumano come critica all’umano, il post-antropocentrismo come critica all’antropocentrismo, nella consapevolezza che la centralità dell’anthropos sia ancora presente e che un pensiero critico non possa operare né all’interno dei suoi logoi, né in senso dialettico. Questo chiarimento, per quanto forse banale e scontato, ci sembra opportuno e necessario perché molto spesso i detrattori di tutti i ‘post’ obiettano proprio il fatto che gli apparati di oppressione non siano finiti né superati. Tendiamo a pensare che, proprio abbracciando le teorie del multiverso e della multidimensionalità, si possano pensare a tempi e spazi differenti e compresenti.

La teoria di Braidotti, rispetto al femminismo, ci sembra non avere come obiettivo la costruzione di un modello speculare all’anthropos e che non si fermi allo stadio dialettico. Da qui il titolo in forma di domanda: quello di Braidotti è un femminismo senza genere? Braidotti in altri testi parla di ‘essenzialismo strategico’ e sostiene che il suo non è un ‘femminismo senza genere’. Eppure ci sembra che le cose stiano proprio così e cioè che dalla sua riflessione etica scaturisca un orizzonte di pensiero-prassi che accoglie certamente l’esperienza femminista, rimettendola però in gioco nel senso di un superamento sottrattivo nel/del genere, nella/della definizione (n-1 del divenire). Questo gesto sembra, più che depotenziare il femminismo, allargarlo a tutti gli ambiti possibili quasi si trattasse di un metodo, di un esercizio critico che non necessita l’identificazione con un solo oggetto, ‘la donna’, ma che rilancia le conquiste del desiderio femminista sul piano epistemologico, tecnologico e politico come valida praticabilità etica in senso ecologico, connettivo. Sebbene ciò sembri significare ‘prendere totalmente sul serio’ tutto quanto è stato prodotto in ambito femminista, tuttavia questo femminismo senza genere è ancora tutto da discutere, comprendere, praticare, spiegare, soprattutto in contesti in cui le dinamiche di potere tra i sessi sono ben poco fluide e consentono poco spazio di manovra. Certamente ci sembra uno spunto interessante da non sottovalutare, sia nelle potenzialità (ammettere di essere cresciute, dare per scontato che ‘ogni donna pensa’, trovare punti di raccordo strategici e positivamente instabili per nuove conquiste) che nei rischi (come ad esempio il rischio di non riuscire a individuare i punti di oppressione di genere e risposte mirate di liberazione ed emancipazione).

Il postumano di Braidotti, inoltre, si distingue dal trans-umanesimo perché non ne condivide l’ottimistica fusione onto-tecnologica, e rifiuta l’assonanza con le forme di inumanità violente associate alla ‘perdita’ di umanità dell’era contemporanea. Il postumano, dicevamo, è infatti un libro di etica. Cosa vuol dire parlare di etica a proposito del postumano?
Si tratta di un’etica affermativa, che parte cioè da un gesto forte di rinuncia all’orizzonte trascendente che pone un modello ideale di umanità da raggiungere e che assume, come dato di partenza, una convinzione che viene dichiarata, però, solo a chiusura del libro: “Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire una versione disutopica del peggiore degli incubi modernisti. Non è neppure il delirio transumanista della trascendenza dai corpi umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo immersi: l’immanente hic et nunc del pianeta postumano; uno dei possibili mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili.”
Il gesto teoretico di Braidotti consiste nell’assumere, come dato reale di partenza, non solo che questo mondo, il mondo cioè del capitalismo avanzato, del soggetto biomediato tecnologicamente, della ribalta di poli di gravità non occidentali, è di fatto un mondo postumano, ma anche che ‘questo è il migliore dei mondi postumani possibili’.

Cosa si intende per capitalismo avanzato? Il capitalismo avanzato, secondo quanto possiamo trarre da Mille Piani di Deleuze e Guattari è caratterizzato come una macchina che promuove la proliferazione di opzioni multiple (n+1) reificate e mercificate, in termini di beni di consumo, allo scopo di produrre profitto da tutto ciò che vive (già a partire dalle cellule). Il capitalismo avanzato ‘funziona’ attraverso il controllo della mobilità: la libertà è assicurata solo per quanto riguarda la circolazione dei beni e dei dati, ma non quella dei soggetti e le relazioni di potere sono sempre più sofisticate, capillari, limitanti. L’orizzonte temporale è sottoposto a una continua sollecitazione schizofrenica: il futuro è fagocitato, non c’è mai tempo per niente e viviamo secondo agende insostenibili che non sono mai sincronizzate con il presente. L’ideologia del nuovo tecnologico, poi, produce numerosi effetti di patologizzazione, e procede in un senso non lineare nè dialettico ma secondo schemi dissonanti di de-valorizzazione dei soggetti, provocando esclusione, dominio e sfruttamento. Tale modo di procedere del capitalismo avanzato confonde i piani di analisi e di contro-azione, ed è sempre più difficile da tracciare, quindi anche la produzione del nuovo incontra maggiori ostacoli. Inoltre, il capitalismo avanzato ha una struttura biogenetica e tecnoscientifica che disloca continuamente le soglie definitorie dei viventi e che richiede un controllo continuo sulla vita.

Dato questo quadro di riferimento, allora, possiamo trarre che quei fenomeni che abbiamo detto non rientrare nella definizione di anthropos e nei suoi logoi, siano ormai dilaganti e irreversibili. Per Braidotti, sono il frutto di sforzi e immaginari, producono effetti sia su micro che su macro scala, di metamorfosi e nomadismo delle soggettività (a livello di sperimentazione sessuale, relazionale, politica), di ibridazioni tecnologiche (per quel che riguarda l’implementazione delle potenzialità corporee attraverso protesi e impianti che annullano le distanze tra organico e inorganico, tra umano macchina e animale) e di dismorfismi istituzionali (con risvolti sia creativi che necro-tanato-ossessivi). Negare questo e non starci pienamente dentro, lamentando malinconicamente da un lato, la crisi dell’uomo, dall’altro l’impossibilità di controproposte, invece di sperimentare una nuova potenza d’agire che sia sostenibile e limitata da una responsabilità relazionale, nell’ottica monista di Braidotti è un’occasione persa di vita etica.

 

 

 

2. Benedetto Vecchi: Rosi Braidotti e la metamorfosi del postumano

da Il Manifesto.it del 18 febbraio 2014

 

Un sag­gio ambi­zioso que­sto di Rosi Brai­dotti. La filo­sofa, di ori­gine ita­liana ma cosmo­po­lita per scelta, si pro­pone infatti di get­tare le basi di un pen­siero filo­so­fico mate­ria­li­sta e fem­mi­ni­sta che con­senta di uscire dai vicoli cie­chi che il poststrut­tu­ra­li­smo ha imboc­cato dopo avere sot­to­po­sto la cri­tica l’umanesimo, con­si­de­rato, nella genea­lo­gia pro­po­sta da Rosi Brai­dotti, un dispo­si­tivo teso a pro­durre sog­get­ti­vità «alli­neate» con il potere costi­tuito. Il poststrut­tu­ra­li­smo, e il pen­siero fem­mi­ni­sta di fine Nove­cento, ha rite­nuto che il «sog­getto» pro­po­sto dalla filo­so­fia occi­den­tale sin dalla Gre­cia antica fosse ani­mato da una vorace ten­sione uni­ver­sale che can­cella dif­fe­renze e punti di vista alteri rispetto a quelli domi­nanti. È stato poi com­pito dei movi­menti sociali e fem­mi­ni­sti sot­to­li­neare che avesse un «pro­filo» inva­ria­bil­mente occi­den­tale e maschile.

L’INGANNO DELL’UNIVERSALISMO

Que­sto non signi­fica che non ci siano state arti­co­la­zioni anche anti­te­ti­che nella sua con­cet­tua­liz­za­zione da parte di diverse scuole di pen­siero. Per Brai­dotti, però, il sog­getto caro alla filo­so­fia occi­den­tale è stato una cor­tina fumo­gena tesa a occul­tare gerar­chie e rap­porti di potere pre­senti nelle società. E se il fem­mi­ni­smo ha letto il con­flitto tra i sessi a par­tire di un punto di vista poli­tico par­ti­giano, quello delle donne, i movi­menti post­co­lo­niali hanno sot­to­po­sto a cri­tica la pre­tesa nor­ma­tiva dell’universalismo occi­den­tale nei con­fronti di uomini e donne non occidentali.

Rosi Brai­dotti non ha mai nasco­sto i debiti nei con­fronti della tra­di­zione filo­so­fica. Nel suo posi­zio­na­mento rispetto ad essa non ha mai taciuto di aver attinto al pen­siero illu­mi­ni­sta, né ha mai taciuto la sua col­lo­ca­zione poli­tica, che l’ha por­tata a leg­gere con atten­zione i testi del pen­siero cri­tico, sia nella sua ver­sione mar­xiana che fran­co­for­tese. In que­sto Postu­mano si dilunga dif­fu­sa­mente sulla can­giante costel­la­zione cul­tu­rale che ha orien­tato il suo per­corso teo­rico. Emerge una suc­ces­sione di testi e filo­sofi che può creare smar­ri­mento, ma che per Rosi Brai­dotti è da inten­dere come un metodo per segna­lare le tappe, mai un punto di arrivo della sua pro­du­zione teo­rica. In fondo, è suo quel con­cetto di sog­getto nomade che ha appar­te­nenze mul­ti­ple, sem­pre in dive­nire, che può tut­ta­via «posi­zio­narsi» cri­ti­ca­mente rispetto il reale.

Nel «postu­mano» pro­po­sto dalla filo­sofa ita­liana occu­pano un posto rile­vante le tra­sfor­ma­zioni inter­ve­nute da quando la scienza e la tec­no­lo­gia sono sem­pre più usate per poten­ziare il corpo umano o per pro­lun­gare la vita bio­lo­gica di uomini e donne. Sono temi che Rosi Brai­dotti ha affron­tato spesso nel suo per­corso teo­rico. Sono note le sue rifles­sioni sulla figura del cyborg, così come le sue incur­sioni nel ter­ri­to­rio pieno di insi­die della mani­po­la­zione bio­tec­no­lo­gica del corpo. Ogni volta sono state messe in discus­sione le cop­pie ana­li­ti­che di natura e cul­tura, di natu­rale e arti­fi­ciale. Ma mai la filo­sofa ita­liana ha supe­rato il con­fine che distin­gue l’umano dall’inumano. Con que­sto libro, il con­fine è invece oltre­pas­sato. Affer­mare che occorre fare i conti con il postu­mano signi­fica quindi inol­trarsi in un ter­ri­to­rio abi­tato da essere viventi che sono il pro­dotto di una mani­po­la­zione tec­no­lo­gica dei mate­riali bio­lo­gici che com­pon­gono il pro­prio corpo. Sono cioè corpi assem­blati, scom­po­sti e ricom­po­sti. La tec­no­lo­gia è da inter­pre­tare sia come una pro­tesi che inne­sto nel corpo. La mani­po­la­zione del Dna, invece, con­sente di model­lare il corpo come meglio si crede; lo stesso si può dire per la medi­cina, che non solo con­sente di pro­lun­gare la vita bio­lo­gica, ma di scom­porre la mor­fo­lo­gia del corpo umano. Tutto ciò, sot­to­li­nea, Rosi Brai­dotti modi­fica, tra­sforma, sov­verte la pro­du­zione della sog­get­ti­vità, cioè il modo di stare al mondo di uomini e donne. In altri ter­mini, la figura di Pro­teo non ha nulla delle carat­te­ri­sti­che dram­ma­ti­che della tra­di­zione filo­so­fica greca. Una volta che si è appro­priato della cono­scenza pre­ro­ga­tiva degli dei, l’essere umano è diven­tato un ibrido di mate­riale orga­nico e inor­ga­nico che che modi­fica a sua imma­gine e somi­glianza la natura. Può quindi fare a meno degli dei, al punto che può scon­fig­gere la morte.

Rosi Brai­dotti non è una nichi­li­sta che vuole legit­ti­mare la realtà. Vuol deli­neare i campi di inter­vento di una etica pub­blica della con­di­zione postu­mana, che viene con­ti­nua­mente qua­li­fi­cata – nel volume sono pre­senti più defi­ni­zioni del postu­mano, pro­prio a sot­to­li­neare che la sua è una rico­gni­zione sem­pre in dive­nire delle diverse teo­ri­che sul postu­mano — e inter­ro­gata nelle sue con­se­guenze. È cioè con­sa­pe­vole della neces­sità di rego­la­men­tare, ad esem­pio, la mani­po­la­zione del Dna, ma avverte che que­sto non può signi­fi­care porre dei limiti alla ricerca scien­ti­fica. Allo stesso tempo l’elaborazione di una etica pub­blica sul postu­mano deve evi­den­ziare il lato oscuro, cioè la ridu­zione del corpo a merce che può essere scom­po­sta, smem­brata, ven­duta e rias­sem­blata secondo rap­porti di potere che vede sem­pre dei domi­nanti e dei domi­nati. Anche in que­sto caso, però, non pos­sono essere posti dei limiti alla auto­de­ter­mi­na­zione del pro­prio corpo. È su que­sto dop­pio movi­mento – libertà di mani­po­lare il corpo e rap­porti di potere esi­stenti nel vivere in società — che una filo­so­fia mate­ria­li­stica del postu­mano deve pren­dere posizione.

L’ORGANICO E L’ARTIFICIALE

Un libro dun­que ambi­zioso e impor­tante, per­ché teso ad evi­den­ziare appunto le tra­sfor­ma­zioni avviate dall’uso inten­sivo della scienza e della tec­no­lo­gia. Rosi Brai­dotti ritiene infatti che inte­gra­zione tra orga­nico e arti­fi­ciale sia già alle nostre spalle. Il pen­siero cri­tico devo quindi inda­gare le tra­sfor­ma­zione già inter­ve­nute. Sulla ridu­zione del corpo umano a mac­china l’analisi di Rosi brai­dotti è pun­tuale. Signi­fi­ca­tive sono anche le pagine dedi­cate alla pro­du­zione di sog­get­ti­vità. Assente, però, è come il postu­mano sia una com­po­nente fon­da­men­tale della pro­du­zione di ric­chezza. Il cyborg, così come il sog­getto nomade, sono fat­tori costi­tuenti del regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stico. Il poten­zia­mento delle facoltà manuali e cogni­tive degli umani è ovvia­mente fun­zio­nale a ritmi di lavoro sem­pre più intensi e a pro­cessi pro­dut­tivi sem­pre più com­plessi. Inol­tre, la map­pa­tura del Dna diventa la con­di­zione neces­sa­ria sia per lo svi­luppo di nuovi set­tori eco­no­mici che per inno­vare l’industria far­ma­ceu­tica. Allo stesso tempo il sog­getto nomade è la figura indi­spen­sa­bile per una eco­no­mia fon­data sulla fles­si­bi­lità. Un’etica pub­blica sul postu­mano non può dun­que che pren­dere posi­zione su un regime di sfrut­ta­mento che fa della sim­biosi tra umano e mac­chi­nico il suo tratto distintivo.


 

Category: Donne, lavoro, femminismi, Libri e librerie, Ricerca e Innovazione

About Rosi Braidotti: Rosi Braidotti è nata a Latisana (Udine) nel 1954 nella bassa friulana. Ha un fratello e una sorella più piccoli e compie i primi anni di studi al Liceo Classico di Udine. Nel 1970 la sua famiglia decide di emigrare in Australia e Rosi lascia nonni, cugini e amici con grande dolore per affrontare un lungo viaggio in nave per non si sa dove. Non conosce una parola di inglese, comincia a studiarlo durante i quaranta giorni di traversata; dopo molti scali e avventure, arriva in un poco accogliente sobborgo per emigrati italiani di Melbourne dove cercherà faticosamente di ambientarsi e ricucire un nuovo modo di vivere. Questo sradicamento procura un grande dolore nella adolescente Rosi, ma porrà i fruttuosi semi di una promettente carriera di “filosofa del nomadismo”. Si laurea all’Università di Canberra nel 1977 conseguendo immediatamente due importanti riconoscimenti: la University Medal in Philosophy e l’University Tillyard Prize. Con una borsa di studio si trasferisce a Parigi per il Dottorato in Filosofia alla Sorbona, che ottiene nel 1981. Parigi è un crogiuolo di avvenimenti e occasioni e gli anni trascorsi lì sono cruciali per la sua formazione filosofica ed esistenziale: conosce infatti Foucault, Barthes, Simone de Beauvoir e Luce Irigary, ma soprattutto Gilles Deleuze con il quale darà vita a un duraturo sodalizio teorico. A Parigi incontra anche il femminismo e la psicoanalisi che imprimeranno un’ulteriore svolta al suo pensiero. Nel 1988, a soli 34 anni, ottiene la prestigiosa cattedra - la prima in Europa - di Women’s Studies nell’antica e blasonata Università di Utrecht, in Olanda, mentre nel 1995 fonda e dirige la Netherland Research School of Women’s Studies, incarico che manterrà fino al 2005. In questo volgere di anni Rosi si può considerare una delle fondatrici degli studi di genere in Europa, l’iniziatrice di network europei come ATHENA e NOISE e una delle femministe teoriche più significative. Fondamentali, in questo senso, le sue opere: Patterns of Dissonance, Nomadic Subjects: Embodiment and Sexual Difference in Contemporary Feminist Theory, Metamorphoses: Towards a Materialist Theory of Becoming, Transpositions: On Nomadic Ethics. Nel 2005 diviene Distinguished Professor in the Humanities e direttore del nuovo Centre for the Humanities dell’Università di Utrecht. L’8 marzo 1998 grazie ad una nuova legge del governo olandese ha potuto sposare la sua compagna di vita Anneke Smelik docente di Visual Art all’Università di Nijmegen, con una cerimonia toccante, seguita da una bellissima festa con famiglie e amici arrivati da ogni angolo del mondo. Rosi è cittadina italiana e australiana ma risiede stabilmente in Olanda; figura fondamentale nella scena culturale europea e internazionale a cavallo dei due secoli, è una pensatrice originale ed eccentrica nell’ambito della filosofia femminista, dell’epistemologia, del post strutturalismo e della psicoanalisi, ed ha saputo coniugare un grande rigore di studio con una intensa generosità nelle relazioni d’amicizia.

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