Le vite, il lavoro e il non lavoro delle donne raccontati a Bologna
La manifestazione del 13 febbraio 2011 ha segnato un punto preciso nel tempo e nello spazio delle donne. Un milione di persone (donne, ma anche uomini) sono scesi in piazza, in tutta Italia. Donne molto diverse fra loro hanno sentito di dover rispondere all’appello. Diverse per età, appartenenze, estrazione sociale, orientamento politico. Fra tante, anche moltissime giovani che per la prima volta hanno avvertito il richiamo potente dell’appartenenza di genere. Un risultato talmente straordinario da imporre una riflessione ampia, che valicasse i confini spazio-temporali di quel grido di esasperazione e di protesta.
Una partecipazione così importante lasciava presagire che una vasta comunità di donne avesse ritrovato dopo tanto tempo il desiderio di ricominciare ad esserci. La speranza si accompagnava alla paura, come spesso accade. Si faceva largo il timore che potesse trattarsi solo di un’impressione, di un’illusione. E che ciò che si desiderava interpretare come un atto pienamente politico potesse risultare puramente effimero.
I comitati territoriali Se non ora quando? sono spuntati come funghi dopo un acquazzone. Con la stessa spontaneità, vigore, rapidità. Generando quello stesso stupore ed entusiasmo che la scoperta della nascita dei funghi provocava in Marcovaldo nei pressi della fermata del tram.
Cinque mesi dopo, nel luglio 2011, a Siena, un appuntamento che era stato immaginato fra poche rappresentanti delle realtà territoriali per avviare una riflessione sul futuro politico del movimento, si è trasformato in un’invasione festosa, imponendo una radicale trasformazione dell’incontro. Sulla spinta delle partecipanti, l’appuntamento si è tramutato in un momento di dialogo, di scambio, di riconoscimento delle diverse identità e di incontro fra le tante donne che avevano cominciato a tessere la rete senza mai essersi conosciute di persona.
La paura di molte questa volta era che la spinta potesse affondare la sua ragion d’essere solo nella caparbia resistenza di Silvio Berlusconi al governo e nel conseguente senso di oppressione e rifiuto che ciò provocava nelle donne. Un uomo e un governo divenuti espressione dell’umiliazione, ma anche dell’esasperazione crescente. Caduto il governo Berlusconi e cessate le mortificazioni plateali, si temeva che le donne potessero perdere l’entusiasmo e con esso la determinazione.
Poi è arrivata la fine dell’anno. A Roma e in molte città italiane le donne di Se non ora quando? si sono date nuovamente appuntamento. Non per protestare. Non per festeggiare. Ma per discutere insieme e al tempo stesso fare un atto di presenza e avanzare delle proposte che tenessero conto dell’esistenza della crisi, ma anche del diritto delle donne a una vita dignitosa.
Il governo Berlusconi era ormai caduto e cominciava ad affacciarsi l’idea che il movimento delle donne non dovesse più essere interpretato attraverso le lenti delle paure e delle fragilità, ma che andasse piuttosto osservato nel suo sviluppo, nelle sue elaborazioni e nella sua forza crescente.
La caduta del governo, tuttavia, non rappresentava l’obiettivo. Semmai la premessa: la premessa al confronto con un nuovo soggetto politico, degno per lo meno di essere considerato un interlocutore e con il quale avviare una contrattazione su punti concreti.
L’elaborazione di un’agenda politica nazionale, da discutere ed elaborare nello scambio fra i nodi territoriali, si imponeva come priorità. Un’agenda costruita dalle donne, che tenesse conto dei bisogni, delle difficoltà oggettive, delle zavorre che le donne trascinano quotidianamente in questo Paese. Un’agenda che, pur riconoscendo la difficile congiuntura economica che stiamo attraversando, redistribuisse i pesi e i costi che troppo pesantemente ricadono sulle spalle di un solo genere.
Così arriviamo al presente.
Proprio a Siena, nel luglio 2011, le donne di Bologna si sono candidate a prendere in carico lo sviluppo di una parte centrale nella progettazione dell’agenda politica nazionale: il lavoro. La proposta è arrivata forte, sulla spinta delle più giovani, per le quali il tema del lavoro appare oggi particolarmente drammatico.
La premessa dalla quale il gruppo di lavoro bolognese ha cominciato la sua elaborazione è che non si può nemmeno pensare di parlare del lavoro delle donne senza guardare alle sue varie sfaccettature e senza considerare i diversi tipi di ricadute nella vita. Emerge con chiarezza, ad un’analisi attenta ed equilibrata, come il lavoro e la vita delle donne siano elementi inscindibili. La centralità di tali riflessioni si rispecchia anche nel titolo che si è deciso di dare all’appuntamento: “Vite, lavoro, non lavoro delle donne”.
Le donne – in un paese come l’Italia che tarda a portare termine o forse a cominciare una vera e propria rivoluzione culturale – sono prestigiatrici di identità. Sono lavoratrici spesso precarie, dotate di retribuzioni sottili, in cerca di un impego, ma sono anche mamme, figlie, nonne dedite al lavoro di cura. Combattono contro il tempo e le condizioni tiranne in un gioco di incastri, spezzate in due fra un lavoro precario e mal retribuito, e un pesante e intensivo lavoro di cura. Sembrano aver smarrito la possibilità di potersi concedere qualche momento, magari conquistando “una stanza tutta per sé”.
Il lavoro retribuito vede spesso le donne fortemente discriminate: a parità di condizioni sono più precarie, meno pagate e inquadrate in ruoli inferiori rispetto agli uomini. Il lavoro di cura, invece, vede spesso le donne schiacciate da una mole spaventosa di impegni. A fronte di ciò, è evidente una carenza strutturale del welfare. Le donne faticano sul lavoro e fra le mura domestiche, e come non bastasse non trovano supporto nei servizi essenziali pubblici di sostegno alla cura. Le alternative private sono proibitive.
Oltre a patire un drammatico scoraggiamento, spesso sono costrette a scegliere. Scegliere se lasciare il lavoro per sopperire alle deficienze strutturali di un welfare inefficiente e prendersi personalmente cura della casa, dei bambini, degli anziani, dei malati. Oppure se devolvere il proprio stipendio, e a volte anche qualcosa in più, per continuare a lavorare facendo fronte alle esigenze che la cura detta. In ogni caso, una scelta imposta da condizioni esterne e non da una vocazione personale.
Le donne sono violentemente discriminate sul lavoro in quanto potenziali madri e quindi lavoratrici presumibilmente intermittenti, costose, bisognose di flessibilità – una flessibilità da molti intesa come non favorevole al mercato. L’abolizione della legge 188 sulle dimissioni in bianco, portata avanti dal ministro Sacconi, è solo uno dei taciti avalli delle discriminazioni contro le lavoratrici. Sono 800.000 le donne che hanno dichiarato, fra il 2008 e il 2009, di essere state messe in condizione di dimettersi dal luogo di lavoro in seguito alla nascita di un figlio. Cifre che fanno pensare.
Molte considerazioni discendono dalla constatazione di un quadro così buio. Si impone con urgenza una seconda rivoluzione, una rivoluzione culturale. Dopo la conquista dell’istruzione, che le donne in Italia possono dire di aver ormai vinto riportando risultati ben al di sopra dei propri colleghi di studio, è tempo di una rivoluzione culturale che garantisca una maggiore parità nella redistribuzione delle mansioni legate alla cura. Questa è una delle premesse essenziali per permettere alle donne di smettere di essere lavoratrici a tempo pieno senza soluzione di continuità fra professione e cura, incentivando una maggiore presenza delle donne sul mercato del lavoro. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale e dei costumi, in un Paese arretrato e maschilista. Una rivoluzione che non può che essere portata avanti nelle case, giorno dopo giorno. Nondimeno, esistono degli incentivi sociali per avviare alcuni cambiamenti in questa direzione. Alcuni esempi fra tanti. I congedi di paternità obbligatori retribuiti: incentivi all’occupazione femminile in quanto congedi di paternità retribuiti e sostegno alla rivoluzione culturale in quanto obbligatori. I provvedimenti contro le discriminazioni sul lavoro e il ripristino della legge 188, come sostegno ulteriore all’accesso e alla permanenza delle donne nel mercato del lavoro. Un welfare, degno di questo nome, che rappresenti un sostegno reale nel lavoro di cura.
Uno sguardo particolare va rivolto alle nuove generazioni di donne che vivono, o forse sarebbe meglio dire sopravvivono, in condizioni drammatiche. Molte affrontano condizioni crudeli, e fra queste ci sono le più giovani, di cui troppo poco ci si occupa. Un tardivo accesso al mercato del lavoro, precarietà, prospettive di carriera molto limitate e discriminazioni delineano condizioni al limite dell’emergenza. Per le nuove generazioni, la precarietà non è solo una condizione lavorativa, ma esistenziale. Un marchio su una vita senza respiro, in cui è difficile pensare, immaginare, sognare un progetto. Una casa, una coppia, un nucleo allargato: tutto rimane in balia dell’impossibilità di guardare al domani. A volte subentrano le rinunce. La rinuncia al lavoro ambìto e per il quale ci si è formati. La rinuncia a un figlio, se desiderato.
Spesso si assume che l’oggetto della discussione siano le donne italiane eterosessuali con il desiderio di maternità. Non è così. L’incontro di Bologna ha pertanto posato lo sguardo non sono solo queste le donne, ma su tutte, nel rispetto delle diversità di origine, orientamento sessuale, posizione politica, estrazione sociale. L’emergenza alla quale assistiamo non ha confini, né pregiudizi. È endemica. È in gioco l’autodeterminazione delle donne in quanto esseri umani con una storia, dei desideri, dei progetti di vita.
L’incontro “Vite, lavoro, non lavoro delle donne” è nato anche con l’intento di organizzare un appuntamento di condivisione e di dialogo, oltre che di approfondimento, in cui, a fianco della voce delle esperte, trovassero spazio anche le voci delle portatrici di esperienze, di proposte, di competenze. Per questo le relazioni di analisi e di proposta sono state accompagnate dalle storie di vita quotidiana e dalle pratiche partecipate. In questo contesto si è inserita anche l’azione di resistenza artistica “E sei anche fortunata” per la regia di Donatella Allegro, a cura di RosaRosae, sulle condizioni delle più giovani alle prese con il mercato del lavoro e la precarietà.
La prima mattinata dei lavori è stata aperta dal saluto del sindaco Virginio Merola, che ha voluto condividere con i presenti il percorso della giunta comunale di Bologna, la sua personale esperienza di amministratore locale e alcuni progetti in cantiere a riprova del fatto che molto può e deve essere fatto per sostenere le donne, attraverso un sistema di welfare efficace, e per promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro in posizioni di responsabilità. La nomina di Simona Lembi a Presidente del Consiglio Comunale della città di Bologna, prima giovane donna chiamata a tale incarico, è stato solo uno dei molti esempi concreti portati dal sindaco per testimoniare il suo impegno.
Molto toccanti sono state le testimonianze delle donne che hanno preso parte al convegno condividendo le loro storie, le loro difficoltà, le loro rivendicazioni. Alcune hanno portato la propria testimonianza attraverso il video “Voci e vite di donne a Bologna” realizzato dalle donne della CGIL per l’occasione. Altre, invece, erano presenti e hanno testimoniato dal vivo nell’ambito dell’incontro. Lisa, giovane insegnante precaria, ha raccontato la fatica e i sacrifici delle donne che si trovano nella sua condizione: senza diritti, alla mercé delle conferme dell’ultim’ora, private della soddisfazione di poter accompagnare una classe per un intero ciclo di studi. Francesca, invece, fa l’imprenditrice nella moda e a modo suo tenta da sempre, attraverso le sue creazioni, di dare un contributo per sensibilizzare e far capire le condizioni di vita e di lavoro delle donne. Donatella è un’operaia metalmeccanica sottoposta a condizioni di lavoro durissime e alienanti che ha ritrovato la gioia di vivere attraverso il part-time e un po’ di tempo da dedicare a se stessa. Silvia è un’imprenditrice che in un momento di crisi dell’azienda per cui lavorava ha deciso di mettersi in proprio fondando un’impresa tutta al femminile in un campo, quello dell’hi-tech, in cui gli uomini la fanno da padrone. Rositza è arrivata in Italia dalla Bulgaria, dopo studi qualificati e un percorso politico pieno di riconoscimenti per diventare una delle tante badanti che assolvono al lavoro di cura, ma non smette di sognare. Cristina è una cantante e autrice, ma non una figlia d’arte, tornata in Italia dopo molti successi all’estero con il sogno di essere riconosciuta nella sua terra.
Ecco le storie delle donne che abbiamo incrociato nelle nostre trafelatissime giornate.
La parte successiva dell’incontro si è articolata attorno ad alcuni temi identificati come centrali: la crisi, il lavoro non lavoro delle donne, il precariato, le discriminazioni, il welfare. Nel corso della mattinata, nella sala del consiglio di Palazzo d’Accursio, diverse relatrici hanno offerto un contributo nell’ambito di questi bacini tematici per offrire uno sguardo di insieme sulle possibili analisi e proposte attualmente in campo.
Paola Villa dell’Università di Trento e Anna Simonazzi dell’Università “La Sapienza” di Roma – entrambe della redazione della rivista inGenere – hanno affrontato il tema della crisi. Paola Villa, attraverso un’analisi del basso tasso di occupazione femminile nell’Unione Europea, ha chiarito come la crescita dell’occupazione femminile e le politiche di sostegno necessarie ad essa non rappresentano più né una priorità, né un obbiettivo delle politiche europee. La crisi economica internazionale ha spostato l’asse dell’attenzione facendo venire a mancare la prospettiva di un’Europa sociale che rimetta le donne al centro, come motore della crescita per riavviare il sistema. Anna Simonazzi, invece, si è concentrata di più sulle proposte alternative e concretamente attuabili anche attraverso un “pink new deal”, a favore di una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. È possibile sostenere l’offerta di lavoro femminile attraverso una rete di provvedimenti e iniziative quali la riduzione dello svantaggio e delle discriminazioni (che rappresenterebbero un sostegno adeguato alla cura); attraverso agevolazioni per le imprese soprattutto se di piccole dimensioni, congedi di paternità obbligatori, ben retribuiti, estesi e non simultanei; tramite detrazioni fiscali. D’altra parte è possibile sostenere la domanda di lavoro femminile per mezzo di misure ad hoc, come un “pink new deal” che coinvolga le infrastrutture sociali, con investimenti nella sanità, nell’istruzione e nei servizi essenziali. Una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro avvierebbe un circolo virtuoso attraverso una maggiore richiesta di servizi e quindi una crescita dell’occupazione principalmente femminile. Tutto ciò è oltretutto sostenibile attraverso una spending review, una riallocazione e riqualificazione della spesa, possibile grazie a risorse aggiuntive che potrebbero provenire, ad esempio, da una lotta severa e continuata contro l’evasione fiscale e attraverso una riprogrammazione della destinazione di una parte dei fondi europei a sostegno dei servizi.
Il tema del lavoro non lavoro è stato affrontato dalle relazioni di Antonella Picchio dell’Università di Modena e Reggio Emilia e di Anna Salfi della Segreteria CGIL della regione Emilia-Romagna. Antonella Picchio ha messo a fuoco l’inscindibile connessione che corre fra le condizioni di vita e le condizioni di lavoro delle donne, ricordando come vada riconosciuto lo status di lavoro anche a quello di cura, rompendo la dicotomia fra lavoro e non lavoro e restituendo dignità e riconoscimento alla cura. Per quanto riguarda poi il lavoro retribuito, ha chiarito come sia necessario prendere atto che non rientra nelle intenzioni delle imprese farsi carico dei costi della riproduzione, e che la precarietà e l’insicurezza sono le nuove forme di schiavitù del mercato del lavoro. Per quanto riguarda il lavoro di cura, le donne si fanno carico di una mole di lavoro enorme, ma anche della profonda fragilità degli uomini che non potendo essere condivisa nella sfera pubblica viene riversata massicciamente in quella privata. Ne esce un quadro in cui le donne sono schiacciate dai lavori che reggono sulle loro spalle. Antonella Picchio ha quindi evidenziato come le donne non siano onnipotenti e non si possa dunque chiedere loro di lavorare più di quanto già non facciano. Anna Salfi ha proposto uno spaccato dell’esperienza della contrattazione territoriale per mettere in risalto quelle che sono, nella pratica, le maggiori difficoltà che ostacolano le donne sul lavoro e non solo. Ha sottolineato poi come sia necessario riportare le donne al centro del sistema, sia attraverso una loro maggiore valorizzazione nel mercato del lavoro in termini di carriera e di retribuzione (oltre che attraverso la diffusione dei bilanci di genere e di politiche di conciliazione più incisive), sia attraverso una maggiore attenzione ai servizi essenziali. Sono questi gli aspetti che affiancano la contrattazione territoriale per cercare di offrire sostegno alle donne nella vita di ogni giorno. I tagli e le nuove norme previste per il pareggio del bilancio delle amministrazioni comunali hanno causato un’ulteriore riduzione dei servizi assestando un altro duro colpo.
Della precarietà hanno parlato Cristina Morini, giornalista e scrittrice, e Stefania Scarponi dell’Università di Trento. Cristina Morini ha presentato un excursus sul significato della precarietà e su come questa segni la vita delle donne tutte, senza distinzioni. Cristina Morini ha parlato di “impermanenza generale del lavoro”, sottolineando come l’attuale contrapposizione fra precari e non precari sia ideologica e abbia sostituito, senza risolverle, le precedenti opposizioni, ad esempio quelle di genere e di etnia. Le donne, in special modo, vivono in maniera colpevolizzante la crescente precarietà come responsabilità personale. Al contrario, le responsabilità sono in buona parte da distribuire fra partiti, sindacati e governi. Morini suggerisce la necessità di pensare e perseguire un sistema alternativo che rappresenti un nuovo modello sociale e un nuovo modello di sviluppo. Stefania Scarponi, invece, ha ripercorso alcune vicende del recente passato che hanno caratterizzato il mercato del lavoro, sostenendo che le innumerevoli riforme contrattuali degli ultimi anni e la proliferazione dei contratti atipici dimostrano chiaramente che l’unico obbiettivo perseguito dallo Stato sia stato quello di facilitare il mercato. Le norme sono state subalterne alle esigenze dell’economia piegandosi alle ragioni del sistema produttivo. Le donne sono state particolarmente sacrificate e messe ai margini da questi interventi. Una profonda modifica della situazione attuale è auspicabile in tempi brevi nonostante molte siano state le occasioni di riforma mancata. Si impongono: congedi di paternità obbligatori e retribuiti, l’abolizione della odiata prassi delle dimissioni in bianco, un utilizzo assennato del part-time, una riforma seria del mercato del lavoro.
Letizia Mencarini dell’Università di Torino e Rosa Amorevole, Consigliera di Parità della regione Emilia-Romagna hanno affrontato il tema delle discriminazioni. Letizia Mencarini – ripercorrendo per sommi capi alcuni punti cruciali del volume di recente pubblicato con Daniela del Boca e Silvia Pasqua dal titolo “Valorizzare le donne conviene” – ha sottolineato come una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro indurrebbe un circolo virtuoso che, attraverso una maggiore richiesta di servizi, andrebbe ad alimentare un innalzamento dell’occupazione femminile, incidendo significativamente anche sul PIL. Le donne subiscono, secondo Letizia Mencarini, gravi discriminazioni fin dal termine degli studi. Infatti – a suo avviso – si imporrebbe la necessità di una vera e propria rivoluzione culturale che sollevi le donne, per lo meno in parte, dal lavoro di cura e consenta loro di essere più padrone del proprio tempo e quindi di partecipare in maniera più significativa al mercato del lavoro. Rosa Amorevole ha denunciato come i diritti un tempo acquisiti dalle donne siano oggi rimessi in discussione. La crisi, infatti, ha rappresentato l’alibi per poter aggirare alcune questioni strutturali, soprattutto in merito alla qualità del lavoro, riservando alle donne processi di segregazione orizzontale e verticale, accesso principalmente a posizioni non specializzate, condizioni salariali peggiorative. È urgente – a suo parere – che si giunga a una maggiore tutela della maternità, a una ripartizione del lavoro di cura fra uomini e donne, a politiche di conciliazione sui tempi di vita e di lavoro più efficaci per donne e uomini, a provvedimenti severi contro le discriminazioni.
Del welfare hanno dibattuto Rossana Trifiletti dell’Università di Firenze e Franca Bimbi dell’Università di Padova. Rossana Trifiletti ha sottolineato come le donne subiscano un welfare arretrato e non efficace a fronte della richiesta di continui sacrifici. Non ultimo l’innalzamento dell’età pensionabile che non ha generato, come auspicato, un “tesoretto” da investire a favore delle donne. Il welfare in Italia è nato in maniera clientelare allo scopo di creare consenso politico, senza tenere in considerazione le reali esigenze delle donne. Le politiche di conciliazione sono auspicabili, ma rappresentano solamente un palliativo e non la soluzione. Va ripensato e ridisegnato un welfare a misura di donna. Franca Bimbi ha chiuso la mattinata di lavori con una relazione dal titolo “Welfare senza cittadinanza. Ovvero, quando la correttezza degli interventi vale più del riconoscimento”. Il suo intervento si è concentrato sull’esclusione delle cittadine non italiane dalle tutele e dai servizi del welfare state. Lo stato sociale nello scenario europeo non si accompagna al diritto di cittadinanza dato che non si fa carico delle donne migranti del tutto abbandonate a loro stesse.
Le relazioni hanno suggerito prospettive molto diverse, ma sono state anche preludio delle attività pomeridiane. Al Centro di Documentazione delle Donne, in centinaia hanno preso parte nel pomeriggio alle pratiche partecipate. Ricalcando i bacini tematici della mattinata, le presenti si sono suddivise in tavolini di discussione con l’obbiettivo di elaborare delle proposte concrete per il miglioramento delle condizioni delle donne nei diversi ambiti presi in esame. Decine di tavoli colorati, decorati di fiori e provvisti di pennarelli, hanno rappresentato letteralmente gli specchi delle discussioni delle donne che vi si sono sedute attorno. Le tovaglie di carta stese sui tavoli, infatti, si sono trasformate negli strumenti di sintesi accogliendo percorsi di riflessione, appunti, parole chiave, schemi. Le partecipanti hanno potuto muoversi liberamente fra i diversi tavoli cogliendo occasioni di stimolo e confronto con le altre e lasciando un proprio segno sulle diverse tovaglie.
Le azioni partecipate del pomeriggio avevano lo scopo di rappresentare un contraltare ideale della mattinata dedicata alle relazioni. Il desiderio del gruppo di lavoro bolognese, infatti, era quello di affiancare a una sessione più tradizionale, centrata sulle relazioni delle esperte, un momento in cui le donne tutte potessero essere protagoniste sugli stessi temi, contribuendo in maniera determinante al dipanarsi dell’incontro e all’elaborazione delle proposte per una agenda politica nazionale. Le proposte emerse nella sessione pomeridiana sono state riportate dai diversi gruppi all’assemblea plenaria con il supporto delle tovaglie dove erano state annotate, affinché potessero divenire patrimonio condiviso fra tutte. Ecco le più sentite: l’urgenza di regolamentare in maniera efficace l’endemica precarietà che affligge il mercato del lavoro e forme di sostegno al reddito per i lavoratori precari; la necessità di tutelare la maternità come bene sociale comune anche attraverso un congedo diffuso che prescinda dalla forma contrattuale delle madri; un nuovo modello di genitorialità che veda gli uomini farsi maggior carico del lavoro di cura anche attraverso congedi di paternità obbligatori ed equamente retribuiti; provvedimenti efficaci contro le discriminazioni; un welfare più esteso ed efficace; incentivi per stabilizzazione dell’occupazione femminile; e molto altro ancora. L’articolo conclusivo di Eloisa Betti in questo dossier metterà in luce l’ampia rosa di proposte emerse nell’ambito dell’appuntamento.
Uno degli obiettivi dell’incontro “Vite, lavoro, non lavoro delle donne” era proprio quello di elaborare una rosa di proposte concrete e di temi di discussione da condividere nel prossimo dibattito fra i nodi territoriali della rete Se non ora quando? in vista della redazione dell’agenda politica nazionale. L’agenda naturalmente sarà composta da molti argomenti diversi. Tuttavia, il tema del lavoro riveste una centralità particolare su cui il gruppo di lavoro di Bologna ha provato a dare un contributo importante attraverso la presentazione di analisi e obiettivi di rilievo, elaborati da docenti universitarie, giornaliste, sindacaliste, giuriste, consigliere di parità, sociologhe, economiste, ma anche da tutte partecipanti con tutta la forza della loro esperienza concreta.
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