Julia Kristeva: l’umanesimo è un femminismo. La scommessa di rifondare l’umanesimo in dieci punti
La filosofa, psicanalista e linguista francese di origine bulgara, Julia Kristeva, – in occasione della giornata interreligiosa per la pace, organizzata ad Assisi il 27 ottobre 2011 – ha risposto con questo intervento alla domanda : «Che cosa è l’umanesimo?»
Che cos’è l’umanesimo? Un grande punto interrogativo da affrontare con la massima serietà? È nella tradizione europea, greco-giudaico-cristiana, che si è prodotto questo evento che non cessa di promettere, di deludere e di rifondarsi. Quando Gesù si descrive (Giovanni 8,24) negli stessi termini di Elohim che si rivolge a Mosè (Esodo 3,14), dicendo: «Io sono», egli definisce l’uomo — anticipando così l’umanesimo — come una «singolarità indistruttibile» (secondo l’espressione di Benedetto XVI).
Singolarità indistruttibile che non solo lo ricollega al divino attraverso la genealogia di Abramo (come faceva già il popolo di Israele), ma che innova. Giacché l’«Io sono» di Gesù si estende dal passato e dal presente al futuro e all’Universo; il Roveto ardente e la Croce diventano universali.
Quando il Rinascimento con Erasmo, poi l’Illuminismo con Diderot, con Voltaire, con Rousseau, ma anche con il Marchese de Sade, e via via fino a quell’ebreo ateo che è stato Sigmund Freud, proclamano la libertà degli uomini e delle donne di ribellarsi contro i dogmi e le oppressioni, la libertà di emancipare gli spiriti e i corpi, di mettere in discussione ogni certezza, comandamento o valore — aprono forse essi la porta a un nichilismo apocalittico? Attaccandosi all’oscurantismo, la secolarizzazione ha dimenticato di interrogarsi sul bisogno di credere che è sotteso al desiderio di sapere, così come sui limiti da porre al desiderio di morte — per vivere insieme. Tuttavia, non è l’umanesimo, sono le derive settarie, tecnicistiche e negazionistiche della secolarizzazione che sono precipitate nella «banalità del male», e che oggi favoriscono l’automatizzazione in atto della specie umana. «Non abbiate paura!», queste parole di Giovanni Paolo II non erano rivolte solamente ai credenti, che incoraggiavano a resistere al totalitarismo. L’invocazione di questo Papa — apostolo dei diritti dell’uomo — ci incita anche a non temere la cultura europea, ma al contrario ad osare l’umanesimo: costruendo complicità tra l’umanesimo cristiano e quello che, scaturito dal Rinascimento e dai Lumi, ambisce a rischiarare le vie rischiose della libertà. Ecco perché, in questa vostra terra d’Assisi, i miei pensieri si rivolgono a san Francesco: che non cerca «tanto di essere compreso, ma di comprendere», «non tanto di essere amato, ma di amare»; che suscita la spiritualità delle donne con l’opera di santa Chiara; che pone il bambino nel cuore della cultura europea creando la festa di Natale; e che, poco prima di morire, da vero umanista ante litteram, manda la sua lettera «a tutti gli abitanti del mondo». Penso anche a Giotto che dispiega i testi sacri in un insieme di immagini viventi della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, e sfida il mondo moderno a scuotersi dal rito tossico dello spettacolo oggi onnipresente.
Ed è Dante Alighieri che mi interpella in questo istante, quando celebra san Francesco nel Paradiso della sua Divina Commedia. Dante ha fondato una teologia cattolica dell’umanesimo dimostrando che l’umanesimo esiste solo ed in quanto noi trascendiamo il linguaggio attraverso l’invenzione di nuovi linguaggi: come lui stesso ha fatto, scrivendo in uno «Stil novo» la lingua italiana corrente, e inventando neologismi. «Oltrepassare l’umano nell’umano» («trasumanar», Paradiso, I, 69), questo — dice Dante — sarà il cammino della verità. Si tratterà di «annodare» — nel senso di «accoppiare», di vedere come si annodano il cerchio e l’immagine dentro un rosone (come l’una si «indova» nell’altra, come si posiziona, come si mette in quel «dove», Paradiso, XXXIII, 138) — si tratterà di annodare il divino con l’umano nel Cristo, di annodare il fisico e lo psichico nell’umano.
Di questo umanesimo cristiano, inteso come un «oltrepassamento» dell’umano, come l’accoppiamento dei desideri e del senso attraverso il linguaggio — purché si tratti di un linguaggio d’amore — l’umanesimo secolarizzato è l’erede spesso inconsapevole. Se ne separa, affinando le sue proprie logiche, di cui vorrei delineare dieci principi. Che non sono dieci comandamenti, ma dieci inviti a pensare dei ponti tra di noi.
1. L’umanesimo del XXI secolo non è un teomorfismo. L’Uomo Maschile non esiste. Non esistono né «valori» né «fini» superiori, non c’è nessun approdo del divino presso gli atti più alti di quegli uomini che dal Rinascimento in poi si sono chiamati «genii». Dopo la Shoah e il Gulag, l’umanesimo ha il dovere di ricordare agli uomini e alle donne che se noi ci consideriamo come i soli legislatori, è solo grazie alla continua messa in discussione della nostra situazione personale, storica e sociale che possiamo decidere della società e della storia.
2. Processo di continua rifondazione, l’umanesimo si sviluppa necessariamente attraverso rotture che sono innovazioni (il termine biblico hiddouch significa inaugurazione-innovazione -rinnovamento; enkainosis e anakainosis; novatio e renovatio). Conoscere intimamente l’eredità greco-giudaico-cristiana, metterla sotto rigoroso esame, trasvalutare (Nietzsche) la tradizione: non c’è altro mezzo per combattere l’ignoranza e la censura, e facilitare così la coabitazione delle memorie culturali costruitesi nel corso della storia.
3. Figlio della cultura europea, l’umanesimo è l’incontro di differenze culturali favorite dalla globalizzazione e dall’informatizzazione. L’umanesimo rispetta, traduce e rivaluta le varianti dei bisogni di credere e dei desideri di sapere che sono patrimonio universale di tutte le civiltà.
4. Umanisti, «noi non siamo angeli ma abbiamo un corpo». Così si esprimeva, nel secolo XVI, santa Teresa d’Avila, inaugurando l’età barocca, che non è una Contro-Riforma, ma una Rivoluzione barocca che avvia il secolo dei Lumi. E tuttavia il libero desiderio è un desiderio di morte. E bisognava aspettare la psicoanalisi per raccogliere nell’unica e ultima regolamentazione del linguaggio questa libertà dei desideri che l’umanesimo né censura né blandisce, ma che si propone di mettere in evidenza, di accompagnare e di sublimare.
5. L’umanesimo è un femminismo. La liberazione dei desideri doveva necessariamente condurre all’emancipazione delle donne. Dopo i filosofi dei Lumi che hanno aperto la via, le donne della Rivoluzione francese l’hanno pretesa, questa emancipazione, con Théroigne de Méricourt, con Olympe de Gouges, e via via con Flora Tristan, con Louise Michel e con Simone de Beauvoir, accompagnate dalle lotte delle suffragette inglesi; e voglio ricordare qui le donne cinesi della Rivoluzione borghese del 4 maggio 1919. Le lotte per una parità economica giuridica e politica richiedono una nuova riflessione sulla scelta e la responsabilità della maternità. La secolarizzazione è la sola civiltà ad essere ancora priva di un discorso sulla maternità. Il legame passionale tra la madre e il bambino, questo primo altro, aurora dell’amore e della ominizzazione — quel legame nel quale la continuità biologica diventa senso, alterità e parola è un confidare, un affidarsi. Differente dalla religiosità come dalla funzione paterna, la fiducia materna le completa entrambe, partecipando così a pieno titolo all’etica umanistica.
6. Umanisti, è attraverso la singolarità condivisibile dell’esperienza interiore che possiamo combattere quella nuova banalità del male che è l’automatizzazione della specie umana cui stiamo assistendo. Dal momento che noi siamo esseri parlanti e scriventi, siccome disegniamo, e dipingiamo, e suoniamo, e giochiamo, e calcoliamo, e immaginiamo, e pensiamo: proprio perciò non siamo condannati a diventare degli «elementi di linguaggio» nell’iperconnessione accelerata. L’infinito delle capacità di rappresentazione è il nostro habitat, la nostra dimensione profonda e liberatrice, la nostra libertà.
7. Ma la Babele delle lingue genera anche caos e disordini che l’umanesimo non riuscirà mai a regolare con il semplice ascolto, per quanto attento, prestato alle lingue degli altri. È venuto il momento di riprendere i codici morali di un tempo: senza indebolirli con la pretesa di problematizzarli, e rinnovandoli al cospetto delle nuove singolarità. Lungi dall’essere dei puri arcaismi, i divieti e le limitazioni sono degli argini che non si possono ignorare, se non si vuole sopprimere la memoria che costituisce il patto degli umani tra di loro e con il pianeta, con i pianeti. La storia non appartiene al passato: la Bibbia, i Vangeli, il Corano, il Rigveda, il Tao, abitano il nostro presente. È utopico creare nuovi miti collettivi, e non basta nemmeno interpretare quelli antichi. Ci tocca riscriverli, ripensarli, riviverli: dentro i linguaggi della modernità.
8. Non c’è più un Universo; la ricerca scientifica scopre e indaga continuamente il Multiverso. Molteplicità di culture, di religioni, di gusti e di creazioni. Molteplicità di spazi cosmici, di materie e di energie che coabitano con il vuoto, che si compongono con il vuoto. Non abbiate paura di essere mortali. Capace di pensare il multiverso, l’umanesimo è chiamato a confrontarsi con un compito epocale: iscrivere la mortalità nei multiversi della vita e del cosmo.
9. Chi potrà fare questo? L’umanesimo, perché esso se ne sa prendere cura. Si dirà che la cura amorevole dell’altro, la cura ecologica della terra, l’educazione dei giovani, l’assistenza ai malati, agli handicappati, agli anziani, ai deboli non arrestano né la corsa in avanti delle scienze né l’esplosione del denaro virtuale. L’umanesimo non sarà un regolatore del liberalismo: piuttosto sarà in grado di trasformarlo, senza rovesciamenti apocalittici, o promesse di avvenire gloriosi. Prendendosi il suo tempo, creando una nuova vicinanza e delle solidarietà elementari, l’umanesimo accompagnerà la rivoluzione antropologica che già è annunciata tanto dalla biologia che emancipa le donne, quanto dal lasciar-fare della tecnica e della finanza e dall’impotenza del modello democratico-piramidale, che non riesce a canalizzare le innovazioni.
10. L’uomo non fa la storia, ma la storia siamo noi. Per la prima volta Homo Sapiens è capace di distruggere la terra e se stesso in nome delle sue religioni, credenze o ideologie. E per la prima volta gli uomini e le donne sono capaci di rivalutare in totale trasparenza la religiosità costitutiva dell’essere umano. L’incontro delle nostre diversità, qui ad Assisi, testimonia che l’ipotesi della distruzione non è la sola possibile. Nessuno sa quali esseri umani succederanno a noi che siamo impegnati in questa trasvalutazione antropologica e cosmica senza precedenti. La rifondazione dell’umanesimo non è né un dogma provvidenziale, né un gioco dello spirito: è una scommessa.
L’era del sospetto non basta più. Di fronte alle crisi e alle minacce sempre più gravi, è venuta l’era della scommessa. Dobbiamo avere il coraggio di scommettere sul rinnovamento continuo delle capacità degli uomini e delle donne di credere e di sapere insieme. Perché, nel multiverso circondato di vuoto, l’umanità possa perseguire a lungo il suo destino creativo.
Fonte: Corriere della Sera, 27 ottobre 2011
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