Cristina Biondi: 13. Nuovo dizionario delle parole italiane. Da Donne a Separazione e Riflessione

| 18 Aprile 2019 | Comments (0)

 

DONNE

Le donne non hanno conquistato le Gallie, non hanno scoperto l’America, non hanno scritto il capitale, dipinto la Gioconda o scoperto la relatività. C’è una tendenza, alquanto riduttiva, a sostenere che alle fanciulle è stato impedito l’accesso alla cultura, alla vita d’armi, alla lettura, alla scrittura, al potere, mentre è assai probabile, proprio perché non documentato, che alle nostre ave non gliene sia fregato assolutamente nulla se al centro dell’universo stesse la terra, il sole o qualche miliardo di miliardi di galassie sparse. Loro guardavano altrove. Non hanno nemmeno delegato il potere ed è noto che gli uomini non hanno mai voluto avere donne tra i piedi, preferivano avere ai piedi sudditi, sottoposti e schiavi, più funzionali ai propri intenti. Mogli e madri erano dispensate dal pensare e solo ciò che nel maschio sta a pari distanza dalla testa e dai piedi ha sempre reclamato con forza l’accesso a ciò che nel corpo femminile occupa la medesima posizione.

Grazie alla rivoluzione industriale è diventata meno importante la prestanza fisica, il comunismo si è rivolto, forse con riluttanza, anche alle compagne, la psicoanalisi ha attribuito un inconscio a entrambi i sessi, la scuola ha accolto bambini e bambine, così la donna si è trovata a dover gestire un’anima, che prima forse non aveva un inconscio, un pensiero, un’istruzione, un’opinione politica, un diritto al voto e un lavoro. Non è mica facile fregarsene di tutto e continuare a cucinare, a fare l’orlo a giorno e a curare il giardino. Gli ecologisti temono la catastrofe ambientale e, se le donne moderne sono entrate in campo quando era già stata inaugurata la pars destruens della storia del mondo, devono capire cosa resta della loro eredità, dal momento che madri, nonne e ave non hanno mai fatto testamento.

SUFFRAGIO UNIVERSALE

Il voto alle donne è stato concesso soprattutto perché le guerre avevano ampiamente dimostrato che gli uomini (maschi) hanno gravissimi difetti morali evidenziati dalla brutalità delle campagne militari e delle rivoluzioni, quindi le loro opinioni e le loro decisioni hanno necessitato di trovare un correttivo. È stato un provvedimento estremo, che sarebbe stato avversato dai grandi pensatori del passato e nei primi tempi i suoi effetti sono stati arginati seguendo schemi tradizionali: i mariti hanno influenzato il voto delle mogli, i sacerdoti hanno minacciato inferni e scomuniche a tutte le pecorelle che non si fossero attenute ai loro consigli. Dopo, sia il sistema democratico che la società civile hanno cominciato a scricchiolare dalle fondamenta.

Per avere la parità dei diritti è stato necessario scardinare la famiglia introducendo il divorzio, rendere la maternità facoltativa, grazie alla contraccezione e l’aborto e depenalizzare l’adulterio.

E adesso? La concessione delle quote rosa è un provvedimento un po’ ipocrita, politicamente corretto, ma nessuno, proprio nessuno, crede che concorrerà ad avviare l’umanità a un futuro di condivisione e di eguaglianza.

VOTO E DELEGA

Votare significa, tranne per i pochi candidati, delegare. Anche noi donne abbiamo il diritto di delegare: a perfetti estranei, se tendiamo a valorizzare solo i nostri rapporti personali o a politici conosciuti se, sviluppando la facoltà di accedere a una dimensione collettiva, riteniamo di saperne abbastanza su di loro. A volte la vita ci concede ampi spazi per organizzare il nostro privato, a volte gli sviluppi storici travolgono le individualità e al posto dei nostri progetti, che nel loro piccolo ci fanno conoscere entusiasmi e delusioni, successi e insuccessi, subentra il destino che ci impone di remare in un mare in tempesta.

Nessuno può decidere se nel corso della nostra vita assisteremo all’eruzione del Vesuvio o a un terremoto di magnitudo 9, la cosa non può essere messa ai voti.

Chi vuol essere eletto cerca di convincere i suoi concittadini che possono accedere a un futuro onesto e prospero, affidandosi alle persone giuste che sapranno cavalcare lo spread, l’inflazione, la globalizzazione, rapportarsi con correttezza e armonia alle grandi potenze, partecipare con senso di responsabilità alla gestione collegiale del mondo e fronteggiare le emergenze ambientali. Sotto elezioni le promesse sembrano ispirarsi al nostro sussidiario della prima elementare quando la società veniva presentata come la convivenza pacifica di panettieri, fruttivendoli, fabbri e ciabattini che lavoravano, ognuno nella propria bottega, con paterna benevolenza. Il vigile veniva raffigurato al centro di un incrocio nell’atto di dirigere il traffico, disponibile a orientare i bimbi che si fossero smarriti per un eccesso di autonomia. Chi era un po’ giudizioso a sei anni non correva più grandi rischi: gli adulti vegliavano compatti su di lui, che si era lasciato alle spalle gli orchi cattivi, i lupi e le streghe delle favole narrate dalla nonna, per diventare un cittadino in miniatura.

A catechismo ci convincevano che andare o meno all’inferno dipendeva solo da noi e non da un sergente che per ordine di un capitano, subordinato a un colonnello (etc…), ci imponesse di uscire dalla trincea per affrontare il fuoco nemico. Ai nostri tempi, per un increscioso ritardo nello svolgimento dei programmi scolastici, non si studiava mai la seconda guerra mondiale.

È del tutto ovvio che alle elementari non fossimo in grado di decifrare le fake news e almeno a cinquant’anni ci farebbe bene affrontare la storia del secondo conflitto mondiale, dopo un veloce ripasso delle vicende dell’ultimo millennio.

FEMMINICIDI

Come dimostrato dai fatti, la legge non ha la facoltà di impedire che un uomo uccida la propria moglie, può solo punire il colpevole.

Un marito che tra un quarto d’ora accoltellerà la moglie non è ancora un assassino e gli esiti tragici di una lite in famiglia, di un rally e di una scalata in montagna sono meno prevedibili di un atto terroristico, nel corso del quale c’è qualcuno che ha le idee abbastanza chiare su quello che sta per succedere.

“Era prevedibile” è un’affermazione che discende da due note leggi di Murphy: “Se qualcosa può andar male, andrà male” e “Il senno di poi è una scienza esatta”. Formulare previsioni è una delle necessità che assillano la scienza, che non si accontenta di una mera descrizione dei fatti che trascuri i nessi causali, tipo: Monsieur de La Palisse è morto davanti a Pavia, un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita.

Egli è morto perché la ferita era mortale, con buona pace degli anatomopatologi.

“Era prevedibile e nessuno ha fatto niente” è un commento colpevolizzante che stabilisce un rapporto tra previsione e prevenzione, da cui discende la richiesta di ricorrere a carcerazioni e guerre preventive. Bisognava fare qualcosa prima degli omicidi, qualcuno avrebbe dovuto intervenire per tempo, qualcuno preposto, che si sia premurato di studiare il problema e di trovare soluzioni efficaci, qualcuno al quale indirizzare proteste e indignazione.

Uomini e donne dovrebbero rimanere uniti dall’amore o separarsi, rispettando la volontà di chi vuole andarsene prendendosi cura del dolore di chi non vorrebbe essere lasciato. Ma l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re e tanto meno in quello della repubblica; per trovare qualcuno capace di sciogliere il nodo del libero arbitrio bisognerebbe rivolgersi in alto, molto in alto.

Volendo fare qualcosa nel nostro piccolo, non sarebbe del tutto irrilevante sospendere le vendite delle pistole giocattolo e togliere a 007 la licenza di uccidere, disarmando tutti gli eroi dei nostri tempi.

SISTEMA SCOLASTICO

Un tempo le classi scolastiche erano o maschili o femminili: i bimbi imparavano a comportarsi da uomini, le bimbe da donne. Poi le classi sono diventate miste, affidate a uno stuolo di maestre, più adatte a insegnare la lingua materna che a illustrare la summa del sapere, appannaggio di personaggi come Platone e Aristotele e di tanti altri geni misogeni che erano stati educati dai precettori o dai preti.

Una volta si imparavano le poesie e la memoria era uno strumento utile anche nel caso che tutti i libri fossero finiti al rogo. Oggi la maggior parte dei libri è morta e sepolta nelle biblioteche perché siamo nell’era dei computer.

Da quando in tante classi la metà degli alunni è costituita da ragazzi extracomunitari gli stranieri vegetano tutta la mattina in un limbo d’incomprensione, mentre negli indigeni avviene un’inspiegabile rimozione della lingua materna: nessuno capisce più niente in una situazione di par condicio che getta nella costernazione le insegnanti. Il sapere è al di fuori della portata di tutti: ogni sforzo didattico è vano; è un po’ come se Dante, uscito dall’inferno, avesse tentato di catapultarsi nelle alte sfere del paradiso senza passare per il purgatorio (immagine della scuola media, situata tra le elementari e il liceo).

Scomparso il purgatorio, l’inferno non è più una minaccia in grado di inquietare gli animi, dal momento che nessuno viene più bocciato, ed è svanita l’aspirazione a elevarsi per ottenere quella promozione sociale un tempo concessa ai bravi studenti che si preparavano a diventare medici o avvocati.

MERITOCRAZIA

La meritocrazia viene spesso immaginata come la vittoria della teoria sulla pratica, il prevalere dei pensatori, laureati e prudenti sugli uomini d’azione. È un’ottica sbagliata, che un po’ deriva dal desiderio che le dinamiche che muovono il mondo subiscano un rallentamento, lasciando il tempo di preparare il futuro con una certa consapevolezza, nella speranza che la riflessione si sostituisca all’improvvisazione, riducendo i rischi e gli errori.

La storia ci fornisce un buon esempio della forza propulsiva insita nella meritocrazia: a un certo punto della rivoluzione francese égalité non ha più significato essere uguali, ma avere tutti le stesse potenzialità: “ogni soldato porta nella sua giberna il bastone di maresciallo”.

Gli eserciti di Napoleone hanno rappresentato una formidabile realizzazione della meritocrazia, permettendo ai migliori di salire nella scala gerarchica, per poi andare in guerra con determinazione ed entusiasmo (sob!); peccato che a Waterloo abbiano avuto troppi nemici e poca fortuna. È bene non sottovalutare i rischi della meritocrazia e nemmeno quelli di competenza e preparazione: oggi i raid aerei hanno sostituito le cariche di cavalleria, i piloti vengono accuratamente selezionati ed addestrati ma, anche se sono i migliori, nessuno ci assicura che non vadano a bombardare un campo profughi o ad abbattere le torri gemelle.

Perché “merito” significhi veramente diritto alla stima, alla riconoscenza e alla giusta ricompensa bisognerebbe per prima cosa abolire i “meriti di guerra”. Se continueremo a giocare a soldatini con i protagonisti della storia del mondo, schierando da una parte i buoni (i nostri) e dall’altra parte i cattivi, manterremo in vita anche il concetto di meriti di guerra, premiando gli eroi con promozioni e medaglie.

Oggi molti ferventi democratici invocano l’affermarsi della meritocrazia, ma hanno ben chiaro quello che stanno chiedendo?

PUBBLICITÀ PROGRESSO

La pubblicità vi restituisce una gioia infantile, vi invita ad allungare la mano e prendere ciò che è colorato, luccica o promette di avere un buon sapore. Vi propone quel mix di cieli sereni, prati verdi, giocattoli e oggetti che ha reso il mondo magico ai vostri occhi quando non conoscevate ancora la differenza tra un peluche rosso a pallini neri e la coccinella che si posava davanti a voi, perché tutto era ancora da esplorare, tutto da scoprire con occhi curiosi. Gettare la palla, farsela restituire e gettarla di nuovo: quando avete imparato a dire “palla” avete conquistato l’accesso alla dimensione simbolica, ma avete perso la gioia di quella presa sulla realtà, immediata e gratificante, che il commercio al dettaglio vuole restituirvi. Potete uscire dal supermercato con le borse piene senza conoscere la lingua parlata da commessi e cassiere, usare il bancomat senza pensare alla complessità del sistema bancario, prendere una bistecca come se fosse sempre stata soltanto una merce venduta in un vassoietto di plastica, potete restare ignari delle complessità dei sistemi produttivi e di distribuzione. Quando rientrate a casa, dove non c’è nulla che voi non abbiate già comprato, vi sentite sfiorare da un vago senso di colpa perché ritrovate la dimensione del tempo e l’uso della parola, che vi fa accedere a concetti astratti come “inutilità” e “spreco”. Se volete restare bambini, non aprite il frigorifero e andate a mangiare al più vicino fast food.

FISICAMENTE PRESENTI

Se chiamate un call center, che nonostante il nome inglese risponde in italiano, per prima cosa ascoltate una voce registrata, che dopo avervi sciorinato una lunga premessa che vi responsabilizza per ogni vostra iniziativa, fornendo le premesse giuridiche per vanificare qualsiasi azione legale intentata dagli utenti scontenti (voi cominciate a esserlo, data la perdita di tempo che si rinnova ogni volta che tentate di fare la stessa, identica cosa: prenotare una visita specialistica).

La voce scandisce bene le parole, al prezzo di una perdita totale di espressività, e alla fine del suo discorso vi invita a premere o il tasto uno, o il due, o il tre, o il nove, premettendo che, se avete fatto richiesta di parlare con un operatore, egli è FISICAMENTE presente in territorio italiano. A scuola i presenti rispondevano all’appello, mentre gli assenti venivano considerati tali se non erano comparsi a scuola, non erano entrati in aula e non si erano seduti al loro banco. La presenza era un fatto tangibile, verificabile: chi c’era non era altrove, tantomeno all’estero.

Quando, dopo un lungo tempo di attesa, entrate in contatto con una persona, vi sentite confortati, non tanto perché parlate con qualcuno fisicamente presente in territorio italiano, quanto perché acquisite la certezza che il vostro interlocutore sia un essere vivente. Fisicamente presente a sé stesso in anima e corpo.

Presenza o assenza? Reale o virtuale? To be or not to be, that is the question. Mentre un tempo, se foste entrati in contatto con qualcuno che fosse già morto, avreste fatto la sconcertante esperienza di aver incontrato un fantasma, oggi non vi provoca nessun turbamento vedere un film di settant’anni fa o ascoltare i discorsi di Mussolini pronunciati dalla voce del duce.

Quando i computer saranno in grado di gestire tutte le operazioni di prenotazione tramite registrazioni non vi sarà necessario conoscere l’esatta ubicazione della centrale operativa, dal momento che la tecnologia è tutta al vostro servizio e sotto il vostro controllo. To die, to sleep: perché mai non dovreste dormire sonni tranquilli?

SEPARAZIONE E RIFLESSIONE

Solamente chi non ha mai fatto esperienza della vita di coppia non ha mai pensato: “voglio la separazione… adesso mi separo”. Stranamente la forma del verbo è riflessiva, mentre descrive meglio la situazione un verbo transitivo: io (soggetto) lascio mio marito (oggetto). È ancora più corretto: io (soggetto) lascio mia moglie (oggetto), infatti non si possono annullare millenni di storia e tutta la preistoria: nel matrimonio la donna è sempre stata un oggetto di scambio tra uomini sia nei sistemi patrilineari, che in quelli matrilineari.

Separarsi è riflessivo perché è frutto di una riflessione: si è molto più maturi dopo anni di convivenza. La continuità e la routine hanno poco a che fare con l’amore, sentimento volatile al quale corrisponde un verbo transitivo: io (soggetto) amo te (oggetto). La forma riflessiva è riservata a concetto: “abbiamo smesso di amarci”. Scusate lo scherzo: la lingua italiana ammette anche: “ci ameremo sempre”, “in quarant’anni di vita comune non abbiamo mai smesso di amarci”. Sono frasi che suonano bene, anzi benissimo.

Category: Donne, lavoro, femminismi, Libri e librerie

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