Dalla tivù a storie di vita vera, il viaggio di Pietro Mereu. Intervista di Antonio Francesco Di Lauro

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a destra il regista Pietro Mereu;

a sinistra Gianni Cannas, uno dei protagonisti di ‘L’ultimo centenario’.

 

Dalla tivù a storie di vita vera, il viaggio di Pietro Mereu.

Intervista di Antonio Francesco Di Lauro

 

Pietro Mereu è un regista e documentarista sardo ed è tornato in città. È tornato nella città che l’ha premiato – Bologna – in occasione del Biografilm Festival 2018 per il suo ‘Il clan dei ricciai’, valsogli la candidatura al David di Donatello lo stesso anno.

In giugno ha partecipato all’undicesima edizione del ‘Bio to B – Industry Days’, appuntamento annuale con il Biografilm Festival dedicato al networking business to business fra protagonisti dell’audiovisivo.

Con alle spalle una produzione indubbiamente affascinata dal vero, Pietro negli anni ha dato voce a storie fatte di umiltà e di tradizione in cui – ci spiega – risiede il segreto per una vita “centenaria”.

La Sardegna è il fil rouge che avvolge le sue narrazioni e gli consente di spaziare dalla tradizione culinaria, con ‘Culurgiones mon Amour’e la più recente ‘Retzetas Antigas’, sino a ritratti di realtà tanto marginali quanto ricche di autenticità. Ma non è iniziata così. Il suo viaggio parte da lontano ed incomincia a Milano, dove ha lavorato come autore televisivo.

Da un’esperienza tanto eclettica e dalla curiosità di un ragazzo è nata questa conversazione, che in un certo senso compie anch’essa un viaggio: fa una riflessione sui ferri del mestiere, per poi interrogarsi sugli effetti della rivoluzione tecnologica e passa per il suo ultimo progetto, incentrato sulla vita di un uomo piuttosto popolare in Sardegna e nel resto d’Italia.

Una cosa è presto certa: se si parla di Pietro è proprio impossibile restare fermi.

D. I tuoi documentari spesso ritraggono gente del popolo, nonchè i protagonisti della tradizione rurale sarda. Non vi sono eroi ma c’è qualcosa che emerge con altrettanta dignità: un profondo sentimento di umanità. Qual è il segreto per far emergere tale ricchezza?

R. Sì, c’è grande umanità. Credo che per farla emergere, ad esempio durante un’intervista, sia necessario sentirsi al pari del proprio interlocutore… se ti poni diversamente, se magari ti reputi “più figo” in quanto regista, non trapela alcuna umanità. La persone di strada ce ne danno esempio. Nessuno come loro è in grado di percepire un atteggiamento di superiorità o un interesse fasullo. Inoltre molte persone sono felici di essere oggetto delle attenzioni di un regista e di far parte di un documentario incentrato sulla loro vita. È quindi probabile che la gente intervistata mostri grande disponibilità ad aprirsi. Ci sono tuttavia le dovute eccezioni. Se penso ad alcuni miei lavori passati come ‘I manager di Dio’, mi rendo conto che non è sempre così semplice stabilire una relazione con i soggetti dei miei documentari. Penetrare nella comunità dei monaci benedettini è stato molto complesso per via di dinamiche fatte di preghiere, di pause e di silenzi, troppo distanti dalla comprensione dell’uomo contemporaneo.

Se penso invece a ‘Il clan dei ricciai’, ho incontrato un altro tipo di difficoltà. Ho dovuto sottostare a delle regole, dettate dai membri di una comunità chiusa.

In fin dei conti penso che il documentario rappresenti sempre un dialogo fra autore e protagonista, la cui sintesi è il prodotto finito. Trattandosi dunque di un dialogo, le variabili possono essere molteplici…

D. Penso al tuo ultimo progetto ed in particolar modo al suo protagonista: Nichi Grauso. Perchè è tanto popolare? Come si crea un’intesa con un personaggio simile che, diversamente da altri tuoi soggetti, è ampiamente abituato a vivere sotto i riflettori?

R. Nichi Grauso è con ogni probabilità fra i maggiori artefici in Italia dello sviluppo di internet. Negli anni Novanta fondò ‘Video On Line’, primo internet provider globale d’Italia ed ebbe una stretta collaborazione con Nicholas Negroponte, studioso statunitense che in molti ritengono il più grande esperto di digitalizzazione ed intelligenze artificiali di quel tempo. Grauso ha ispirato aziende come Tiscali e Tin it. Ha reso nota a tutti l’esistenza di un vuoto normativo legato alla nascita di internet, attraverso la registrazione di oltre 20.000 domini.

È un personaggio che mi ha sempre suscitato interesse ed ora, probabilmente, anche lui ha bisogno di raccontarsi. Girare un documentario su di lui vuol dire confrontarsi con un precursore dei tempi moderni.

D. La tua particolare attenzione nel documentare piccole realtà sarde spesso obliate, si riflette anche nella tua sfera personale. Nel 2020 hai deciso di lasciare Milano e sei tornato a casa, in Ogliastra.

R. Ho preso questa decisione in seguito alla Pandemia. Di Milano mi attraevano i suoi eventi, le sue tante opportunità, l’iperconnessione. In un momento storico come quello che abbiamo vissuto, tutti questi vantaggi sono venuti meno ed ho capito che il contesto metropolitano non faceva più al caso mio… ho visto la città nella sua inutilità, “il re è nudo” come si suol dire. Difatti la scelta di migrare verso luoghi più vivibili non è così singolare, ma accomuna un numero sempre più grande di persone, che si sono sentite estremamente sole in grandi città. Beh, a tal proposito, credo anche che l’iperconnessione e l’avvento delle nuove tecnologie non abbiano svolto un ruolo decisivo nel farci sentire meno soli. Tutt’altro. Ciò mi preoccupa ancor di più se penso al rapidissimo sviluppo conosciuto dall’intelligenza artificiale. Alcune volte la utilizzo anch’io per creare delle bozze di contenuto, ma subito dopo realizzo: la macchina progredisce, mentre io mi impigrisco.

D. Dunque l’AI sta trovando larga applicazione anche nel settore cinematografico/documentaristico?

R. Viene utilizzata spesso nel montaggio. Stanno nascendo seminari su come utilizzarla in questa fase, attraverso l’appicazione di tag. Certo, ne traiamo dei benefici. Ma bisogna essere consapevoli del fatto che ogni cosa che agevola l’essere umano, determina anche un suo passo indietro. Sai, questo lavoro che sto iniziando su Grauso mi pone davanti anche a questa tematica: parliamo di persone che vedono il futuro prima di altre, in grado di condizionare l’evoluzione.

D. Nella tua regione sono stati registrati tassi di longevità tra la popolazione, fra i più elevati del mondo. Ciò ha comportato l’inserimento dell’Ogliastra nella “blue zone”. Di che si tratta?

R. La zona blu è stata l’invenzione di uno scienziato sardo e di uno belga, i quali tracciarono sulla cartina i confini delle regioni con il più alto tasso di longevità e, nel farlo, utilizzarono un pennarello blu. Ecco a cosa deve il suo nome. È interessante quanto riportato da un articolo pubblicato lo scorso dicembre: il primato della zona blu si sta via via assottigliando, e continuerà a farlo probabilmente fino a sparire. La longevità, in fin dei conti, è la risposta ad uno stress elevato da parte di una data popolazione, concentrata in un dato territorio. L’Ogliastra è una terra montuosa storicamente abitata da pastori, costretti a percorre chilometri a piedi per spostarsi da un luogo all’altro e a cibarsi di alimenti poveri e genuini. Queste condizioni di vita difficili, sommate ad un’elevata mortalità infantile, hanno dato vita ad un popolo particolarmente longevo. Naturalmente ciò è destinato a cambiare. La strada ora la si percorre su di un suv, l’alimentazione include molti più grassi… per questa ragione io credo che il segreto della longevità lo si possa apprendere guardando indietro, anzichè in avanti: la gente di un tempo teneva maggiormente a ciò che aveva. Questa gente si bastava. La nostra società ha perso di vista questa virtù. Nessuno è più soddisfatto di quello che ha e ciascuno desidera una fetta di volta in volta più grande. Oggi la longevità è considerata alla stregua di un fenomeno mediatico.

D. Venire a contatto con questa ricchezza e raccontarla credi consegni un lascito anche a te come persona e professionista?

R. Devo dire di sì, ma ammetto di cadere un po’ in contraddizione. Sono figlio della civiltà dello spettacolo e dell’apparenza: mi interessa che i miei lavori abbiano successo.

Sulla longevità ci ho creato un festival, il ‘Longevity Fest’, che nasce dall’esigenza di raccontare cos’è davvero questo fenomeno. Quest’anno ci sarà la sua seconda edizione. Penso che oggi molte persone vedano l’invecchiamento come una malattia e, di conseguenza, la longevità come una forma di prevenzione. Si sa dove si comincia ma non si sa dove si finisce… si fa di tutto pur di vivere più a lungo, ma si finisce con il sopravvivere.

D. Ho avuto come la sensazione che, in un mondo in cui si tende a guardare sempre in avanti senza porsi alcun freno, contrariamente tu voglia mettere l’accento su realtà, meno note, che scorrono più lentamente.

R. Il denominatore comune dei miei lavori è proprio questo: inscenare aspetti poco conosciuti della realtà. Fondamentalmente credo che il documentario serva a questo. Ad oggi purtroppo in molti casi rappresenta un veicolo di promozione per gli artisti. Ci sono tanti documentari che vengono spacciati come tali, ma non lo sono: si tratta narrazioni in stile documentaristico il cui unico interesse è raccontare la vita di un grande cantante o di un grande sportivo. Il documentario è qualcosa di più. Nasce per fare luce su zone d’ombra del mondo. Non mi interessa incentrare un documentario sulla vita di personaggi eccezionalmente famosi a meno che essi non si mettano in gioco, scoprendosi completamente.

Il documentario deve fare tutto ciò e, contemporaneamente, mantenere la sua leggerezza, perché rappresenta pur sempre un mezzo d’intrattenimento. Credo che questo pensiero sia condizionato dalla mia esperienza televisiva.

D. Trovi che avere una produzione eclettica alle spalle ed esserti cimentato in vari campi del settore cinematografico, ti permetta di rendere al meglio nei singoli ambiti?

R. Assolutamente sì. Ciascuno trova la sua via facendo cose… noto tante persone snobbare mezzi come la televisione o YouTube. Io al contrario credo che ciascun mezzo possa attivare nuovi stimoli nel regista e fornirgli prospettive differenti. In questo mondo non ci sono regole, ogni percorso è valido. Il problema è che oggi le piattaforme tendono a formattizzare tutto perché probabilmente, a livello commerciale, è più semplice distribuire. Questo non rappresenta soltanto un grande limite per il regista, ma anche un forte impoverimento ai danni del grande pubblico, cui permeano prodotti omologati. Ad oggi il documentario è il genere che sfugge maggiormente a questo appiattimento e perciò resta più creativo. Si usa dire che negli anni ‘70 i discografici producevano ciò che non capivano. Allora sì che tutto era più interessante… infatti quegli anni ci hanno donato Frank Zappa!

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Category: Documentari

About Antonio Francesco Di Lauro: Antonio Francesco Di Lauro Classe 2003, studia presso la facoltà di Scienze Politiche ramo Relazioni Internazionali di Bologna. Collabora con alcune testate e scrive di politica e attualità per un blog gestito da giovani studenti.

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