Nicoletta Teodosi: Nulla di nuovo sul fronte povertà 2013

| 31 Luglio 2013 | Comments (0)

 

 


Nicoletta Teodosi è la presidente di Cilap (Collegamento italiano di lotta alla povertà) sezione italiana della Eapn (European Anti Poverty Network) e fa parte del Comitato Promotore di Dichiariamo Illegale la Povertà.


Che le cose andassero male lo sapevamo, basta guardarsi intorno; quasi si inciampa nelle persone che ad ogni angolo delle città si accovacciano per chiedere l’elemosina o che dormono ai lati delle stazioni centrali.I giardini pubblici sono diventati dei camping anni ’70, ma senza i freak e le tende canadesi. Nessuna distinzione tra italiani e stranieri; in alcuni punti sono più gli uni che gli altri, ma stessa miseria. Ogni semaforo di Roma dà occupazione dalle due alle tre persone in media, dipende dal flusso delle automobili, qui sono del Bangladesh, ma a Napoli sono autoctoni.

L’Istat con il rapporto annuale 2013 sulla povertà fotografa, a nostro avviso, una parte della realtà quella che è quantificabile, visibile alle anagrafi, ai centri per l’impiego (forse), all’Inps e all’Agenzia delle entrate sicuramente.

Dei poveri-poveri ancora non se ne sa niente: non hanno né residenza, né stato di famiglia, non vanno all’Inps e giammai ai centri per l’impiego; non saprebbero che farsene. Si vedono e non sono invisibili come si dice. Entrare in contatto con loro è impegnativo, ma vi si riesce, le organizzazioni di volontariato laiche e cattoliche che lavorano in strada ce la fanno, le istituzioni no. Per queste persone il mandato costituzionale evapora. I diritti non sono per tutti.

Forse non sono poveri-poveri, ma invisibili lo sono di sicuro, coloro che lavorano in maniera irregolare non per scelta; i dati ufficiali riportano la cifra dell’evasione fiscale, ma non quanti realmente sono coloro che pur lavorando non risultano da nessuna parte.

La povertà in Italia è misurata in base ai consumi, se una famiglia di 2 persone nel 2012 ha fatto acquisti per meno di 990,88 euro è considerata relativamente povera. Oltre 3 milioni e 232 mila1 famiglie consumano, cioè acquistano beni e servizi per meno di mille euro mensili, corrispondenti al 12% delle famiglie italiane. Cosa ci si compra o paga con questa cifra? Generi alimentari, bevande, tabacchi, oggetti per la casa, giornali, libri, trasporti, spese sanitarie, manutenzioni e riparazioni, le spese per la casa, l’abbigliamento.

Il questionario elaborato dall’Istat è completo e riesce a dare le informazioni necessarie per capire le condizioni delle famiglie considerate, rappresenta un campione dell’universo nazionale. A questi dati si aggiunga, per completezza, che la povertà relativa è data sì dalla somma dei consumi, ma anche dai trasferimenti sociali (prestazioni economiche e servizi di origine pubblica) paragonabili rispettivamente alle “entrate e alle uscite di una impresa”. Nel 2012 le persone in una condizione di povertà relativa erano 9 milioni 563 mila (16% della popolazione residente sul totale di 59.685.227 nel 2012).

Quindi, per ricapitolare è relativamente povera la famiglia di due persone che acquista beni e servizi per un valore non superiore ai 990,88 euro i cui redditi provengono principlamente da contributi statali.

Se la famiglia tipizzata (2 persone tra i 18-59 anni) spende meno di un paniere minimo di beni e servizi essenziali è considerata povera assoluta. A definire se una famiglia è assolutamente povera contribuiscono diversi indicatori che ne fanno variare la soglia: classi di età, dimensioni del luogo di residenza, la collocazione se in area urbana o periferica, se al Nord piuttosto che al Sud. Nel 2012 era in condizione di povertà assoluta 1 milione 725 mila famiglie per un totale di 4 milioni 814 mila persone (8% della popolazione residente), che se aggiunti ai relativamente poveri fanno oltre 14 milioni.

Le famiglie con componenti superiori a tre vedono aumentare l’incidenza della povertà, soprattutto se hanno figli minori2 .

Se il rischio di povertà aumenta con l’aumentare del nucleo familiare, con l’equivalenza che avere più figli significa maggiore rischio di povertà, come si può pretendere che le famiglie decidano di rischiare e di far vivere in una condizione di povertà i propri figli? È paradossale, ma va ammirata, piuttosto, la saggezza di quelle persone che si limitano ad uno o due figli, essendo limitate dall’incertezza lavorativa, dalla mancanza di servizi all’infanzia, da un sistema del lavoro organizzato in maniera verticale e non sulla conciliazione dei tempi e orari tra lavoro e vita familiare. In queste condizioni le famiglie hanno tutto contro e poco a favore.

Se si rientra nella categoria dei poveri relativi o assoluti, ogni anno viene stabilita la cosiddetta soglia: nel 2011, per esempio la “famiglia di due persone, di età compresa tra i 18-59 anni” residente in un grande comune del nord Italia era considerata assolutamente povera se aveva una spesa minima mensile inferiore a 1.036,37 euro; per un analogo nucleo residente in una città del Sud la soglia di povertà assoluta era di 801,77 euro. Una sola persona al Nord (stessa fascia di età, stessa città) era povera assoluta se spendeva meno o fino a 746,75 euro, al Sud lo era se spendeva meno o fino a 560,60 euro.3

Chi legge la povertà non solo dal punto di vista statistico nazionale “aggiunge”, non arbitrariamente, anche gli obiettivi europei per la riduzione della povertà entro il 2020.

Se la Strategia Europa 2020 ha fissato a 20 milioni il numero delle persone da far uscire da una condizione di rischio di povertà ed esclusione sociale (la cui soglia europea è fissata al 60% del reddito mediano del paese di residenza4), l’Italia nel Programma di Riforma Nazionale 2012 fissa questo obiettivo a 2 milioni e 200 mila le persone da far uscire da una condizione di povertà relativa, deprivazione materiale o appartenenti a famiglie con bassa intensità di lavoro5.

Non sarebbe un obiettivo irraggiungibile se tenessimo solo conto dei nuclei familiari composti da due persone tra i 18-59 anni. Invece la platea è molto più vasta, si arriva infatti a 14.377.000 le persone in condizione di povertà relativa dopo i trasferimenti sociali e povertà assoluta nel 2012. Quel che è peggio è che i trasferimenti sociali non incidono sulla condizione delle famiglie e di certo non la migliora: nel 2009 (fonte Eurostat) la media UE del tasso di rischio di povertà prima dei trasferimenti sociali era del 25,1%, dopo la media si abbassa al 16,3%. In Italia (così come in Grecia, Lettonia, Bulgaria e Spagna) le prestazioni sociali non hanno ridotto il rischio di povertà. Mentre il 50% di chi era esposto in paesi come Irlanda, Svezia, Austria, Danimarca hanno superato la soglia (ricordiamo essere il 60% del reddito mediano del paese di riferimento).

Da sempre Cilap ha considerato la lettura della povertà sulla base dei consumi fuorviante. Affermare che una famiglia di due persone spende meno di mille euro significa che potenzialmente ciascun componente ha un reddito medio mensile di circa 500 euro e questo è molto al di sotto della soglia sia di povertà relativa che assoluta.

Quante sono esattamente le persone che hanno redditi fino a 500 euro e che corrispondono orientativamente ai trasferimenti sociali?

Dire quindi che sono aumentate le famiglie che vivono in povertà relativa perché consumano meno di mille euro, significa poco o niente, secondo noi. E’ una convinzione che non è vicina alla realtà, che è ben peggiore a nostro avviso.

Se individuassimo quante sono le persone che percepiscono redditi fino a 500 euro, riusciremmo a sapere quante sono le persone che vivono in condizione di povertà assoluta. I Comuni queste informazioni le conoscono, perché i cittadini si rivolgono ai servizi sociali e questi registrano gli accessi e le prese in carico e conoscono meglio di altri il proprio bacino di utenza. In assenza di un sistema informativo nazionale molte informazioni restano là dove si svolge il primo contatto.

Se è povero assoluto chi ha consumi inferiori o uguali tra i 750 e i 560 euro (la forchetta tra l’individuo povero che vive al Nord o al Sud tra i 18-59 anni) significa che percepisce redditi inferiori a queste soglie e che evidentemente non coprono il fabbisogno, visto che si parla di consumi minimi. E nella realtà, come si è visto, neanche i trasferimenti monetari coprono i bisogni.

Se intendiamo ridurre la povertà delle persone e delle famiglie che vivono sotto soglia, sappiamo quali sono i mezzi per raggiungere questo obiettivo, per giunta quantificato (2 milioni e 200 mila): un reddito decente per chi lavora, il che significa definire salari minimi al di sotto dei quali non si può andare e che non siano inferiore alla soglia di povertà; un reddito minimo adeguato per coloro che non lavorano o non possono lavorare per il tempo necessario all’uscita della condizione in cui vive in quel momento; accesso ai servizi sanitari pubblici, il che significa riduzione della lista d’attesa nella sanità, trasporti efficienti, investimenti pubblici, prestazioni sociali adeguate.

Tutto ciò prevede una riorganizzazione della filiera di governo dal locale fino al livello centrale che si basi su obiettivi specifici (da non confondersi con gli obiettivi di risultato dei dirigenti), un piano regionale contro la povertà e l’esclusione sociale coerente con il processo di inclusione attiva, la definizione di compiti e funzioni istituzionali, perché visti i risultati, evidentemente non sembrano essere chiari ai diversi livelli di governo.

Per molti anni si è parlato del Metodo Aperto di Coordinamento, che a parte le limitazioni poteva essere sperimentato, almeno come metodo, come procedura. Non è mai stato fatto e noi lo rilanciamo. Lanciamo una sperimentazione, che potrebbe rientrare nelle social innovation, di applicazione di un metodo comune, condiviso per la regia e il coordinamento delle politiche di inclusione sociale e di politiche attive del lavoro. Almeno proviamoci a dire che non funziona, ma dopo averlo sperimentato.

Avremmo così la coniugazione dei principi costituzionali, ma soprattutto avremmo dotato la politica sociale di strumenti, metodi, prassi che attualmente non ci sono.

 


 

Note

1 Il numero tolale delle famiglie al 31/12/2012 è di 25.872.613, il cui numero medio di componenti è pari a 2,3.

2 Tra il 2011 e il 2012 “l’incidenza aumenta tra le famiglie con tre (dal 4,7% al 6,6%), quattro (dal 5,2% all’8,3%) e cinque o più componenti (dal 12,3% al 17,2%), che nella grande maggioranza dei casi sono famiglie con figli: coppie con un figlio (dal 4% al 5,9%, se minore dal 5,7% al 7,1%), con due figli (dal 4,9% al 7,8%, se minori dal 5,8% al 10%) e soprattutto coppie con tre o più figli (dal 10,4% al 16,2%, se minori dal 10,9% al 17,1%)”Istat la povertà in Italia, rapporto 2013.

3 Fonte Istat dati povertà assoluta 2011, elaborazione Cilap.

4 La mediana è un valore statistico che si avvicina il più possibile alla realtà osservata e corrisponde al punto centrale di una sequenza di valori. Per fare alcuni esempi in Austria nel 2009 il 60% della mediana del reddito nazionale è di 958 euro, nei Paesi Bassi di 900, in Francia 877, in Svezia 915, in Romania 176 (la più bassa in Europa), in Italia 756 (Fonte Eurostat 2010 su dati 2009). Significa che al di sotto di queste cifre (soglie) si è in una condizione di povertà.

5 Programma di Riforma Nazionale 2012. Obiettivo 8 contrasto alla povertà.

 

Category: Dichiariamo illegale la povertà

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