Venezia: una Biennale decoloniale? Laura Corradi intervista Silvia Susanna
nelle foto: Silvia Susanna (in alto) e Laura Corradi
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Laura Corradi, fondatrice del Decolonial Feminist Queer Lab, Università della Calabria, intervista Silvia Susanna, Architetta, parte di Daas – Decolonizing Architecture Advanced Studies (https://www.daas.academy), impegnata contro la gentrificazione degli spazi urbani.
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- Questa è la prima Biennale che ha un forte taglio decoloniale: la direttora Leslie ha voluto imprimere questa scelta oppure c’è stata una convergenza di situazioni propizie?
Non conosco dettagliatamente le dinamiche interne di curatela, ma credo che la direzione abbia una discreta autonomia nella definizione delle tematiche e nella selezione degli inviti. Nonostante il presidente de La Biennale, Cicutto, riconosca dei collegamenti tra la nomina di Leslie Lokko e l’edizione del 2021, a mio avviso, si riscontrano sostanziali differenze sui contenuti a partire dal posizionamento della direzione. Lokko è la prima curatrice afro-discendente nella storia della Biennale di Architettura. Con trent’anni di ricerca sulla relazione tra razza, identità e architettura come architettrice, docente e scrittrice, il suo pensiero è radicato in un background interdisciplinare e decoloniale. A lei quindi il merito di aver messo insieme pratiche ed esperienze che parlano del “margine” dal “margine”, con un focus sull’Africa, attraverso voci africane per un futuro pluriversale e decarbonizzato. Lokko ha portato a Venezia progetti che spostano il centro del dibattito verso storie e pratiche che la narrativa occidentale ha etichettato come subalterne e lasciato periferiche, silenziato e molto spesso cancellato. Più della metà dei progetti in mostra proviene dall’Africa o dalla diaspora africana: una scelta chiara e coerente per rimettere in discussione l’auctoritas coloniale modernista di cui anche Biennale è parte. Da un lato questa biennale denuncia le conseguenze dei principi estrattivi, coloniali, patriarcali e modernisti dal punto di vista di chi ha subito l’ordine razziale, dall’altro si pone come un invito al mondo occidentale bianco privilegiato ad ascoltare lo spirito guida della produzione dello spazio in altri contesti, come scrive bell hooks: “una marginalità strategica per la produzione di un discorso contro-egemonico”. Ma la strada è molto lunga e questo implica anche il ripensamento strutturale della nostra vita. Basti pensare che poco prima dell’apertura della Biennale al pubblico, tre dei collaboratori ghanesi di Lokko, invitati a partecipare, non hanno ottenuto il visto dall’ambasciata italiana in Ghana rivelando come ha dichiarato Lokko “l’assurdità e l’ipocrisia di una mostra sull’Africa a cui è negato l’accesso agli africani che hanno contribuito a costruirla.”
- Quest’anno il vostro progetto – così denso di elementi politici – ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia – ce ne vuoi parlare?
Il progetto “Ente di Decolonizzazione” è opera di Sandi Hilal e Alessandro Petti. Sono loro che hanno concepito e immaginato il progetto e di conseguenza vinto il Leone d’Oro. Ciononostante sono davvero felice che scrivi “vostro”. La bellezza di questo progetto sta nel fatto che tutte e tutti quelle e quelli che lo hanno nutrito, accudito, attraversato e abitato hanno partecipato alla sua nascita. Mi riferisco sia alle attivazioni dell’installazione in giro per l’Europa, sia alla fase embrionale durante le due Difficult Heritage Summer School a Borgo Rizza nelle estati 2021 e 2022. Io sono tra coloro che hanno contribuito al progetto partecipando ai dibattiti della prima Summer School, organizzando workshop alla seconda edizione e partecipando a quasi tutte le attivazioni dell’Ente. Preciso che insieme a me in questo percorso ci sono compagne e compagni del postmaster Decolonizing Architecture guidato da Alessandro Petti e Marie Louise Richards e molte altre soggettività del mondo dell’accademia, della ricerca, dell’arte, dell’architettura, dell’attivismo e della cittadinanza attiva e oltre.
Per capire il significato dell’Ente di Decolonizzazione bisogna guardare il lavoro di Sandi Hilal e Alessandro Petti (DAAR- Decolonising Architecture Art Research). Da due decenni la loro pratica rompe le separazioni disciplinari per costruire immaginari demoderni al di là dei saperi elitari e produttivisti intorno all’architettura. DAAR apre la possibilità di costruire spazi e produrre saperi in contrasto con la narrazione ideologica, dominante, occidentale. Il loro lavoro si è radicato in Palestina, dove si sono mobilitati contro l’uso coloniale, repressivo e segregante dell’architettura del regime di occupazione di Israele. Al tempo stesso, attraverso azioni e progetti nel campo di Dheisheh (a sud di Betlemme) dove hanno vissuto, hanno ripensato l’esilio come una condizione politica al di fuori del paradigma Stato-Nazione superando l’approccio umanitario. Quando si sono spostati in Europa, la loro pratica ha affrontato la questione meridionale in relazione alla colonizzazione italiana della Libia, dell’Eritrea e dell’Etiopia, non tanto per equipararle ma per comprendere i lasciti dell’eredità coloniale italiana fuori e dentro l’Italia attraverso l’architettura.
È da questa prospettiva che suggerisco di guardare l’Ente di Decolonizzazione. Il progetto è ancorato a Borgo Rizza nel comune Carlentini in provincia di Siracusa, ma abbraccia un ragionamento trasversale riguardo la memoria spaziale ed emotiva dei processi di costruzione dell’identità nazionale attraverso la sottomissione, l’espulsione e la colonizzazione di chi è stato categorizzato arretrato o improduttivo. Borgo Rizza è un borgo di fondazione fascista costruito nel 1940 nella ruralità siciliana insieme ad altri sette borghi voluti dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS), un’istituzione del governo fascista. Il borgo è basato sullo stesso schema compositivo e funzionale delle architetture italiane coloniali in Libia, Eritrea ed Etiopia usate per addomesticare, sottomettere e modernizzare le colonie.
L’installazione esposta in Biennale riproduce una facciata della sede dell’Ente di Colonizzazione di Borgo Rizza in una forma ruotata e decostruita in volumi su cui potersi sedere. È nelle faglie tra questi volumi che si apre lo spazio per poter dibattere e confrontarsi sulla definizione di patrimonio culturale e sul come possa rappresentare o escludere alcune soggettività. Questo progetto da un lato si propone di rompere l’arida retorica della conservazione di un patrimonio culturale rimettendo in discussione l’automatismo burocratico di certe pratiche di preservazione acquisite. Queste, giustificando la conservazione di un presunto “valore estetico”, perpetrano la cancellazione delle storie di violenza ed espulsione forzata e rendono il costruito appetibile alla filiera del turismo rurale. Una politica pericolosamente in continuità con l’estrattivismo coloniale fascista, risultando incapace di affrontare i processi di defascistizzazione e il lavoro di coscientizzazione collettiva necessario per comprendere chi siamo e chi vogliamo essere. Dall’altro lato, il progetto indaga e riflette, anche attraverso la pratica, i significati del riutilizzo di questi luoghi, partendo da tutti i saperi, dalle esperienze di chiunque entra in relazione, dalla molteplicità dei corpi e dallo spettro di tutte le memorie. L’Ente di Decolonizzazione è dunque un progetto che mira a profanare queste architetture, cioè a sovvertire la sacralità conferita dalla retorica modernista coloniale, a disarticolare i poteri istituzionali dall’interno e a ripensare queste spazialità attraverso un uso quotidiano.
Forse la convergenza di situazioni propizie è relativa al Leone d’Oro. La giuria di questa edizione era composta da Ippolito Pestellini Laparelli, Nora Akawi, Thelma Golden, Tau Tavengwa, Izabela Wieczorek. Chi è in giuria dice qualcosa attraverso il lavoro di un’altra persona, in un certo senso rafforza un’idea tra tutte quelle in mostra. Io non conosco personalmente la giuria e non ho mai avuto conversazioni con chi ha espresso il voto, ma voglio immaginare che questo premio, in questa biennale, in questo momento storico dell’Italia, dove il vento del neofascismo spira forte in tutta Europa, riconosca sia l’urgenza di domandarsi che tipo di eredità è quella fascista coloniale, sia l’importanza di avanzare un processo di defascistizzazione che rimetta in discussione le epistemologie delle narrazioni dominanti.
- The Nebeliwka Hypothesis è suggestiva e ci riporta alle forme di proto-democrazia del paleolitico – ha la stessa età di Uruk in Mesopotamia ma non è gerarchica, è una non-città – circolare a ovali concentrici ed è la prova della possibilità già allora di notevoli aggregazioni orizzontali dove le costruzioni più grandi che si trovano ad intervalli regolari non sono abitazioni ma luoghi di incontro per la vita e le decisioni della comunità. Mi ha stupita che non esistano reperti segnalanti differenze di status o di potere, né nella vita quotidiana né negli utensili tombali …
L’ipotesi di Nebeliwka è un progetto di Forensic Architecture. Eyal Weizman, fondatore di questa pratica è stato con Sandi Hilal e Alessandro Petti iniziatore di DAAR. L’ipotesi di Nebeliwka solleva due questioni: la fecondità della terra e l’assenza di gerarchie in una struttura sociale-abitativa che dobbiamo chiamare città. Due aspetti assenti dal nostro concetto di urbanità, radicato, al contrario, su poteri verticisti, separatisti ed estrattivisti. Forse non è un caso che non ci siano reperti a testimonianza delle differenze di status o di vita quotidiana. E forse questa ipotesi basata sull’orizzontalità tra i membri della collettività e una materialità permeabile degli utensili ci potrebbe aiutare a vedere possibile un ciclo fertile e continuo di scambio tra i membri di una collettività e con il luogo che abita.
- Non è mancata una riflessione sul precariato – a cui la gioventù che si dedica all’architettura si trova costretta – il burnout di chi lavora ‘a progetto’ … amando il proprio lavoro ma dovendo rinunciare a sicurezza e orari decenti, mentre gli anni passano, sempre sul filo del rasoio fra stress e depressione – le testimonianze mi hanno molto colpita, così come le installazioni dei gruppi di homeless e le proposte che ne sono scaturite …
Immagino tu ti riferisca al padiglione della Repubblica Ceca. Purtroppo il burnout del lavoro a progetto fa parte del mito del genio creativo e dello spirito prometeico salvifico e civilizzante dell’architetto. Le politiche neoliberali precarie hanno accelerato l’accettazione dello sfruttamento, in Italia ci sono stagisti molto preparati che per 10-11 ore al giorno prendono 500 euro. Negli anni è diventata una pratica normalizzata alimentata da una narrazione paternalista, competitiva e individualista devota alla dedizione e al sacrificio. Anni fa, Silvio Lorusso coniò il termine: “entreprecariat” un neologismo che unisce lo spirito imprenditoriale alla condizione di precarietà strutturale. Una parola che ben spiegava lo stato di prostrazione a cui la classe creativa si piegava per ambire a un successo irraggiungibile dovuto al gap di accumulazione che le classi sociali leader riescono a mantenere. Questo progetto evidenzia una delle tante facce dello stesso processo coloniale capitalista di sfruttamento di terre, risorse e intelligenze che per l’architettura inizia nel mondo dell’educazione universitaria e poi sfocia nel mondo del lavoro.
- Spettacolare la pericolosa investigazione sulla città carcere cinese denominata “Xinjiang network of detention camps” – uno dei contributi più preziosi della Biennale – oltre al dato architettonico anche le testimonianze sulla vita all’interno, le terapie eseguite senza consenso, gli aborti forzati …
Concordo. L’indagine condotta sulla rete dei campi di detenzione costruiti dal governo cinese per la reclusione di massa dei musulmani è un progetto forte che merita attenzione. Anche questo progetto deve molto al lavoro di Forensic Architecture che come gruppo di ricerca, da anni, si occupa di architettura, spazio e territorio in forma di giornalismo investigativo utilizzando strumentazioni del controllo ma ri-orientandole verso lo sviluppo di inchieste. È per questo motivo che i “tradizionalisti” non capiscono il potenziale di questo tipo di progetti, e tendono a derubricarli come non architettonici perché non allineati alla pratica e responsabili dell’apertura di uno spazio di conflitto fuori e dentro la disciplina.
- Mi ha stupita piacevolmente il tentativo di decolonialità dei contenuti mostrato nei padiglioni di paesi colonizzatori come Uk che ha dato largo spazio a culture nere e come la Spagna che presenta una critica affilata del sistema di produzione e distribuzione capitalista con 5 filmati shock … ma penso anche ai grandi poster-fumetti ed al cartone animato sul flusso del denaro nel capannone dell’Olanda – sarebbe da tradurre in tutte le lingue! La Francia invece non ha dato alcun cenno di cambiamento – una biennale come le altre … Comunque le installazioni più belle le ho trovate ai Giardini e negli spazi dedicati ai paesi africani, ai territori indigeni dell’America cosiddetta latina – con meravigliosi documentari che ti trasportano tra le liane degli dei … E infine il padiglione del Messico, con il progetto di campo sportivo dedicato proprio a Los Nunca Conquistados coloro che non sono mai stati conquistati dal colonialismo …
I padiglioni nazionali a differenza della mostra curata da Leslie Lokko sono gestiti dai curatori nominati dalle istituzioni preposte dai singoli paesi per questo non sempre risultano in risonanza con i temi suggeriti. Non è il caso della Spagna, il padiglione si concentra sui significati della produzione del cibo, un tema che da diversi anni sta avendo molta eco nel mondo dell’architettura. Anche a Borgo Rizza, attraverso una serie di conversazioni e workshop aperti, insieme a Francesca Gattello di Marginal Studio e Steffie de Gaetano, abbiamo ragionato sulla continuità tra poteri coloniali e produzione industriale e le aberrazioni del concetto di tradizione culinaria per la costruzione dell’identità italiana. Il Brasile con il progetto “Terra” curato da Gabriela de Matos e Paulo Tavares merita un’attenzione speciale. Non solo perchè hanno vinto il Leone d’Oro, ma perché sono riusciti a creare uno spazio esperienziale dove il profumo e la matericità riportano le pratiche spaziali delle comunità indigene, e rimandano il visitatore a pensare la terra come suolo, come pianeta oltre i confini geografico-politici.
Sul padiglione Messico c’è da fare un ragionamento specifico. Il tema che hanno proposto è lo studio e le indagini sul campo da basket come laboratorio di trasformazione collettiva, centro di processi politici, sociali e culturali. Lo studio mi sembra rilevante, ma penso sia giusto anche riportare le frizioni interne all’organizzazione di cui ho avuto notizia recentemente. La candidatura di questo progetto nasce infatti dall’alleanza di uno studio di architettura con una molteplicità di soggetti legati al campo della ricerca e dell’arte. Nel bel mezzo dei lavori, però, una querelle sui budget ha messo in crisi la collaborazione tra le parti. Questo si è potuto salvare solo attraverso la mediazione del ministero della Cultura messicano. Mi chiedo dunque quanto il termine decolonialità in questa circostanza sia conciliabile con i processi di produzione.
- Infine concluderei questa intervista con una questione che mi solleva qualche sospetto: non c’è alcun problema, se la decolonialità diventa una opzione abbracciabile dalla Biennale – ambito autorevole non solo per l’architettura ma anche per l’influenza che esercita negli ambiti culturali mainstream? La domesticazione di idee nuove e sovversive, la possibilità che l’urlo delle popolazioni colonizzate, spossessate, schiavizzate, diventi una elemento commestibile per gli apparati culturali dominanti, una merce per valorizzare nuove modalità di profitto, il fiore all’occhiello di istituzioni ancora coloniali … ciò mi porta a riflettere sui meccanismi di cooptazione e sussunzione – tu che ne pensi?
Di questo aspetto ne avevamo parlato proprio poco prima che visitassi biennale. Sicuramente è una questione cruciale che ci dobbiamo porre tutte le volte che vediamo qualcosa che ha una direttrice fortemente radicale ma è in contesti mainstream supportati da molti sponsor come nel caso di Biennale. È inevitabile chiedersi: come mai questo tema è arrivato qui? Chi ne trae beneficio? A chi parla? Come dovremmo interpretare questo orientamento? Sicuramente ci sono contraddizioni quando mostre di questa portata sollevano l’attenzione su ambiti che anni fa non erano nemmeno nei curricula universitari. Credo che le ragioni per le quali Lokko e Biennale siano in alleanza ricadono nell’ambito di mutuo beneficio, Lokko porta il margine al centro e usa la sua posizione per parlare, in un certo senso, anche alla Biennale stessa. Mentre Biennale si dimostra aperta ad accogliere temi che attualmente stanno prendendo molto spazio mantenendo la sua struttura di produzione. Penso di essere favorevole al fatto che le questioni decoloniali diventino punto di ancoraggio per riflessioni, traiettorie di ragionamento collettivo sempre più allargato, ma è fondamentale integrare questi discorsi alla pratica e alla vita altrimenti vengono edulcorati i presupposti. Rimane la domanda: queste alleanze porteranno effettivamente un cambiamento? Di sicuro ha infastidito molti tradizionalisti e conservatori, ma una mostra sulla decolonizzazione non decolonializza. Decolonializzarsi come ho imparato da Rachele Borghi ha a che fare principalmente con noi stessi. Bisogna partire da chi siamo, da quali corpi e a partire da quali esperienze e conoscenze parliamo, di quali privilegi godiamo e come usiamo la nostra posizione, con chi vogliamo costruire complicità e relazioni, che linguaggio usiamo e molto altro. Tutto questo sicuramente ha a che fare non solo con chi parla e rispetto a cosa, ma anche cosa produciamo e in che modo lo facciamo.
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